• Non ci sono risultati.

La filosofia come critica totale per un’affermazione gioiosa: Nietzsche

Nelle vite, questo mi sembra interessante, i buchi che esse comportano, le lacune, a volte drammatiche, a volte no. Quasi tutte le vite conoscono catalessi o specie di sonnambulismi che durano anni. Forse è in questi buchi che si fa movimento. Poiché la questione è proprio come fare il movimento, come forare un muro, per smettere di battere la testa475.

Così Deleuze descrive il periodo che separa Empirismo e soggettività dalla monografia dedicata a Nietzsche476, edita nel 1962. In questi otto anni di silenzio, che potrebbero forse sembrare troppi per un filosofo così entusiasta e produttivo come Deleuze, interpretati alla luce del lavoro su Nietzsche, assomigliano molto alla ricerca di una più solida identità come filosofo, di una nuance, che potesse finalmente “tirarlo fuori” da tutta la pratica accademica della storia della filosofia477, seppur ancora legato alle istituzioni forti del suo tempo. Non bisogna dimenticare infatti che Deleuze scrive la sua monografia in un momento storico in cui, tra pareri assolutamente negativi, dovuti per lo più all’ombra del Reich che ne condizionava l’interpretazione478, il tentativo di

epurazione da questo legame proposto da Bataille479, e l’ingresso nel programma dell’agrégation di filosofia nel 1958, Nietzsche era diventato ormai un classico, e quindi un terreno di confronto filosofico possibile.

A distinguere il lavoro di Deleuze dagli altri è il movente che porta il nostro autore ad affrontare Nietzsche, a “sezionarlo”, scegliendone accuratamente gli argomenti, e utilizzarlo in funzione di una critica molto più ampia rispetto all’hegelismo. Ci suggerisce Hardt che, come nel caso di Bergson, nonostante questa monografia sia guidata da un antagonismo verso Hegel, presenta al suo interno «altri avversari che sono

475 Cfr. G. Deleuze, Segni ed eventi (1988), in S. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, Mimesis, Milano 1997, p. 26.

476 Nietzsche et la philosophie, Puf, Parigi 1962, trad. italiana di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002.

477 G. Bianco, Introduzione, in Gilles Deleuze. Da cristo alla borghesia e altri scritti. Saggi, recensioni, lezioni 1945-1957, cit., p. 59. Bianco si riferisce a G. Deleuze, Lettera ad un amico severo, in Pourparler, cit., p. 15.

478 In un convegno organizzato a Royaumont, nel 1964, lo stesso Deleuze si pronuncerà in merito alle ragioni di una falsata interpretazione di Nietzsche che sono, a suo parere, sia di ordine «di edizione», causata da un’arbitrarietà nel maneggiamento dei frammenti postumi, sia «patologiche», ovvero la follia che colpì il filosofo per cui non riuscì a scrivere quello che riteneva essenziale, sia metodologiche, perché, sostituendo i fatti con le interpretazioni, i testi nicciani richiedevano una lettura molto più profonda dei suoi concetti (Cfr. Nietzsche, atti del convegno, luglio 1964, Les Éditions de Minuit, Parigi 1967, pp. 275- 87. Per la traduzione italiana facciamo riferimento a in D. Borca (trad. italiana a cura di), Gilles Deleuze. L’isola deserta e altri scritti. Saggi, recensioni, lezioni 1945-1957, cit., Conclusioni sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno, pp. 145-157.

più vicini a Nietzsche e condividono alcune delle sue preoccupazioni»480, tra i quali, il

maggiore, è Kant.

Infatti, solo attraverso le formulazioni nicciane di “senso” e “valore”, diventa possibile per Deleuze mostrare completamente le fragilità della critica kantiana, il suo eccessivo addomesticamento, e porre finalmente che «il problema critico sta nel valore dei valori, nella valutazione dalla quale proviene il loro valore; è il problema della loro creazione»: allora se

Kant non ha condotto la vera critica perché non ha saputo porne il problema in termini di valori, […] nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le mosse dal fatto che la filosofia dei valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della critica, il solo modo di realizzare la critica totale, ossia di fare filosofia a «colpi di martello»481.

Quello che non fa cadere in contraddizione un Deleuze che afferma ora, dopo aver tentato a lungo di criticarla, la necessità di una negazione, cosa che abbiamo avuto modo di documentare nelle pagine dedicate a Bergson, è la radicalità di questa negazione. Negare adesso significa propriamente distruggere, «morte del nemico, senza resurrezione»482; è l’ipotesi dialettica all’estreme conseguenze, è la realizzazione dell’eventualità prevista da Hegel secondo cui, per una completa affermazione del movimento e dei suoi termini, la vita sia messa in gioco, esposta al pericolo del suo annullamento. La massima affermazione a cui tende Deleuze prevede infatti che non ci siano parti illese, che nulla si mantenga intatto, che tutto si trasformi, perché solo a seguito dell’opposizione totale, quasi violenta, avviene l’autentica liberazione del nuovo, avviene il positivo.

Da qui l’insufficienza della critica kantiana: è vero che

il colpo di genio di Kant fu di aver concepito, nella Critica della Ragion Pura, una critica immanente alla ragione che non si basasse né sul sentimento, né sull’esperienza o su qualsivoglia istanza esterna; una critica delle illusioni provenienti dalla ragione stessa e non dall’esterno,

ma a queste premesse seguì la scelta infelice di fare della ragione «tribunale e, nel col tempo, l’accusato, […] giudicante e giudicato»: «Kant non possedeva un metodo che consentisse di giudicare la ragione dall’interno senza affidarle il compito di essere

480 M. Hardt, C. Savi (trad. italiana a cura di), Gilles Deleuze. un apprendistato in filosofia, cit., p. 70. 481 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 3-4.

giudice di se stessa»483, e rinuncia all’immanenza quando stabilisce la zona franca dei

principi trascendentali, i quali condizionano la ragione dall’esterno e sono esonerati dalla critica perché condizioni della critica stessa.

Se nel precedente paragrafo abbiamo mostrato come l’attenzione di Deleuze si focalizzasse principalmente sulla ricerca delle condizioni interne, della mente-soggetto con Hume, del reale con Bergson, l’interesse, adesso, si fa genetico:

noi ricerchiamo una genesi della ragione, una genesi dell’intelletto e delle sue categorie: quali sono le forze della ragione e dell’intelletto? Quale volontà si cela e si manifesta nella ragione? Chi sta dietro la ragione, dentro la ragione stessa? Con la volontà di potenza e il metodo che ne deriva Nietzsche dispone del principio di una genesi interna484.

Ma come si coniuga questo nuovo interesse con il rifiuto, di ascendenza gueroultiana, di occuparsi in filosofia del problema della genesi, un rifiuto espresso a più riprese nelle sue analisi e che adesso invece procede pari passo con la sua critica all’impostazione metafisica tradizionale? Qual è il nuovo senso, il nuovo valore, di questa domanda sull’origine? Sembra che Nietzsche abbia generato, attraverso la sua rottura filosofica, lo spazio utile a radicalizzare questa questione, che abbia provocato quella distanza giusta ad acuire la critica deleuziana: non si tratta più di agire criticamente sulle risposte che la filosofia ha prodotto nel tempo, ma finalmente di ripartire dalla domanda, sempre la stessa, che, dal momento in cui è stata posta, ha stabilito cosa fosse l’origine.

Ciò significa innanzitutto percorrerla fino in fondo, fino a comprendere che il «che

cos’è?» socratico-platonico, che orientava la nostra ricerca, ci avrebbe resi vittime della

grande illusione dell’essenza, innescandone una caccia infinita, e di una lettura reattiva del reale, riducendo la filosofia ad uno stato quasi catatonico, come un miraggio a servizio della scienza.

Dunque dovremmo innanzitutto chiederci a “chi” dobbiamo questo precoce smarrimento per comprendere quale relazione esiste tra una domanda e il pensiero che presuppone. Attraverso Platone conosciamo il metodo di interrogazione socratica che consisteva nel sottoporre chiunque ad un «che cos’è…?», riferendosi al bello, il giusto, il buono, per ottenere ogni volta lo stesso deludente risultato: ciascuno rispondeva alla domanda facendo riferimento a ciò che è bello, giusto, e così via. Qui Deleuze usa parole importanti: «è il trionfo di Socrate: non si risponde alla domanda «che cos’è il

483 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 136. 484 Ibidem.

bello?» indicando ciò che è bello». Socrate tra godimento dall’inadeguatezza del suo interlocutore incapace di porsi correttamente rispetto alle cose e rispetto al problema. Anche se la lettura nicciana potrebbe sembrare, a tratti, eccessivamente pilotata da un finale già deciso, giudicando Socrate la prima di una serie di figure che hanno causato il trionfo del risentimento sulla vita, allo stesso tempo essa sembrerebbe contestualizzare la prima grande frattura tra il filosofo e il senso comune, basata su un’incomunicabilità di registri linguistici qualitativamente differenti e coronata da una consequenziale gerarchia di valore, a favore del primo. Paradossalmente il dominio sul reale, la sua verità, risultano detenuti da chi, tra Socrate e «i giovinetti, vecchi testardi, famosi sofisti», ricerca ciò che, proprio nella realtà, non può avere alcun riscontro.

Ritorniamo però a Platone e serviamoci ancora della domanda sul bello: Nietzsche- Deleuze ci fa capire che proprio da questa differenza di linguaggio deriva la separazione platonica tra

cose che sono belle accidentalmente e secondo il divenire e che possono servire solo da esempio, e il Bello che è tale per necessità, il bello secondo l’essere e per essenza. L’opposizione platonica di essenza e apparenza, di essere e divenire, deriva quindi anzitutto da un modo di domandare, dalla formulazione della domanda485.

Polemicamente Deleuze si chiede se, in effetti, il metodo di Socrate sia in grado di produrre risultati non nichilistici486 e se invece il sofista Ippia, «che si limitava a rispondere «chi» quando gli veniva chiesto «che cosa»», non avesse al contrario intuito che

la domanda chi? fosse […] la più adatta a determinare l’essenza, in quanto non faceva riferimento, come invece credeva Socrate, a degli esempi frammentari, bensì alla continuità degli oggetti concreti considerati nel loro divenire, al divenire-bello di tutti gli oggetti menzionabili487.

Opponendosi con forza alla dialettica socratico-platonica, Ippia dà voce ad un’altra concezione dell’essenza, la cui indagine necessita di un nuovo metodo, pluralista ed

485 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 113.

486 «È tuttavia il caso di chiedersi se il trionfo di Socrate sia davvero meritato; non sembra infatti che il metodo di Socrate dia molti frutti: esso predomina nei dialoghi cosiddetti aporetici, dove appunto il nichilismo regna sovrano. È certo sciocco citare ciò che è bello quando vien chiesto che cos’è il bello; non è altrettanto certo però che la domanda «che cos’è il bello?» lo sia di meno; né che essa sia legittima e ben posta, anche e soprattutto in funzione alla ricerca di un’essenza.», G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 113.

empirista, che si rifaccia all’essere delle cose in quanto derivato da «affinità tra fenomeni e forze e da una coordinazione tra forza e volontà»488.

Mentre il “che cos’è” dà un senso, l’assegna, intervenendo dunque dall’esterno sulla cosa, il “chi” la fa parlare, l’interpella a partire da ciò che la determina dall’interno, ovvero senso e valore, «il senso di ciò che viene detto, la valutazione di colui che parla»489. Riportando le parole di Nietzsche: «l’“essenza”, l’“entità” sono qualcosa di prospettivistico e presuppongono già una pluralità. Alla base c’è sempre un: che cos’è ciò per me” (per noi, per tutto ciò che vive)»490.

Potremmo dire che il chi? nicciano non significhi affatto una rinuncia all’essenza, ma possibilità di ritrovarla al di qua della cosa, nel tra delle cose, inaugurando un modo di indagare il reale che trova fondamento in una metafisica “rovesciata”491 dalla morte di

488 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 115.

489 Entretien avec Gill Deleuze [sic]. Intervista di J-. N. Vuarnet, in Les Lettres françaises, n. 1223, 28 febbraio – 5 marzo 1968, pp. 5, 7, 9. Per la traduzione italiana facciamo riferimento a D. Borca (trad. italiana a cura di) Gilles Deleuze. L’isola deserta e altri scritti.Testi e interviste 1953-1974, Nietzsche e l’immagine del pensiero, pp. 167- 176, cit. p. 168.

490 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, p. 66, in G. Colli, M. Montinari (a cura di), S. Giametta (tra. italiana a cura di), Opere, Adelphi, Milano, 1964, vol. VIII, t. 3.

491 In occasione dell’articolo En créant la pataphysique, Jarry a ouvert la voie a la phénoménologie, Deleuze si riferisce alla necessità, testimoniata da Marx, Heidegger e, soprattutto, da Nietzsche, per un nuovo pensiero, che porti con sé nuovi concetti, di passare attraverso un tipo particolare di superamento della metafisica che, a suo parere, trova un’adeguata descrizione nel termine “patafisica” di A. Jarry: «un epifenomeno è ciò che si aggiunge a un fenomeno. La patafisica (…) è la scienza di ciò che si aggiunge alla metafisica, sia in essa, sia fuori di essa, estendendosi così lontano al di là di questa quanto questo al di là della fisica. Esempio: dato che l’epifenomeno è spesso l’accidente, la patafisica sarà soprattutto la scienza del particolare, nonostante si dica che esiste scienza solo del generale» (A. Jarry, Gestes et opinions du docteur Fauslroll, pataphysicien, in Œuvres complètes, libro II, cap. VIII, cit., p. 668; trad. italiana Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico, in La candela verde, Adelphi, Milano 1969, p. 27, in D. Borca (trad. italiana a cura di) Gilles Deleuze. L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, cit., p. 92.). Il tentativo della patafisica verrà a sua volta completato, secondo Deleuze, dalla proposta di K. Axelos, che rimprovera ai suoi maestri un residuo attaccamento alla metafisica e «nella nozione di planetario trova il motivo e la condizione, l’oggetto e il soggetto, il possibile e il negativo del nuovo pensiero», il quale rappresenta un’«enumerazione di sensi», secondo «un Gioco che […] non ha altra regola se non quella di affermare tutto ciò che “può” essere affermato (incluso il caso e il non-senso) e di negare tutto ciò che “può” essere negato (incluso Dio e l’uomo)». Questo planetarismo, «globale, errante, itinerante, organizzante, pianificatore, piattezza, ingranaggio […] instaura un dialogo irriducibile tra il frammento e il tutto», dove per Essere si intende quello «in divenire della totalità frammentaria e frammentata» (p. 93). Trattando questi due autori, Deleuze dimostra l’importante nesso che lega la rivoluzione contenutistica a quella formale, che termina con la fondazione di nuovi termini o la loro radicale riformulazione. Dal canto nostro potremmo trovare, in queste parole, l’ennesima dimostrazione di quanto anche il tentativo di allontanamento più radicale dalla metafisica, in qualche modo, finisca per ri-comprenderla, anche in un senso abbastanza tradizionale, all’interno di espressioni di cui si può cogliere la portata innovatrice solo ripercorrendo il percorso deleuziano, solo se si cerca di scorgere quali sono, nelle sue parole, amici e nemici dei suoi nuovi significati.

Dio che, in ogni versione lasciataci da Nietzsche, significa richiesta di una nuova forma di pensiero, una trasmutazione dei valori492.

Deleuze, che non rinuncerà mai al bagaglio terminologico e alle tematiche più care ai suoi maestri, trova in questo trasmutare l’operazione che meglio esprime il progetto messo in pratica dal suo modus operandi, già intravisto precedentemente, di avvalersi di numerosi “incontri filosofici” al fine di rivalutare e ribaltare costantemente termini e temi della sua scuola, della sua tradizione, con gli strumenti fornitegli da questa stessa tradizione. Lo testimoniano la scelta degli autori analizzati nelle sue monografie e quella delle problematiche, alcune delle quali ritornano in tutte le opere, ma sempre nutriti di nuove nuances.

Quello che infatti pare agire come un brusio nella macchina deleuziana è il desiderio di riuscire a parlare di genesi, di essenza, di senso, di fondamento come ciò che si costruisce nel discorso filosofico e non ciò che, in qualità di presupposto, ne determina la direzione fin dall’inizio, lasciando libera la filosofia di creare nuovi contenuti che ispirino la ricerca di nuove forme, nuove modalità di espressione, una «nuova immagine di pensiero e al tempo stesso nuove tecniche»493. È come il brusio dell’evento nicciano che «ha bisogno di molto silenzio e di molto tempo per trovare infine le forze in grado di dargli una essenza», un significato che non ha in sé, perché in attesa dello «splendido dono dell’esteriorità»494.

A nostro parere, da questo punto di vista, l’incontro con Nietzsche è stato determinante, non solo per ruolo di cesura che il filosofo tedesco riveste nella storia della filosofia in generale, per la portata rivoluzionaria che gli è comunemente riconosciuta, ma soprattutto perché, dalla potenza del chi del filosofo tedesco, è disceso un vero e proprio metodo, causa forse di uno dei primi autentici strappi tra Deleuze e i suoi maestri, in particolare Alquié.

Abbiamo avuto già possibilità di citare l’episodio della discussione che, nel 1967, vide coinvolti il nostro autore e diversi personaggi illustri del suo tempo, la quale seguì all’esposizione di alcuni dei temi trattati nella sua tesi di dottorato, Differenza e

ripetizione, allora ancora in via di completamento sotto la supervisione di Maurice de

Gandillac. In tale occasione Deleuze si preoccuperà di spiegare, soprattutto al suo caro

492 G. Deleuze, En créant la pataphysique Jarry a ouvert la voie a la phénoménologie, in Arts, 27 mai-2 juin 1964, p, 5. Per la traduzione italiana facciamo riferimento a Creando la patafisica Jarry ha aperto la strada alla fenomenologia, in D. Borca (trad. italiana a cura di), Gilles Deleuze. L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, cit., pp. 91-94, cit. cfr. p. 91.

493 G. Deleuze, Nietzsche e l’immagine del pensiero, cit., p. 174. 494 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 235.

insegnante, che il metodo della drammatizzazione, quello che detronizza il celebre che

cos’è? a favore di una serie di altre domande, a suo parere le uniche ad essere state

realmente utilizzate dai grandi filosofi495, non gioca a sfavore del filosofico, ma al contrario lo riporta al rigore e alla verità dei dinamismi reali che lo rendono necessario. Tale metodo consiste infatti nel far corrispondere, al singolo concetto, un sistema di determinazioni, ovvero

delle determinazioni spazio-temporali dinamiche, pre-qualitative e pre- estensive, che hanno «luogo» in sistemi intensivi in cui si suddividono delle differenze in profondità, che hanno per «pazienti» dei soggetti-abbozzi, e la «funzione» di attualizzare le idee…496.

Come spiega Deleuze a De Gandillac, «quando lei fa corrispondere un sistema di determinazioni spazio-temporali di questo tipo ad un concetto, mi sembra che sostituisca a un logos un «dramma», che stabilisca il dramma in questo logos»497: ecco la “drammatizzazione” operata da tale metodo.

Ma bisogna ritornare alla monografia su Nietzsche, in particolare al paragrafo Il metodo

Nietzsche, per comprendere il cuore di questo drammatizzare e a cosa corrispondono,

originariamente, tali determinazioni.

Questo metodo richiede prima di tutto che ogni concetto, sentimento, fede, vengano «considerati sintomi di una volontà che vuole qualcosa», in modo da «scoprire ciò che vuole colui il quale dice, pensa o prova qualcosa e che questo dipende dal fatto che in lui ci sono quella determinata volontà, quelle determinate forze e quello che è il suo modo di essere»498.

495 «È vero che molti filosofi si sono posti la domanda che cos’è? ma forse era soltanto un modo comodo di esprimersi. Certo, Kant si chiede «che cos’è un oggetto?», ma se lo chiede dentro la cornice di una domanda più profonda di un come?, di cui ha saputo rinnovare il senso: «come è possibile?» mi sembra che la cosa più importante sia il modo nuovo con cui Kant interpreta la domanda come? e quando Leibniz si accontenta di chiedere che cos’è?, ottiene forse qualcos’altro al di là delle definizioni che lui stesso chiama nominali? Quando invece giunge a delle definizioni reali, non è forse grazie a dei come?, da che punto di vista?, in che caso? C’è in Leibniz tutta una topologia, una casistica, che si esprime proprio nel suo interesse per il diritto», G. Deleuze, La méthode de dramatisation, in Bulletin de la Société française de Philosophie, vol. LXI, n. 3, luglio - settembre 1967, pp. 89-118 (Société Française de Philosophie, 28 gennaio 1967; discussione con F. Alquié, J. Beaufret, G. Bouligand, S. Breton, M. de Gandillac, J. Merleau-Ponty, N. Mouloud, A. Philonenko, L. Prenant, P.-M. Schuhl, M. Souriau, J. Ullmo, J.Wahl). Per la traduzione italiana facciamo riferimento a D. Borca (trad. italiana a cura di), Il metodo della drammatizzazione, in Gilles Deleuze. L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, cit., pp. 116-144, cit. p. 132.

496 G. Deleuze, Il metodo della drammatizzazione, cit., p. 134. 497 Ibidem.

Cosa vuole colui che vuole qualcosa, cosa fa di quel volere il suo volere? Questa è la domanda tragica, l’atto drammatico, poiché è la sola in grado di rivelarci che, al fondo di ogni cosa, c’è sempre una volontà che vuole, e che questo è il suo contenuto latente499. Ne consegue che ciascuna di esse avrà modo di esprimersi, se stimolata dalla