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fondamentale sarebbe quello di rivedere l’insegnamento della storia

della colonizzazione in un modo che

restituisca la voce a chi ha subito

quegli eventi in modo traumatico

mettendoli a confronto con la

versione dei colonizzatori.

DALLA PARTE DEI “CITTADINI IN CRESCITA”

ma anche sulla storia dei soldati italiani che si sono uniti alla resistenza etiope.

Un’altra metodologia utilizzata per riflettere sul passato coloniale è quella di analizzare le rappresentazioni che di quella impresa sono state fatte attraverso foto, disegni, pubblicità. Un utile e recente testo a questo proposito è il volume Bianco e nero: storia dell’identità razzia-

le degli italiani di Giuliani e Lombardi-Diop

(2013) che riflette su come le concezioni razziali e razziste su cui sono fondati il colonialismo e il fascismo italiano si siano riflesse anche nelle immagini pubblicitarie degli anni ’60. Tra gli esempi riportati troviamo l’insistenza sui pro- dotti di pulizia promossi attraverso lo slogan

Bianco che più bianco non si può – tra l’altro

sempre pubblicizzati da donne che incarnano il perfetto ideale di “domesticità” – in con- trapposizione al Calimero, che ha dominato il carosello italiano per quarant’anni, il pul- cino nero abbandonato dalla mamma perché “piccolo sgorbio nero” che quando incontra l’olandesina chiede: «Ma se fossi bianco mi vorresti?» ricevendo la “rassicurante” risposta «Tu non sei nero, sei solo sporco».

Alcuni percorsi didattici si sono invece basati sull’analisi delle vignette umoristiche che ve- nivano pubblicate durante l’epoca coloniale fascista (Ropa, 2013). Tali rappresentazioni evidenziano in maniera pregnante lo stereo- tipo razzista, da un lato, e il paternalismo dei colonizzatori italiani dall’altro. Le popolazioni africane sono spesso rappresentate come sel- vagge, primitive e in attesa dell’opera civiliz- zatrice dei colonizzatori italiani. Ad esempio le città africane sono rappresentate in maniera dispregiativa come gruppi di capanne. Le don- ne sono poi oggetto di una rappresentazione contraddittoria, che mescola disprezzo e desi- derio morboso. Le donne africane sono infatti oggetto di desiderio proibito e la loro immagine viene associata alla licenziosità dei costumi, al peccato ma anche alla sporcizia. Questo si tra- smette poi nella descrizione dei bambini nati dalle unioni miste, formalmente proibite nel 1936, che vengono rappresentati con connotati negativi secondo l’idea che «l’incrocio con gli Africani sia un attentato contro la civiltà euro- pea perché la espone a decadenza» (Cipriani, 1938, p. 4). Altre immagini raffigurano invece il paternalismo dei colonizzatori, emblematiche

sfondo della luce del fascio littorio che portano il pane a una massa di africani in trepidante attesa. È importante riflettere su queste imma- gini al fine di decostruire quanto sia ancora oggi persistente l’idea che gli occidentali hanno di sé come portatori di una civiltà superiore, di valori di libertà, di democrazia e di benessere anche quando questo avviene attraverso inter- venti umanitari che nascondono obiettivi di arricchimento economico e non risparmiamo l’utilizzo della violenza sulla popolazione ci- vile. Anche nell’ambito dell’educazione inter- culturale è importante tenere sempre presente il rischio di un atteggiamento paternalista che continua a vedere le persone occidentali nella funzione prevalente di mentori e formatori.

Considerazioni conclusive

Per riassumere possiamo concludere che la letteratura postcoloniale – sia quella affer- matasi a partire dagli anni ’60 soprattutto in ambito anglosassone che la nascente letteratura italiana – fornisce utili spunti per una revisione dell’educazione interculturale. Innanzitutto ci invita a non rimuovere il passato coloniale, ma a guardarlo attraverso i racconti delle popola- zioni che sono state colonizzate. Questa rifles- sione non ha soltanto una valenza storica, ma è importante soprattutto per comprendere le radici degli atteggiamenti e delle rappresenta- zioni prevalenti che ancora oggi vengono fatte delle popolazioni migranti. Secondariamente, questi studi ci invitano a promuovere una no- zione di cultura plurale, dinamica e non esen- te da contraddizioni interne al fine di evitare rappresentazioni essenzialiste, stereotipate e folkloriche delle popolazioni migranti. I whi-

teness studies (o studi sulla bianchezza) – che

degli studi postcoloniali sono in qualche modo conseguenza – ci invitano poi a reimpostare il lavoro sull’antirazzismo in una direzione che sposti il focus dell’attenzione dalle popolazioni “altre” a noi stessi al fine di andare a identificare e decostruire le componenti di quello che è

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BERNACCHI | PER UNA VISIONE POSTCOLONIALE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

stato definito il “privilegio bianco”.

A livello scolastico appare fondamentale tra- durre queste consapevolezze attraverso una revisione del curriculo scolastico che parte in- nanzitutto dalla revisione della storia coloniale europea e italiana, anche attraverso la letteratura italiana di migrazione. Sarebbe poi auspica- bile una più ampia rivisitazione del curriculo scolastico in senso meno eurocentrico che in- cluda non soltanto la storia, ma un po’ tutte le materie come la geografia, la letteratura, la filosofia, l’arte, la musica, ma anche le scienze e la matematica. Sono infatti numerosi i con- tributi extraeuropei che si potrebbero citare per ciascuna di queste discipline, in modo da evitare una rappresentazione del sapere extraeuropeo ed extraoccidentale che si fondi esclusivamente

o prevalentemente su aspetti folklorici. Infine, nell’attuale contesto socio-politico che a fronte del recente aumento nell’arrivo di migranti e soprattutto di richiedenti asilo vede purtroppo l’aumentare di atteggiamenti di razzismo e xenofobia, ampiamente fomentati da alcune forze politiche, è fondamentale che l’educazione interculturale riesca a portare uno sguardo storico più ampio che contestualizzi tali fenomeni. Scriveva Chelati Dirar nel 1996, ma questo vale a maggior ragione oggi, che gli attuali flussi migratori «con una delle frequenti ironie della storia, ripercorrono in senso in- verso le grandi rotte dell’espansione coloniale» (Chelati Dirar, 1996, p. 36). Ancora una volta il primo passo per una decolonizzazione delle menti parte dal non rimuovere quel passato.

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