1 «Non ne posso più dell’altrove»: tentativi di normalizzazione
1. La fine del desiderio?
1.1 Walter Siti, come tutti
Troppi paradisi è il capitolo finale della trilogia, punto di approdo del lungo percorso
di deformazione e trasformazione del personaggio Walter. Dopo essere uscito dal sottosuolo “infernale” di Scuola di nudo e essersi “purgato” attraverso la vicenda d’amore di Un dolore normale, ritroviamo un Walter sessantenne ormai venuto a patti con il mondo: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa» (TP, p. 11).88
Siti chiarisce subito che Walter si è finalmente fatto parte della realtà mediocre. I desideri di disobbedienza che un tempo lo animavano sembrano del tutto risolti, persino l’antagonismo con i grandi nemici è stato superato:
Molti anni fa piangevo subendo l'arroganza di due colleghi pisani, che avevo soprannominato il Padre e il Cane; ora mi comporto come loro - se volessi, il Padre potrei essere io. (TP, p. 129)
Non solo Walter ha abbandonato il conflitto, ma addirittura si è identificato con quegli uomini meschini da cui si sentiva schiacciato nella sua minorità. Interessante è tuttavia l’utilizzo del condizionale: la vita a cui è approdato è profondamente mediocre, non si è fatto padrone ma preferisce rimanere uomo di mezzo, complice ma mai artefice primario di quello che accade. Walter voleva rifiutare il mondo e invece è rimasto «medio» (TP, p. 11), senza più neppure alcuna spinta per criticarlo. Non a caso, in
Troppi paradisi ha finalmente comprato casa lasciando quell’appartamento che era
stato «dei Nudi e della Scalata-al-cielo»: «ero in affitto, chiunque me ne poteva cacciare» (TP, p. 35). Dopo aver vissuto per anni da non titolare della propria esistenza, Walter ha ormai raggiunto una stabile integrazione.
L’atteggiamento di Walter infatti è mutato anche nei confronti di un grande tema che sempre lo aveva accompagnato: la malattia. In Scuola di nudo Ruggero e Fausta erano gravemente ammalati sia in quanto falliti sia come prodotti del mondo corrotto, ancora in Un dolore normale l’amore con Mimmo era trattato come un virus infettivo. Adesso
88 Si ricorderà che Mimmo era stato scelto per l’“esperimento d’amore” proprio per il suo valore di «campione di universo» (DN, p. 92).
121 invece esiste addirittura una «mediocrità di tipo sanitario»: Walter tiene sotto controllo la salute con «metodici check-up» (TP, p. 13) e conduce una vita tutto sommato regolare. Anche la malattia assume i toni della routine, un male del mondo del tutto addomesticato. Fin da subito è centrale l’idea della facilità con cui si possono ottenere le cose in questa nuova era storica e dell’esistenza individuale del protagonista: tutta la narrazione di Troppi paradisi sarà pervasa da un’analisi del consumismo e delle merci accessibili. Inoltre, stavolta davvero la normalizzazione passa anche dall’amore, cioè da una relazione coniugale. Il nuovo compagno di Walter è Sergio Serenelli, un giovane autore televisivo che sembra dargli appunto una certa «serenità», termine che sottende inevitabilmente anche la mediocrità di questo affetto. Almeno per il momento, tutti gli antichi dolori e le ossessioni per i nudi sono dimenticati: Walter ha una solida relazione, una casa, una buona posizione lavorativa. Addirittura lui e Sergio hanno potuto “comprare” un figlio:
Con Sergio abbiamo deciso di adottare a distanza un piccolo colombiano, Hernan, gli mandiamo seicento euro l’anno e l’aiutiamo negli studi. Sergio voleva andarlo a trovare a Bogotà, ma l’ho convinto che è meglio non turbare il suo rapporto con la famiglia. (TP, p. 13)
L’incapacità di generare un figlio (e con questo la vita stessa), che tanto aveva scorticato Walter a causa della sua impotenza come maschio e come uomo, sembra ora risolvibile con seicento euro l’anno. Anche il bambino in questione è, nei fatti, un oggetto di consumo che funziona da palliativo: un modo degli occidentali per assicurarsi una coscienza più pulita nei confronti delle disgrazie altrui. Non a caso, Walter insiste per mantenere una debita distanza, a differenza di quando in Scuola di
nudo viaggiava in America latina raccontando di quelle povertà. Nello specifico Sergio
rappresenta veramente la coniugalità e accompagna Walter verso l’accettazione della vita senza il conflitto che invece ancora aveva resistito con Mimmo: «Abbracciandolo sento il suo cuore [di Sergio] trentenne che guida il mio, stanco, verso le plaghe sconosciute dell’integrazione. Forse sarebbe ora, per me» (TP, p. 40).
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1.2 Normalizzazioni familiari
Sergio del resto non è solo un marito ma, ancora una volta, un figlio. Come già è successo nelle relazioni precedenti Walter proietta sul compagno più giovane la paternità altrimenti irrealizzabile: «Un figlio. Questo è Sergio per me ed è nato regolarmente, come i figli fortunati, da un atto d’amore. Solo che quest’atto d’amore è […] stato consumato […] col figlio stesso» (TP, p. 36). La differenza rispetto al passato è semmai che Sergio regolarizza l’esistenza di Walter: se il debole Ruggero diventava anche figlio per essere dominato, se Mimmo era un ragazzo sprovveduto da seguire nella sua crescita tumultuosa, Sergio è un figlio ormai grande e di buona famiglia, che Walter seguirà di lato e tramite cui potrebbe rivivere qualche entusiasmo. L’integrazione cui Walter è approdato non solo gli consente di esplicitare “l’incesto” con il figlio-amante, in precedenza più problematico, ma soprattutto gli ha consentito di stabilizzarsi anche lui in una dimensione familiare: «sto facendo sogni da madre. Non più sogni di padronanza, ma di preoccupazione e di cura» (TP, p.122). È proprio Walter a fornire il paragone tra Mimmo, una «pianta selvatica» che ha fatto la fine di ogni essere randagio, e Sergio, una pianta «coltivata» da «appartamenti eleganti» (TP, p. 36).
L’altra mutazione rispetto ai legami familiari la si vede nel rapporto con i genitori. Innanzitutto sono vivi, a differenza di quanto si leggeva in Scuola di nudo: di per sé elemento disorientante, questa incongruenza risulta in realtà non solo coerente col genere dell’autofiction, ma soprattutto coerente rispetto a un percorso di formazione e trasformazione che ha subito il protagonista. I genitori erano nel primo romanzo due presenze fantasmatiche a cui Walter accedeva solo tramite ricordi sconnessi, squarci della propria infanzia che ritornavano nella coscienza come in una seduta psicanalitica. Il risentimento nei loro confronti esplodeva improvvisamente e si intuiva che le colpe originali della sua esistenza risiedevano in buona parte nella durezza della madre e nella lontananza del padre. In Un dolore normale erano già tornati in vita ma di fatto non introdotti nella storia. Nel capitolo finale di questa trilogia, invece, i genitori diventano personaggi parlanti e raccontati al presente: due anziani semplici e in fondo perbene, che tuttavia hanno la colpa di prendere sulle spalle tutta la mediocrità del mondo, sembrandone soddisfatti. Un certo cinismo di Walter e molta della sua insoddisfazione trovano ora delle spiegazioni nella vita meschina dei suoi:
123 Mia madre è anche lei molto grassa. Sta sempre seduta a lamentarsi.
A tavola mangia poco, sembra che ingrassi d’aria, poi la notte o nelle ore morte del pomeriggio la vedi che sgranocchia croste di formaggio, gelati dell’hard discount, infette merendine che sanno di sabbia. Divora i figli, il marito. Soprattutto sono i pensieri non espressi che l’hanno ingrassata, le delusioni mandate giù. Quando contemplo la sua massa amorfa, […], mi vergogno d’essere uscito da quel corpo, mi vergogno dei desideri che ha avuto da giovane. Eccola lì: un grumo di potere ottuso e frustrato […]. (TP, p. 48)
I genitori hanno scelto per loro una vita da «gregari» e questo da sempre offende Walter terribilmente. La madre che fagocita il figlio non è un’immagine nuova, lo stesso disagio di Walter nel pensare alla propria nascita caratterizzava un passaggio importante di Scuola di nudo. Se Walter però può descrivere i gesti quotidiani della madre è perché ormai il risentimento si unisce alla rassegnazione, i suoi genitori non rappresentano che gli umili salvati dagli eccessi proprio dall’indigenza (economica e culturale). Loro hanno avuto il coraggio «di chi accetta la meschinità come un tratto
collettivo» (TP, p. 50), esattamente come Walter ha infine scelto di fare per sé:
«Mediocri, come me» (TP, p. 50). I dialoghi in dialetto emiliano, per esempio, sono ora sempre accompagnati da una traduzione: il groviglio del legame familiare si è districato. Walter non teme i significati di quelle parole, le conosce e le può restituire a tutti. Una volta che Walter ha accettato di essere in fondo simile alla sua famiglia, i genitori possono morire una volta per tutte davanti a lui. Proprio la morte del padre è trattata senza esibizione di dolore e anzi sembrerebbe l’evento «archetipo» che quasi lo conferma come uomo:
Quando squilla il mio, di telefonino, è mia sorella che piange, «papà è peggiorato, è entrato in coma». Il primo moto è di soddisfazione, l’evento archetipo chiamato la “morte del padre” sta accadendo ora, potrò analizzarlo e raccontarlo; ci saranno risparmiate le agonie, le lunghe degenze, le spese inutili […]. Il secondo moto è di disappunto: oggi è mercoledì, domani sera ci sarà presumibilmente la veglia funebre, mi perdo la puntata del Grande Fratello. (TP, p. 194)
124 Interessante è il riferimento alla tivù. Il fatto di perdere la puntata del Grande Fratello non ha valore soltanto perché abbassa la drammaticità dell’evento ma anche perché Walter pensa a sé stesso come spettatore di quella morte, così come ha imparato ad esserlo dei programmi televisivi. Gli eventi della cosiddetta “realtà” vengono depotenziati e messi sullo stesso piano della tivù: quello che accade ha valore perché potrà essere raccontato, rappresentato, come se fuori da questa rappresentazione non esistesse niente. «L’Europa non si sta forse trasformando in un continente di spettatori?» (TP, p. 198) si chiede Walter. Anche «l’evento archetipo», infatti, viene subito depotenziato: «Sta famosa esperienza archetipa, nel complesso, si è rivelata fiacca, niente di che. Tutti versavano fiumi di lacrime alla saldatura della cassa, io fissavo gli operai» (TP, p. 197). Nessun vero moto di disperazione, piuttosto la consapevolezza ormai scoperta di quale sia l’eredità lasciatagli dal padre: l’impotenza. Walter ha lasciato che gli ultimi giorni del padre si consumassero senza recuperare con lui un dialogo mai esistito veramente, mentre lo stesso padre si ostinava a minimizzare il ricovero. Alfeo Siti era un uomo mediocre che aveva fatto della sua vita una «mania di astensione» (TP, p. 197), esattamente come Walter non è mai riuscito veramente ad esercitare la propria identità nel mondo:
Anche stavolta, che era quella definitiva, ci siamo evitati. [...] È da questa lacuna che si è generato il doppio piano su cui ho strutturato il mio essere nel mondo: al livello inferiore la vita quotidiana, […] al livello superiore la venerazione per ciò che è extraumano, il rifugio dove ogni competizione si brucia e l’eros diventa preghiera. (TP, p. 197-8)
1.3 Mutazioni del desiderio
Possiamo provare a interpretare lo statuto del soggetto in Troppi paradisi secondo le categorie che elabora Massimo Recalcati nel suo Uomo senza inconscio.89 Nel saggio
Recalcati sviluppa la tesi secondo cui l’uomo contemporaneo non dispone più di un
89 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, figure della nuova critica psicoanalitca, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010.
125 inconscio e cioè di un rimosso simbolico. Poiché il rimosso è ciò che vive negli istinti dell’Es scontrandosi con il principio di realtà del Super-io, l’uomo freudiano era sottoposto ad una Legge che gli garantiva di perpetuare un desiderio dal «carattere indistruttibile».90 Lo scontro tra principio di realtà e principio di piacere cioè manteneva vivo il desiderio di un soggetto che non poteva agire liberamente. Il desiderio, inoltre, si definiva sempre come desiderio dell’Altro e della differenza, costringendo l’io a modellarsi proprio sull’Altro. Il soggetto del nostro tempo sembrerebbe vivere invece senza più limiti e «senza mediazioni simboliche» a causa della logica consumistica, che agisce non già come liberazione effettiva ma, svincolando gli uomini dalle sublimazioni e «promettendo un godimento immediato», li rende così sostanzialmente vuoti e identici gli uni agli altri.91 Secondo Recalcati questo è il problema:
Il soggetto svincolato dalla Legge smarrisce la sua forza propulsiva per integrarsi anonimamente in un programma collettivo di godimento sconnesso dalla castrazione simbolica e privo di soddisfazione, attivato dal discorso del capitalista.92
Si ricorderà a tal proposito che «la castrazione simbolica» era stata una delle direttrici fondanti di Scuola di nudo e in generale del personaggio Walter finora conosciuto. Adesso però sembra che il valore simbolico della sublimazione sia scomparso e che Walter si sia accontentato di vivere nel mondo mercificato. Il fatto che sia stata superata anche la dialettica servo padrone nei confronti dei rivali risponde proprio a questa mutazione, perché viene a mancare un vero modello ideale, un Padre. Soprattutto quello che Recalcati evidenzia è la mutazione dell’Io in soggetto anonimo e standardizzato sottoposto non più a un principio di piacere ma a un godimento sempre accessibile. In effetti in uno dei passi più potenti del romanzo proprio Walter si confessa ormai completamente connivente con il mondo, in particolare quello occidentale e capitalistico. Quello che evidenzia è la moltiplicata possibilità di accesso a cose e luoghi, sconnessi da qualsiasi valore “religioso”, cioè simbolico. L’uomo
90 Ivi, p. 6. 91 Ivi, p. 9. 92 Ivi, p. 8.
126 occidentale crede solo nel denaro con cui compra e non demanda la ragione della sua esistenza a nessuna entità o valore superiore:
Io sono l’Occidente […]. Più che l’Occidente forse sono il Vecchio Occidente, quello che non ha potere. Ma basta che mi trasferisca in Tunisia, e di potere ne ho tanto –sono il turista che colleziona emozioni, pagandole. […] Prevengo i conflitti apparendo generoso e tollerante, dimostrando al rivale che conviene a lui diventare come sono io. Sono l’Occidente perché odio le emergenze e ho fatto della comodità il mio dio; […] Perché mi piace che se premo un bottone gli eventi accadano per miracolo, ma non ammetterei mai di dover rendere omaggio a un’entità superiore. Sono l’Occidente perché godo di un tale benessere che posso occuparmi di sciocchezze, e posso chiamare sciocchezze le forze oscure che non controllo […]. (TP, p. 186)
Siti compie in questo caso un’operazione fondamentale: piuttosto che analizzare il fenomeno capitalistico dall’esterno, magari condannandolo con giudizi morali, si confessa anche lui parte del gioco, non si nasconde e anzi dimostra come è avvenuta la sua trasformazione. L’atteggiamento è al fondo nichilista ma, come scrive Donnarumma, non avrebbe senso rimproverarglielo: «non è il nichilismo la lente migliore per guardare una troppo larga parte degli ultimi decenni, e la loro critica più spietata?».93 Siti costruisce un personaggio che induce la riflessione del lettore sulla base della mancata identificazione: in teoria chiunque legga della sua mediocrità e, più in generale, della sua condotta spesso discutibile, istintivamente rifiuta questo soggetto. In realtà, creare un personaggio che si confessi spesso meschino è probabilmente più incisivo di qualsiasi critica aperta al mondo occidentale. Walter esibisce sostanzialmente un certo amoralismo che, come nota Donnarumma, «faccia o non faccia il gioco dell’immoralità ordinaria» almeno contrasta tanto «moralismo di ritorno».94
93 D. Brogi, R. Donnarumma, D. Giglioli, G. Pedullà, Walter Siti, Troppi paradisi, in «Allegoria», 55, 2006, p. 216.
127 Rispetto al desiderio, nello specifico Walter dimostra come tutto sia infinitamente più facile da ottenere e che anzi il benessere diffuso muti la percezione del valore delle cose. Come scrive ancora Recalcati, Marcuse ha parlato di «desublimazione repressiva» per definire come il capitalismo distrugga ogni limite al godimento in modo repressivo, cioè omologando i soggetti con la forza.95 Proprio il concetto di godimento incondizionato sembra avere insomma soppiantato il desiderio in senso freudiano. In Troppi paradisi questo concetto è centrale: la società occidentale impone i nuovi imperativi del godimento e della saturazione di tutti i desideri. In altre parole, vorrebbe eliminare l’idea del paradiso da raggiungere tramite un faticoso moto verso l’alto e trasferire una serie spicciolata di paradisi, troppi, in terra. Come vedremo meglio, le merci sono a tutti gli effetti degli idoli che consentono di trascendere direttamente sul divano di casa. Tuttavia, la saturazione dei desideri nel sistema capitalista è endemicamente irraggiungibile. Ornella Tajani ha parlato a questo proposito dell’individuo consumistico come «Kitschmensch, l’uomo Kitsch»,96 un
soggetto che non possiede un desiderio reale ma accumulando merci si illude di possedere una qualche soddisfazione. In realtà, non sta comprando che «il surrogato della felicità».97 È lo stesso Walter a spiegare questa mutazione:
Più che il paese dei sogni realizzati, gli Usa sono il paese dei sogni realizzabili: cioè della fine del desiderio. Hanno capito che per estinguerli, basta avvicinare i desideri alla loro soddisfazione – perché tu non abbia il tempo di riformularli, di nutrirli, di elevarli a ideale. (TP, p. 213)
Il desiderio freudiano sembra esaurito, ma non già per lasciare il campo alla soddisfazione, quanto invece alla (ir)realizzabilità reiterata dei desideri. L’appagamento venduto insieme alle merci non si compie mai e soprattutto non deve compiersi per garantire la sopravvivenza del capitalismo: l’esistenza contemporanea è tiranneggiata da un «sempre-di-più» (TP, p. 259) che ci induce ad avere, avere, avere. L’acquisto, infatti, non realizza nessun possesso ma è soltanto un’azione che deve
95 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 9.
96 O. Tajani, I desideri dell’uomo Kitsch: i troppi paradisi di Walter Siti, in «Between. Figure del desiderio. Retorica, temi, immagini», vol. 3, n. 5, 2013.
128 ripetersi all’infinito. Nella logica del godimento entrano allora in gioco elementi nuovi: le dipendenze, per esempio, sono un tentativo di soddisfare la martellante serie di modelli proposti e un modo per essere sempre performanti rispetto agli stimoli. Scrive Walter:
La cocaina è la droga perfetta in un’epoca di omologazione: è ormai economicamente accessibile ai borgatari che fanno impicci, ma costa ancora quel tanto in più dell’eroina perché la si possa pensare la droga dei ricchi - è l’equivalente degli swatch e della linea jeans di Armani. Solo che per i ricchi è la droga della performance.
(TP, p. 13)
L’omologazione che consegue alla mutazione del desiderio si realizza soprattutto tramite la diffusione di beni che erano concessi solo a pochi, imponendo a tutti di essere costantemente reattivi e produttivi.
1.4 Le saturazioni (im)possibili: merci, immagini, corpi
La saturazione del desiderio contemporaneo sta soprattutto nei sistemi d’acquisto, nella profusione di merci che possano appunto dare una parvenza di appagamento:
Comprando si è onnipotenti, soprattutto se compri qualcosa che ti serve poco; i centri commerciali sono isole dei beati dove ogni tuo desiderio è un ordine. (TP, p. 145)
Il centro commerciale è uno degli elementi più interessanti dello sviluppo capitalista perché nasce come il luogo dove tutto è concentrato e dunque accessibile, magari a poco prezzo. Freschi d’estate e ben caldi d’inverno questi centri vivono davvero come piccoli cosmi rassicuranti, sostituendosi peraltro ai centri storici che viceversa accusano della loro decadenza la grande distribuzione. Il desiderio di possedere un oggetto è in qualche modo diventato «ordine», cioè imperativo morale a cui obbediamo ingannati dalla pubblicità del prodotto che invece lo presenta come al nostro servizio. La dipendenza dalle merci è tale che Walter confessa di essere travolto
129 da un certo «furore» di fronte ai negozi chiusi, che dovrebbero invece mantenersi sempre aperti: «comprare è necessario come respirare e si respira senza interruzione» (TP, p. 53). Nello specifico, la diatriba sugli orari dei negozi è stata e potrebbe essere interessante; in questo caso ci limiteremo a evidenziare come il personaggio del romanzo si confessi veramente un occidentale qualunque che smania per i suoi vizi, pronto dunque a ignorare qualsiasi correttezza per soddisfare sé stesso. Walter scrive che l’obiettivo finale del consumismo è insomma quello di «dare l’illusione del Paradiso in terra», o viceversa quello di protestare «per l’inesistenza di Dio» (TP, p. 145): le persone non riescono più ad affidarsi a una legge trascendente, tutto è drasticamente abbassato, contingente. I bisogni quotidiani vengono assolutizzati, le merci sono i nuovi idoli perché sono incredibilmente meno complesse rispetto alla divinità, facili da gestire e sostituire.
La maggior parte delle merci è una truffa non solo perché non ci serve veramente, ma anche perché non possiede autenticità in sé: una piccola farfalla di carta che Walter tiene incollata all’armadio tecnicamente è stata fabbricata da «mani peruviane» ma poi comprata proprio a Roma in un negozietto «equo e solidale» (TP, p. 261). A ben vedere, il consumismo ha colmato molte distanze, culturali e anche geografiche, ma