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La finestra nel quadro

Nel documento Il quadro nel quadro (pagine 60-65)

Come ho spiegato più avanti (Visioni e Simboli, 2 ed., III) è più semplice rappresentare l’interno dell’esterno, uno spazio limitato che quello infinito. Il procedimento dei registri elimina questo sistema non appena possibile. Nella pittura pompeiana, il paesaggio di solito si rivela un capriccio. Quando, dal XV secolo, per i pittori si prospettano problemi collegati alle rappresentazioni spaziali e di luminosità (ciò che solitamente e noiosamente si chiama, la terza dimensione), nel dipingere scene d’interni nel quadro, si diffonde la formula di aprire nella parete dello sfondo una finestrella, attraverso la quale si può vedere l’esterno. Con questo sistema l’artista riesce a dare una visione relativamente soddisfacente del mondo, senza invischiarsi in terribili problematiche legate all’imitazione paesaggistica. La cornice della finestra è come la cornice di un quadro e in realtà, la “veduta” è come un “quadro nel quadro”, al quale è giustapposto uno spazio distinto, meticolosamente limitato; Delaunay o Dufy dovranno ancora attendere prima di vedere la finestra invadere e tiranneggiare l’interno.

Appare chiaro che si possa anche trasmettere la sensazione opposta: in un paesaggio, le finestre si aprono verso uno o vari interni che interessano particolarmente l’artista. Quelle dei paesini rappresentati da Giotto (per esempio, la Cacciata dei diavoli da Arezzo, Assisi, ca. 1300) da Martini (Guidoriccio da Fogliano, Siena, Palazzo Pubblico, 1328) o Ambrogio

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Lorenzetti (Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, c.s., 1337), sembrano così vuote che vediamo a malapena una decorazione, come le strade dei film western. Invece, nella pittura nordica, quegli scenari si animano. La straordinaria pala d’altare Storie della Maddalena di Lukas Moser (Chiesa di Tiefenbronn, 1431) ci mostra, fra le altre novità, quattro finestre aperte, affinché possiamo vedere meglio la scena intima della leggenda. Nella Passione di Memling (Torino, Galleria Sabauda, ca. 1470) e nelle Sette Gioie di Maria (Pinacoteca di Monaco, 1480), i muri si schiudono lasciando scorgere ciò che vi è al di là. In una delle bellissime pale del

Reliquiario di Sant’Orsola (Ospedale di San Giovanni, Bruges, 1489)

vediamo la santa e le compagne di viaggio (le vergini) sbarcare a Colonia ed entrare nella città; da due finestre o aperture di una delle case assistiamo al momento nel quale la santa ha la visione dell’angelo che le annuncia il martirio. Se Giotto creava uno scenario vuoto, Memling ne crea uno con diverse mansiones (come quello della Passione di Valenciennes) adattato per le differenti azioni e le “vedute” rovesciate, cioè, viste dall’esterno verso l’interno. Proprio Beato Angelico utilizza questo sistema nel Sogno di

Innocenzo III (Incoronazione della Vergine, Louvre) nel quale, il pittore ha

cassato una parete per vedere meglio il Papa addormentato, mentre, chi sogna, si materializza in primo piano.

È come se l’artista appendesse alla parete un quadro con interno. Naturalmente, a volte, accade che non si riesca a scorgere il paesaggio esterno. Beccafumi, nella Natività della Vergine (Pinacoteca di Siena, 1543) crea degli spazi estranei, grazie all’apertura di porte misteriose che sporgono verso altre scene interne, nelle quali San Gioacchino medita, mentre un cane e una bambina infrangono lo specchio. Si tratta del metodo che influenzerà Velázquez nelle opere che esamineremo in seguito. L’allievo Del Mazo, sia nell’opera La famiglia dell’artista (Vienna, Kunsthistorisches) sia nei ritratti di Marianna d’Austria (Museo del Greco, Toledo e National Gallery, Londra) e di Margherita d’Austria (Prado), apre una porta su uno scorcio interno che

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ci mostra, nel primo caso, Velázquez a lavoro nella bottega, mentre, nelle altre tele, Carlo II che ripete con le Meninas, il gesto dell’Infanta Margherita, nell’opera più celebre del grande artista. Gli olandesi sono maestri delle vedute d’interni; Pieter de Hooch combina l’interno con l’esterno come fossero una fisarmonica, Emmanuel de Witte, invece, è capace di dissezionare una casa intera (Museo Boijmans, Interno con una donna che

suona il virginale) e Vermeer giunge alla finezza superba, nel piccolo cortile

visto dalla Stradina di Delft, autentico “quadro nel quadro” che dice tutto di sé per l’immenso splendore (Rijksmuseum). In un ritratto simbolico che raffigura Elisabetta d’Inghilterra, attribuito a Federico Zuccari (Pinacoteca di Siena) la regina appare fra due sfondi: uno con i medaglioni e l’altro, con una prospettiva palatina con i personaggi di là di un mappamondo. L’artista ha appeso i quadri allegorici all’interno di un’opera, come il setaccio che Elisabetta tiene in mano, allo stesso tempo, oggetti e simboli. Aertsen e Beuckelaer, invece, utilizzano la “veduta” per un’altra stanza, quella della storia degli israeliti.

Tuttavia la tecnica più usata rimane la “veduta” così chiamata, come dire, il paesaggio che si vede dall’interno e del quale i fiamminghi, specialmente i Van Eyck, ci hanno lasciato esempi eclatanti. Questo scorcio prospettico non ha alcuna relazione tematica con la scena principale; a volte, come nella cosiddetta Madonna del cancelliere Rolin del Louvre (ca. 1425), si aggiunge un dettaglio documentario, la città di Liegi. Talvolta, come per le due pale del polittico chiuso ma apribile dell’Agnello mistico, nel quale scorgiamo i personaggi dell’Annunciazione, dalla finestra vediamo semplicemente la parte alta della casa, come dire, il mondo quotidiano trasformato grazie alla buona novella. La “veduta” si converte in un delizioso luogo comune e i maestri di stirpe fiamminga non dimenticheranno questo particolare, da Flémalle o Petrus Christus a Van der Weyden, da Jorge Ingles a Dalmau. Dürer, infine, introduce una splendida “veduta” nell’autoritratto del Prado (1498).

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In Italia il suo impiego non è raro. Mantegna, sullo sfondo della Morte

della Vergine (Prado, ca. 1462) ci consegna l’ammirevole scorcio del lago di

Mantova e Antonello da Messina, lascia sfuggire lo sguardo dalla finestra dello studio di San Gerolamo (National Gallery, Londra). Tuttavia questa finestra-specchio non interessa esplicitamente chi è, per indole, idealista e non descrittivo. Le “vedute” intarsiate di Fra Giovanni da Verona (Chiesa di Santa Maria in Organo, Verona, 1499) non sono la copia della realtà esterna, bensì una propedeutica mentale; come ripeteva il mio maestro Francastel, il rinascimento architettonico compare prima nella pittura che nelle città. Ciò che gli italiani maggiormente prediligono è relegare le osservazioni della vita quotidiana alle pale d’altare, cioè, alla “pala” trattata come una grande composizione ideale. Sono splendide quelle di Giovanni Bellini, nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, a Venezia e quella di Bartolomeo Montagna, nel Museo Civico di Vicenza. Fra Bartolomeo (Baccio della Porta) nella Pala Corondolet colloca lo scorcio nella parte inferiore della Vergine, come se galleggiasse di sotto la porta (Cattedrale di Besançon). Gli italiani, popolo dal carattere gioviale e dalla fervida immaginazione, non si contentano mai dei risultati offerti dalla visione prospettica e, eclettici, come Sebastiano del Piombo (Dorotea, Musei statali di Berlino) sono gli unici a presentarci la “veduta” nella pura espressione del paesaggio, all’interno di un “quadro nel quadro”. Lotto la utilizza per darci qualche notizia sui personaggi da lui ritratti (Gruppo di Famiglia della National Gallery, Londra, con paesaggio del Vesuvio?); un sistema che adotteranno abbondantemente i pittori del XVII secolo, come Rubens nei ritratti di Isabella Clara e dell’arciduca Alberto, con i paesaggi dei castelli, autentici “quadri” realizzati da un altro artista (Jan Brueghel, Prado) o Fray Juan Ricci nella tela di Fray

Alonso de San Vitores (Museo di Burgos), con lo scorcio sulla città.

Non entro in merito alle opere, nelle quali, la “veduta” abbraccia lo sfondo intero (per esempio, come nella Gioconda di Leonardo da Vinci, Louvre) o che costituisce lo scenario dell’azione (La pesca miracolosa di

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Konrad Witz, Museo d’Arte e Storia, Ginevra; Le lance o Santi Antonio

Abate e Paolo Eremita, di Velázquez, Prado). Ma non posso omettere il dato

oggettivo che, la “veduta”, per chiamarsi tale, come dire, un quadro appeso sullo sfondo di un altro quadro, non ha bisogno di essere incorniciata da un rettangolo o un quadrato. Vi sono delle “bocche di grotte”, dalle quali, l’anacoreta, percepisce l’esterno, e che sono delle “vedute” quasi come delle finestre. Se nel ritratto Cornet Winter Neemia (Southampton Art Gallery), Reynolds colloca una scena da combattimento sul lato sinistro dello sfondo, si nota bene che è incollata al resto della tela, che non ha niente a che vedere con la parte destra del dipinto, che si tratta, quindi, di un altro quadro. Vi sono innumerevoli ritratti caratterizzati da questo procedimento dissimulato. Piuttosto rara è la franchezza, goffa ma simpatica, con la quale il conte di Colomera c’indica un paesaggio minuziosamente incorniciato, nel ritratto di Augustín Esteve (Prado, Madrid).

Nella Donna alla Finestra (Galleria Nazionale, Berlino), il pittore romantico Caspar David Friedrich, esprime con infinita seduzione l’argomento della “veduta”, il “paesaggio sullo sfondo di un quadro” ma, che strano, ha cassato il paesaggio stesso e persino il quadro principale, che è solamente una cornice e ha lasciato come oggetto solo l’apertura, una scatola magica, uno spazio nell’altro, da un quadro a un altro quadro.

Il nostro secolo, il cinema e soprattutto la televisione, ci hanno abituato ad ammettere, come di consuetudine, la giustapposizione degli spazi differenziati; in una mensa di operai compare, per esempio, un vescovo che benedice una ballerina mentre danza sulle note della Morte del cigno. Quando il pittore moderno (Grau Sala, Guansé) decise di dipingere questa dualità, niente apparve così assurdo come la televisione. Quella profonda discordanza, Matta e Brauner vollero esprimerla attraverso un quadro “misto”, cioè, la “visione” trasmessa dal televisore all’interno di un quadro più grande. Molti pittori e disegnatori del XIX secolo (Guys, Daumier…) iniziarono a introdurre uno scenario differente utilizzando la scena del

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quadro.

Nel documento Il quadro nel quadro (pagine 60-65)