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Lo specchio nello specchio

Nel documento Il quadro nel quadro (pagine 65-73)

Mentre visitavo le sale ammobiliate tardogotiche del Museo tedesco di Monaco, ebbi la “rivelazione” della pittura fiamminga d’interni, guardando una sala riflessa in uno specchio circolare, con la prospettiva e la precisione che le aveva conferito Van Eyck. Lo specchio fu (direi quasi, è) non solo un oggetto prezioso, bensì uno strumento di sperimentazione visiva e persino soprannaturale. Basta appendere uno specchio alla parete che, sullo spazio reale del vano nel quale è collocato, si sovrapponga un altro spazio immaginario (pertanto, l’esperienza dimostra che lo specchio è una superficie) che offre ai nostri occhi, gli stessi punti di riferimento di un’opera autentica. È alquanto evidente com’è complicato per un pittore, cogliere con la tecnica bidimensionale, sia per quanto concerne la pala d’altare sia per la tela, l’immensità dell’Universo. Lo specchio ce la offre già intima, selezionata, minuziosa e incorniciata. Come dire, che per un pittore “indeciso” sarà sempre più semplice prendere come punto di riferimento lo specchio, testimone imparziale, rispetto alla Natura stessa.

Uno specchio circolare, riducente e convesso, appare in alcuni quadri fiamminghi del XV secolo. Nel Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck (National Gallery, Londra, 1434), vediamo uno specchio appeso accanto al talamo nuziale, circondato dalle scene della Passione che stemperano gli eccessi della carnalità. Attraverso quello specchio vediamo la coppia di sposi da tergo che il quadro mostra frontale, con una prospettiva rovesciata della stanza (“veduta” inclusa) e una porta verso il lato “esterno” dove si trovano gli spettatori, i due testimoni; uno di essi, indossa una veste rossa, mentre, l’altro, azzurra. Il pittore, forse, “fu lì” (qui), come recita l’iscrizione sullo specchio. In uno scomparto del trittico del Maestro Flémalle (Prado, 1438)

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con San Giovanni Battista e il committente francescano Henri de Werl, vediamo mediante uno specchio sullo sfondo, oltre allo “sguardo” rovesciato dei personaggi, una porta con alcuni frati che si affacciano verso l’interno. Grazie a uno specchio collocato in primo piano, sulla scrivania di Un orafo

nel suo laboratorio (Sant’Eligio?) di Petrus Christus (Metropolitan Museum

of Art, New York, 1499), guardiamo ciò che può realmente vedere l’orafo; una piazza con dei clienti che si stanno avvicinando. Qualcosa di simile lo troviamo nella figura sulla scrivania del Cambiavalute con la moglie di Metsys (Louvre, 1514).

Lo specchio, quindi, ci lascia vedere non solo l’altra metà dei personaggi, separandoli dallo scenario, trasformandoli in “busti a tutto tondo” e liberandoli dalla sensazione di sembrare schiacciati, bensì anche l’altra metà del vano (o del mondo) che rimane, inesorabilmente, all’esterno del quadro. Il quadro, dunque, grazie alla presenza dello specchio, trasmette la completezza dello spazio, cioè, lo spazio nel quale viviamo. L’unica certezza che stupisce, accostandoci a uno dei quadri di Van Eyck, Campin, Christus… o Velázquez, è il non vederci riflessi nello specchio sullo sfondo, come io mi vedevo nel Museo di Monaco.

Attraverso lo specchio (un quadro appeso nel quadro) la superficie piana della tela, asfissiante, si apre al rovescio tramite l’incavo del vetro, che infrange l’uniformità dello sfondo e si schiude anche in avanti, grazie al riflesso stesso dello specchio, che mostra il quadro proiettato verso di noi. I decoratori dei caffè storici e delle sale riunioni conoscono l’importanza degli specchi per fugare la claustrofobia dei clienti. Lo specchio infrange lo spazio interno dipinto nell’opera e grazie a esso, vive una stanza di Vermeer o di Pieter de Hooch. Oltre le virginaliste di Emmanuel de Witte (Museo Boijmans) o di Vermeer (Buckingham Palace) lo specchio ci mostra la relatività della percezione oculare, la variazione della prospettiva riguardo all’inclinazione del punto di riferimento. Vermeer era il maestro dello specchio e indubbiamente, lo utilizzava come strumento di osservazione;

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anche il vetro piombato di una finestra poteva svolgere lo stesso compito (Donna che legge una lettera davanti alla finestra, Pinacoteca di Dresda, ca. 1658). A volte, la civetteria di Vermeer, giunse a sistemare lo specchio di lato, con una spessa cornice che copriva quasi interamente il vetro; ciononostante, era il protagonista del quadro che con un raggio di luce, ci svelava le analogie con la finestra (Donna con collana di perle, Musei statali di Berlino, ca. 1665;

Donna che pesa le perle, National Gallery of Art, Washington). Lo specchio

è quell’ornato leggermente inquietante che anima gli interni borghesi di Jan Steen (La Festa di San Nicola, Rijksmuseum) o Pieter de Hooch (La Madre, Galleria Nazionale, Berlino). A volte, come nell’Insegna di Gersaint, Watteau creava l’unica opera viva fra quadri morti (Musei statali di Berlino). Velázquez, oltre ad aprire un nuovo compartimento sullo sfondo di Las

Meninas e inserire nella tela lo spazio esterno nel quale vivevano i

protagonisti, cioè i regnanti, grazie allo specchio, riuscì a trasmettere un tono di “verità”, al quale non fu insensibile Le Brun. Egli, infatti, disegnò l’arazzo

L’Incontro di Filippo IV e Luigi XIV sull’Isola dei Fagiani, con uno specchio

che moltiplica i profili dei due protagonisti e che riflette una grande finestra, collocata in direzione dello spettatore (Manifattura dei Gobelins, Parigi, ca. 1668). Riguardo ai due celeberrimi specchi di Velázquez, quello succitato e quello di Venere, che ci disvela il viso della donna raffigurata di schiena, ne tratterò più avanti.

Mi sembra opportuno segnalare che Velázquez non inventò questo filone tematico; la pettinatura di Venere esige uno specchio, come nel paesaggio di Albani (Prado). Vi sono tre modelli della Venere di Tiziano, per quanto concerne l’acconciatura, con un Cupido che regge lo specchio nel quale la dea si guarda (National Gallery of Art, Washington) ma la donna è rappresentata frontale, cosicché, lo specchio, quasi non aggiunge alcuna informazione. Paolo Veronese plagiò il tema con la cosiddetta Allegoria della

Vanità, dell’Accademia di San Luca, Roma. Rubens, dal grande ingegno,

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contribuì ad arricchire l’interesse sull’argomento, come se lo spettatore riuscisse ad abbracciare la modella bionda, scorgendola in diverse posizioni, mentre, Cupido regge alta l’effigie della dea riflessa, quasi un’icona ispirata alla devozione (Museo Liechtenstein, Vienna). Velázquez accrebbe l’esoterismo adagiando il modello nella posa dell’Ermafrodito, una statua che il pudore soleva mostrare da tergo nelle collezioni reali… Ancor più paradossale, Tintoretto (ca. 1550) donò il pudore al riflesso di uno specchio circolare, rappresentando dal vivo la nudità di Venere (Monaco). La seduzione dello specchio giunse a un punto tale che, guardando uno dei quadri menzionati, dimentichiamo che ciò che vi è rappresentato non è un riflesso naturale, bensì un “quadro nel quadro”, in parte volutamente forzato. Di conseguenza, eccoci alla naturalezza degli effetti del Ritratto di Madame

de Senonnes di Ingres (Museo di Belle Arti di Nantes, 1816), della Sinfonia in bianco numero 2 di Whistler (Tate Gallery, 1864) o del Bar delle Folies- Bergère di Manet (Galleria Cortauld, Londra, 1882), emulato da Solana nei

suoi Clowns del Museo Reina Sofia di Madrid. La cornice dello specchio è svanita, il vetro, ingrandendosi, occupa interamente lo sfondo e il “quadro” contenuto diviene importante alla stregua di quello “contenente”. Citando Solana, appare opportuno rammentare altri due specchi da lui realizzati: quello ovale, una chiazza di luce tra due paesaggi (oleografie) della parete della Visita del vescovo e del Café Pombo che, misteriosamente, ci trasmettono non le immagini rovesciate degli avventori, bensì quella di una coppia romantica il cui pensiero si protrae di là dalla morte (stesso Museo). Questo è il motivo per cui insistiamo sul dato oggettivo che, lo specchio sia un elemento esoterico. Ci siamo mai accostati a uno di quegli specchi di acciaio, come quelli che utilizzava Velázquez per le indagini ottiche? Oppure, a quelli oscuri al mercurio delle sagrestie sonnolente? “Lo specchio della morte” è un altro tema di Solana, riguardo alla “Vanitas”. Questo strumento di autoconsapevolezza è anche il riflesso del narcisismo. Narciso morì vittima dell’unico specchio che trovò sul suo cammino: una fonte. A questo

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proposito, non starei a rammentare ulteriormente i quadri che trattano questo argomento (in particolar modo, quello bellissimo caravaggesco della Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma) e in generale, tutti quelli che impiegano come specchio una superficie d’acqua, grande o piccola che sia, dai tempi in cui un pittore italiano decorò con uno stagno, la torre del Guardaroba del palazzo dei Papi di Avignone (ca. 1345).

Inoltre, lo specchio metallico (bronzeo) risultava già menzionato nella Bibbia (Esodo, XXXVIII) in qualità di utensile femminile: “Fece quindi la conca di bronzo e la sua base di bronzo, usando specchi di donne…”. Euripide lo menzionava nel coro di Ecuba. Gli specchi etruschi erano decorati in maniera squisita e a Roma, esso serviva per riflettersi o per decorare. Coloro che appartenevano a un buon ceto sociale, potevano già specchiarsi interamente “specula totis paria corporibus”, ma erano criticati aspramente da Seneca. Nel Medioevo si realizzavano spesso di vetro al mercurio. Nel 1250, li menzionava Vincenzo di Beauvais. Il materiale con il quale erano realizzati, non era solamente il metallo (maggiormente resistente) ma si utilizzavano l’oro, l’argento, il rame, l’ottone, lo stagno, il bronzo e (nel XVI secolo) soprattutto, l’acciaio. In modo particolare, erano molto apprezzati gli specchi di cristallo di rocca. Nel 1579, il comune di Mâcon pagò 169 libbre per uno specchio che voleva donare alla duchessa di Mayenne. Lo specchio decorativo seguiva il percorso parallelo dello specchio da toilette, per esempio, nel celebre castello di Hesdin, in Francia, conosciuto per i giardini con automi e una galleria con vari specchi, nel 1432. Il carattere “medievale” dello specchio fu certamente compreso dai preraffaellisti inglesi, poiché, mentre Rossetti realizzò una Lady Lilith che si contemplava allo specchio, nell’atto di pettinarsi la lunga chioma, la Bella

Rosamunda di Burne-Jones, rifletteva il proprio fascino in una superficie

circolare, del tipo dipinto da Van Eyck, nel ritratto dei coniugi Arnolfini. Quelli convessi erano chiamati specchi ustori o ardenti, ipso facto, servivano ad accendere il fuoco. Vi erano quelli magici, che, in una data posizione

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mostravano dei segni della cabala. In una xilografia del libro Der ritter von

Turn, edito da Michael Furner a Basilea, nel 1493, vediamo una donna civetta

che si guarda allo specchio e al posto del suo volto, vede… il posteriore del diavolo. Lo specchio poteva essere anche lo strumento utilizzato da altre discipline. Se ne servì Dionisio di Siracusa, per esempio, per insegnare la matematica, se questo era l’argomento di un quadro del Prado, attribuito a Pietro Muttoni, detto Pietro della Vecchia e che potrebbe essere, simultaneamente, allegoria delle tre età dell’uomo; il volto del bambino che si osserva di profilo, appare frontale nell’immagine.

A questo proposito, voglio citare Cesare Ripa, il gran legiferatore di simboli, la cui Nova Iconologia (prima edizione, Roma, 1573; prima edizione illustrata, 1603) era considerata legge per i pittori che dipingevano scene allegoriche, per tre secoli o più, impiegando lo specchio come emblema del “Ammaestramento”, della “Apprensiva”, del “Dissegno”, della “Operazione perfetta” e della “Origine d’Amore”, per i quali, serviva da modello alle rappresentazioni dell’Immacolata (Museo Lázaro Galdiano) della “Prudenza” e della “Scienza”, ma non della “Vanitas”. Ciononostante, la vanità e lo specchio erano in simbiosi.

Nel mio saggio Visioni e Simboli… ho analizzato i diversi significati simbolici dello specchio a proposito della letteratura emblematica. Il suo impiego complice compare con sarcasmo censorio nel “capriccio” di Goya

Fino alla morte e nella vanità femminile appare in molti quadri da toilette,

fra i quali, uno dei più celebri, è quello di Gustave Courbet (tema moderno ma alla “olandese” con il ritratto sullo sfondo). Due allegorie non molto comprensibili di Memling e di Bellini, si chiamavano La Vanità e La

Prudenza (Museo delle Belle Arti di Strasburgo e Gallerie dell’Accademia

di Venezia). In ambo i quadri, compare una donna senza veli con uno specchio circolare in mano, che, nel primo caso, riflette il viso e nel secondo, quello di un mostro. Uno specchio di quella forma appariva in un celebre dipinto di Tiziano, assieme ad un altro più piccolo, quadrato, retto da un

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uomo e nel quale si vedeva una donna, riflessi da tergo nel primo, che era altresì detto, La Vanità (Louvre).

Titolo ambiguo, di conseguenza, si riferiva alla vanità di chi si contempla allo specchio, come la Prostituta di Babilonia nell’Arazzo dell’Apocalisse di Angers, rivelandoci il volto come fosse una reliquia in suo possesso; anche se può riferirsi alla vanità delle cose in sé. “Vanitas vanitatum” dell’Ecclesiaste, dal quale si estrasse l’espressione “Vanitas” o “Vanità”, applicata ai quadri sentenziosi che ci mostravano la vanità dei fatti umani, come l’opera già citata di Pereda. Si tratta di una lezione che si trasmette spesso per mezzo dello specchio, che non sa ingannare, quello specchio che è modello di verità nella storia di Biancaneve e nella favola di Samaniego. La veridicità, che è la ragione per la quale, la parola “specchio” o “speculum”, serviva a designare i testi esemplari o di cronaca, come lo

Speculum Maius di Vincenzo di Beauvais o lo Speculum Humanae Salvationis, di un frate approssimativamente della stessa epoca, il XIII

secolo. Il caso volle che don Fernando I d’Aragona, fondasse nel 1410, l’Ordine dello “Specchio della Vergine Maria”. In questo contesto, lo specchio non rappresentava la Vanità, bensì la Verginità: la luce del sole passa attraverso di essa senza sporcarla o modificarla. Molte Immacolate di Roelas, Murillo o Antolínez avevano come simbolo uno specchio, emblema, per Santa Teresa, del dialogo dell’anima con Dio.

Una donna civetta utilizzava lo specchio per ingannare gli altri, altrimenti avrebbe ingannato se stessa. Ciononostante, lo specchio era il simbolo del disinganno. Questo era il significato che rivestiva nelle “Vanitas” a cui alludiamo, come in quella spettacolare (scuola francese del XVII secolo) del Louvre, che assieme a innumerevoli piaceri effimeri (fiori, frutta, danaro, carte da gioco, libri, musica, un teschio che si guarda allo specchio), appare come l’unica realtà. La Maddalena penitente di Georges de La Tour (collezione Fabius, ca. 1628), non contempla allo specchio la propria fisionomia, bensì quella di un cranio lucido collocato su un libro ascetico.

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Lo specchio divenne il simbolo regnante dei principi educativi, come scrisse il gesuita Andrea Mendo (Principe perfetto e Ministri adattati, Salamanca, 1657), cioè lo specchio del Regno “nel quale i suoi sudditi formino i loro costumi”, non solo, ma esso diventò il simbolo della vanità, della verità, del disinganno e dell’amore divino. Questo è il suo significato nei ritratti di Carlo II di Carreño, fra i quali, il migliore, sembra essere quello della collezione Harrach di Vienna. Nell’opera, gli specchi riflettono non solo la pallida faccia del monarca, bensì anche i quadri che ornano il palazzo. Il quadro reca anche il simbolo della Prudenza e molte volte, l’allegoria di questa Virtù si trova nella mano della figura, come recitava l’Iconologia di Cesare Ripa, che fu il più completo repertorio di simboli allegorici per tre secoli consecutivi: “Nella sinistra terrà lo Specchio, nel quale mirando, contempla se stessa…”.

Tuttavia l’oggetto poteva anche non esser niente di tutto ciò (la polivalenza è il maggior fascino nella pittura), neanche un mezzo per esplorare lo spazio e la visione; esso poteva essere, semplicemente, un modo per inserire non solo un “quadro nel quadro”, bensì una cornice quasi scarna, soltanto con un lieve velo grigio. Picasso, quindi, nella Natura morta con

brocca e candela (collezione L. Leiris) inserì uno specchio che, non è

nient’altro che una “cornice nella cornice”, mentre, in altre opere, come nell’Interno con ragazza che disegna (Museo di Arte Moderna, Parigi), lo utilizzava come strumento di lavoro o (Donna allo specchio, Düsseldorf, 1937) di soddisfatta contemplazione. Tuttavia l’esoterismo dello specchio non apparve mai così bruscamente come nella Natura morta con lampada e

ciliegie (Collezione Granz, Parigi, 1945) con uno specchio frontale che non

riflette alcunché, solo la diagonale della luce e dell’ombra. Uno specchio chiuso attraverso il quale, Alice di Lewis Carroll, non sarebbe mai potuta cadere in un altro mondo.

Ci siamo imbattuti in spazi che non riflettono niente. Nel Bagno di Cerquozzi (Roma, ca. 1650) gli specchi non sono che puntini di sospensione

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nello spazio splendidamente bagnato di luce. Vi può essere anche un riflesso che non ha bisogno dello specchio: un vetro di una finestra (Vermeer) è meno suggestivo di una corazza. Nell’armatura dell’angelo del Giudizio universale di Memling (Museo Narodowe, Danzica, 1466…) si riflette la resurrezione dei morti, mentre, nella corazza del San Maurizio del Maestro di Moulins (Galleria d’Arte Moderna, Glasgow, ca. 1500) vi è il riflesso del profilo di François-René de Chateaubriand, etc.

False apparenze nella forma fittizia del quadro, riflesso nel riflesso, specchio nello specchio; mai il “quadro nel quadro” acquisì un significato così illusorio e allo stesso tempo, seducente, di quando c’ingannò doppiamente, con la pretesa di emulare la realtà esterna e la sfacciataggine, nell’immobilizzare il mondo inquieto fermato nel mercurio.

Ancora un altro passo e lo specchio mostrerà di essere autonomo dal quadro. Gli specchi deformanti erano capaci di “inventare” e ai nostri tempi, Julio le Parc vinse il gran premio della Biennale di Venezia del 1966, esponendo al pubblico le proprie facce malformate, geometrizzate, frammentate dagli specchi. Pistoletto, Pol Bury, Domingo, Eduardo Sanz, soprattutto, si servirono di questo strumento per rimpiazzare il quadro.

Nel documento Il quadro nel quadro (pagine 65-73)