DI MIRCO DE STEFANI
…La poesia è una composizione di parole messe in musica. La maggior parte delle altre sue definizioni sono insostenibili, o metafisiche…
Ho trovato poca gente, tranne i musicisti, che prestassero la minima attenzione alla musica del poeta stesso… Ezra Pound2
Gabbiani è un’opera di musica e poesia in cui la distinzione tra le due forme di significazione è messa in forse e, alla fine, superata.
Gabbiani: gli uccelli costruttori di nidi fatti di fuscelli impiantati in quel terreno vago e incerto che è il limo della laguna. Operazione laboriosa, risultato di innu-merevoli voli di andata e ritorno, di inizi e ricominciamenti, di ripetizioni di strut-ture a livelli sempre diversi di complessità. Ricerca di nuovi materiali e loro innesto e adeguamento a quanto sta formandosi secondo un progetto di certo inscritto in un codice genetico legato alla conservazione della specie, ma che sembra lasciare spazio a ciò che chiamiamo creatività, inventiva, fantasia…
E attraverso continui moti circolari le costruzioni prendono forma, opponendo len-tamente la propria verticalità al terreno fangoso su cui le acque, a loro volta, eser-citano il ciclico movimento di marea.
Due movimenti si inseguono e si affrontano incessanti: a) l’andirivieni degli uccelli tra le acque e le strutture in costruzione; b) il moto ondoso che tra quelle strutture si intromette e tutto rimodella, sposta, piega, e agisce come forza orizzontale di destabilizzazione su ciò che sta crescendo. Tra i due movimenti: spazio e tempo, giorno e notte, verticalità e orizzontalità, cerchio e linea. Su tutto, la Natura cieca e ineluttabile, con le sue forze e ragioni a noi incomprensibili nel loro significato ulti-mo, ma che pur suggeriscono una progressione ideale dal fuscello alla colonna, dal nido al palazzo, dagli insediamenti animali alla città degli uomini, a Venezia. E appunto di Venezia qui si parla: la prosa di Zanzotto ci conduce alla scoperta della città come nessun altro scritto ha mai fatto. Nessuna ricognizione storico-documentaristica o pretesa di realismo descrittivo, ma piuttosto avvicinamento gra-duale, moto avvolgente attorno a ciò che a sua volta avvolge e coinvolge, attira ed emana, in un caleidoscopio di rispecchiamenti di parole e forme. Questo testo è anche, metaforicamente, il terreno in cui la musica di Gabbiani costruisce i suoi nidi, infigge i propri fuscelli trascinando con sé la poesia e i versi dello stesso Zanzotto, letti, intonati, trasformati in musica. Ma Venezia stessa è una metafora: la città di marmi e palafitte pietrificate è l’immensa partitura di una musica che risuo-na da più di mille anni; urisuo-na partitura composita, fatta di armonie e dissorisuo-nanze, che
ritorna continuamente su se stessa, rinnovandosi nei significati pur restando sempre la medesima.
Gli elementi di questa partitura sono opera delle generazioni di uomini che hanno fatto Venezia; in Gabbiani, gli elementi sono musiche composte dal 1984 al 1999 e qui raccolte e ordinate come, appunto, «nidi di significato», nodi di significazioni autonomi formanti un ciclo che, come il moto di marea, il volo dei gabbiani, il pro-pagarsi della vita, ruota su se stesso. L’opera è un alternarsi di letture in prosa, in poesia, di composizioni strumentali e di liriche intonate dal soprano. Gli excerpta
del testo zanzottiano dedicato a Venezia, scritto nel 1976,3sono il suolo
sedimenta-to e instabile sul quale si inseriscono le composizioni musicali e i versi dello stesso Zanzotto, cantati dal soprano o letti dal poeta stesso. Una funzione di connettivo o di collegamento interinsulare è affidata ai cinque movimenti del pianoforte che costituiscono la composizione Movements from a poetic fragment of Andrea Zanzotto, del 1991. Questi movimenti congiungono tra loro i brani per violino solo, i testi poetici e le letture in prosa.
Ho tratteggiato una sommaria descrizione di Gabbiani: descrizione che dice tutto e non dice niente. La genesi stessa dell’opera contrasta con qualsiasi idea di progetto o di operazione intellettuale programmatica, ed ha piuttosto le caratteristiche della casualità, unica sollecitazione essendo stata la richiesta di composizioni su testo di Andrea Zanzotto per un concerto al Teatrino Groggia di Venezia. Raccolta quindi di individualità formali già realizzate e in sé concluse, e loro ricostituzione in una nuova identità, seguendo unicamente le direttrici dell’equilibrio formale degli acco-stamenti. Nessuna pretesa di teorizzazione né ricerca di significati extramusicali, ma solo desiderio di funzionalità musicale di forme e tempi, risolta, lungo il percorso, in una scoperta ciclicità. Nessuna riflessione teorica ha preceduto la realizzazione di Gabbiani, pur trattandosi di brani già analizzati in occasione di singole esecuzioni o incisioni discografiche, e di altri, come i pezzi per violino, appartenenti a un diver-so ciclo compositivo e presentati qui per la prima volta.
Io non sono ancora riuscito a trovare un significato a quest’opera: è ben chiaro a me il senso di ognuna delle singole composizioni, la sua genesi e le sue strutture, i rap-porti con la poesia: tuttavia, una volta inscritto in questa nuova prospettiva di ascol-to, in un diverso contesto espressivo, ogni brano assume una particolare fisionomia che a sua volta si riflette sugli altri, generando il fenomeno della complessità dei sistemi aggrovigliati che non consente più una descrizione lineare delle strutture. La singola composizione deve essere quindi ascoltata in relazione ai riflessi che genera sul sistema generale: sistema di cui è ad un tempo emanazione ed elemento genera-tivo, causa ed effetto, centro e periferia, figura e sfondo. L’ordine di ascolto dei pezzi e dei testi non coincide con l’ordine cronologico di composizione, per cui ci muoviamo all’interno di un sistema fatto di variabili spazio-temporali complesse: il più attento ascolto dovrebbe cogliere i contrasti tra elementi diversi per struttura e
3ANDREAZANZOTTO, Venezia, forse, in ID., Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1999.
significato, tenerli vivi nella memoria e sostenerne la presenza nell’unità dell’intera rappresentazione. La coesistenza di tempi, stili e forme dissimili è anche ciò che scopriamo percorrendo Venezia o osservandola dall’alto. Piazza San Marco: secoli di storia dell’arte che, ad uno sguardo profondo, stridono violentemente tra loro in una compresenza che dà le vertigini, bloccata per sempre nel tempo e nello spazio lagunari: eppure un’armonia sovraspaziale e sovratemporale emana dal riflesso di forme e architetture, svelando un qualcosa che va oltre, e tutto ricollega ad una per-cezione di politonalità che ricompone in equilibrio instabile le sensazioni più con-trastanti.
Ancora una volta ci dobbiamo servire di metafore verbali per esprimere con paro-le ciò che paro-le paroparo-le non possono dire del tutto: ed ecco allora il ricorso al vocabo-lario della geometria, della fisica e della biologia, nel tentativo di procedere oltre le pure sensazioni che la musica, prima di tutto, comunica; ed è per dare un senso a ciò che destabilizza il nostro stato psicosomatico che cerchiamo di portare le sen-sazioni a livello di concetto e di tradurre l’intraducibile nel linguaggio verbale, e con esso rendere coscienti a noi stessi e agli altri le sensazioni stesse.
Gabbiano, stecco, palafitta, città, Venezia, acqua e fango, maree e fasi lunari, gene-razioni umane e animali… parole che non c’entrano nulla con la musica, puri pre-testi retorici per un discorso che non porta in nessun luogo, che naufraga nel mare del nonsenso; oppure centri generatori di un logos che è tutt’uno con la musica, che è esso stesso musica, poiché non si può separare l’arte dalla descrizione dei suoi significati e dai luoghi dove essa origina, e il valore di un prodotto artistico dal ‘di -scorso’ che esso stesso apre, dalle piste dei significati che da esso si dipartono e ad esso riportano. E più il discorso si fa complesso, labirintico e coinvolgente, e più aumenta la forza dell’opera stessa quale nucleo germinativo di immagini e concetti. Omaggio a Venezia, forse, ma solo in apparenza: non è ancora raggiunto il signifi-cato ultimativo di Gabbiani. Mi sembra, a distanza di un anno dalla prima esecu-zione, di poter ricavare un ulteriore tentativo di senso, che è poi, a ben vedere, il motore primo e inconscio che ha permesso il realizzarsi di questo esile montaggio di fuscelli sbilenchi e instabili, di questo insediamento molecolare di nidi che è l’o-pera stessa. Un’ol’o-pera-collage, composita, mobile, circolare, che sta in vita solo in virtù di un calibrato e precario equilibrio tra forze centrifughe (centri generatori di significati) e forze centripete (nuclei attrattori di significati), come un mulinello che si forma lungo la corrente del fiume e procede ruotando attorno al proprio centro. Ed ecco che qualche aiuto viene dall’ascolto di ogni singolo brano dell’opera: voci alla ricerca di un’alterità a cui rapportarsi, silenzi di solitudini e suoni in movimen-to, echi di echi, ritorni alla memoria e fughe per i labirinti di spazi e tempi delle sin-gole partiture; timbri di voci che si ascoltano reciprocamente e si aspettano nel silenzio, seguendo i voli di una litania antifonale di luci e tenebre. Voci di singola-rità che si cercano e si avvicinano fino a sovrapporre i propri echi e gli aloni di signi-ficato oltre i silenzi, le pause, le ombre; voci che si susseguono e si invocano a vicen-da all’interno di una cattedrale appena illuminata vicen-dalla luce di un tramonto che fil-tra atfil-traverso vefil-trate policrome. Voci che mai si uniscono in una sintesi corale o in
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una luminosa polifonia trionfale: la continuità di pensiero è piuttosto sottintesa, accennata, sfumata, sospesa tra silenzi e oscurità, tra vuoti che collegano filamenti di significato.
Appare evidente, allora, che di un particolare rito si tratta. Gabbiani potrebbe esse-re l’esposizione di un rito in cui musica e poesia si uniscono a celebraesse-re se stesse e nient’altro, una rappresentazione rituale in cui l’oggetto dell’adorazione è la loro stessa esistenza. Partecipando all’esecuzione di quest’opera si assiste ad una serie di inni, di canti di lode che la musica fa della parola, di parole di gloria che la poesia dona alla musica. Il tempio entro il quale e per il quale si svolge il rito, è, forse, Venezia, metafora di tutto ciò che è possibile, campo di forze in cui ordine e caos convivono alla ricerca inesausta di significati, opposizione di trame ordinate e di strutture appena resistenti agli innumerevoli momenti di destabilizzazione. Percorso circolare dunque, corona, intreccio di monodie che si inscrivono nella memoria dell’ascolto che sola le sa intuire come unità: alla fine del percorso tutto di nuovo sembra prendere inizio, all’infinito, come nel brano 13 settembre 1959 (variante), vera e propria mise en abîme dell’intera composizione. E un’operazione progressiva di analisi e di sintesi dovrebbe condurre, partendo dalla ricerca dei significati e dalla descrizione di ogni ‘grano’ della corona – descrizione di descri-zioni dagli elementi semplici alle più complesse strutture – ai significati che ogni ‘grano’ assume lungo il percorso circolare attraverso la memoria e il riflesso degli altri ‘grani’ – analizzati anch’essi lungo le tappe della loro crescente complessità –, fino al raggiungimento del significato estremo dell’opera, che dei significati parzia-li è la sintesi e il superamento.
Versi e musica come ramoscelli conficcati nelle parole del poeta, che, descrivendo Venezia, parla, in verità, dell’arte di dare forma all’essere attraverso le forme del suono, sia quello espresso attraverso le parole e la loro significatività, sia quello espresso dalla musica con il suo indefinito e indefinibile campo semantico: e que-st’arte è l’arte dei gabbiani costruttori di nidi, è l’arte degli uomini costruttori di città, è la musica/poesia che, nelle pagine dei versi/partitura, oppone alla cieca oriz-zontalità del presente una qualche forma di ordine che vince il nonsenso del caos, una rete di interconnessioni che descrive un processo tutto mentale di ricognizione sulla realtà. Una realtà che come il terreno della laguna è estremamente labile, sot-toposta a contrastanti forze di annientamento e ricostituzione. Una realtà in cui l’ar-te oppone le proprie forze altrettanto instabili e sempre a rischio di estinzione. Per avvicinarsi ai luoghi dell’arte dobbiamo rompere le consuete prospettive, vincere le comode abitudini, sradicare false certezze, aprire nuovi sentieri e vedere oltre le schematiche e rassicuranti forme in cui abbiamo ingabbiato la realtà stessa. Ecco allora che il continuo interrogare diventa a sua volta interrogazione che l’arte fa attorno alla sua stessa esistenza, attorno alle sue manifestazioni sensibili. E lo fa non attraverso le vie dell’analisi formale e della ricostruzione oggettiva delle proprie rappresentazioni più o meno artificiose, ma mettendo a confronto se stessa in un autorispecchiamento sul campo, in un osservarsi nei luoghi e nelle forme del suo stesso nascere. La funzione del testo in prosa può ricordare quella del coro dell’an-68 M I R CO D E S T E FA N I
tica tragedia greca: gli stasimi del coro sono il commento a quanto sta avvenendo nella scena, sono la voce del poeta che illumina la realtà drammatica, ne raccoglie il senso e lo comunica allo spettatore. Analogamente, in Gabbiani, le musiche stru-mentali, il canto del soprano, i versi letti, sono introdotti, commentati e resi quasi espliciti nei loro significati, dalle pagine in prosa, che solo apparentemente parlano di Venezia, ma in verità, e fuor di metafora, parlano di ciò che ad esse si interpone e della sua ragione di essere: i significati del fare poetico, le ragioni di esistenza di un’arte sospesa in uno spazio-tempo che non coincide con gli spazi-tempi della quotidianità, e si dà con tutta la forza di un destino, di un dover-essere istintivo e insopprimibile: una volontà pari alla necessità inesorabile che spinge i gabbiani lagunari a costruire i propri nidi per sé e per le generazioni a venire.
Le piccole isole della laguna sono anche i punti di approdo di questo andirivieni di voci e suoni, dei significati e dei rispecchiamenti. Le costruzioni umane poggianti da secoli sul bosco pietrificato immerso nei fondali marini, rappresentano quanto di più resistente possa essere concepito in una situazione di totale instabilità delle strutture, di assoluta precarietà della stabilità… Le metafore dei rispecchiamenti sono innumerevoli e comprendono terra e mare, poesia e musica, voli e inabissa-menti, flussi di tempo e sospensione del tempo, moti di avanzamento e circolarità infinite.
Non esiste una pausa stabilizzante: la mente si trova in ‘eterno esilio’ poiché qual-siasi approdo definitivo le è negato, ed il suo moto è un continuo andare e venire attorno ad un centro gravitazionale. La parola fine non ha senso, e tutto deve dun-que ricominciare, giorno per giorno, nella microstoria dei singoli uomini come nella lunga storia della città.
Ed è con questo auspicio di apertura alla vita presente e futura, di avanzamento e allontanamento perpetui, di fluidità permanente e libera da ogni tipo di costrizio-ne, che Gabbiani gioca la sua vicenda di fragile opera che parla della possibilità di un’opera in musica e poesia di rivelare semplicemente se stessa e le sue ragioni d’es-sere e di generare da sé i propri significati, raccontando di acque e lagune, di can-neti e città, raccontando Venezia e la sua vita.
Ich habe Bambus geschnitten: für dich, mein Sohn. Ich habe gelebt…4
Paul Celan
4«Ho tagliato bambù: / per te, figlio mio. / Ho vissuto…». PAULCELAN, Die Niemandsrose (1963), in ID., Poesie, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1998.
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