Occhiogrosso, edito da La meridiana (2013), ripercorre l’evoluzione della cultura minorile dagli inizi del Novecento a oggi attraverso le storie di adulti e bambini che l’autore ha avuto modo di conoscere e approfondire durante gli anni di lavoro come giudice minorile. Vicende spesso drammatiche, che parlano di abbandono, devianza, sfruttamento e disagio.
Nell’introduzione si sottolinea il radicale cambiamento che nel giro di qualche decennio vi è stato nella condizione dell’infanzia e dell’adolescenza; fino agli anni ’30, infatti, non esisteva una legge minorile e il tribunale per i minorenni è stato istituito solo nel 1934.
Dovettero trascorrere oltre tre decenni perché alcune leggi realizzassero un cambiamento importante nella cultura dell’infanzia e il minore fosse quindi considerato non più un oggetto, privo di ogni personalità, ma soggetto di diritti. Abbiamo intervistato Franco Occhiogrosso per approfondire alcuni temi affrontati nel volume, come l’adozione mite, la mediazione e la giustizia penale minorile.
INTERVISTE
FRANCO OCCHIOGROSSO
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Il secolo dell’infanzia
a cura di
Barbara Guastella
Il libro racconta i profondi mutamenti che han- no attraversato la cultura dell’infanzia nell’arco di un secolo, il Novecento, attraverso le storie dei bambini e dei ragazzi. Com’è nata l’idea di partire dalle vicende dei giovani protagonisti?
L’idea di scrivere questo libro, utilizzando storie di bambini e ragazzi, è nata negli ultimi anni della mia vita professionale di magistrato e si è sviluppata in varie fasi.
In un primo periodo erano soprattutto frequen- ti le sollecitazioni di amici e colleghi che, ascol- tando gli occasionali miei racconti di vicende occorsemi durante il mio lavoro, mi chiedevano di non lasciare che il patrimonio di esperienze acquisito durante i lunghi anni trascorsi a fare il giudice per i bambini sia nel tribunale che nella procura per i minorenni si disperdesse. Tra questi amici vi era anche il direttore editoriale di La meridiana, la casa editrice che in seguito avrebbe pubblicato il mio volume.
In una seconda fase mi sono convinto che effettivamente occuparmi professionalmente di bambini “reali”, protagonisti non solo di brutte storie, ma anche di retaggi culturali fosse un’occasione preziosa per scriverne: era questo il modo migliore per essere ancora al servizio dei cittadini più piccoli. Questo ho voluto poi evidenziare nella frase riportata in copertina sul frontespizio, sovrapponendola in parte ai volti dei miei compagni di classe della quarta elementare, la cui foto (dominata da due suore sedute al centro e vestite tutte di nero) mi è sembrata emblematica della cultura minorile “cupa” degli anni ’40.
In un terzo momento, infine, ho cominciato a strutturare le numerose vicende secondo una scansione temporanea, ma anche tematica: la scansione della mia vita professionale spesso coincidente con quella dei diritti dell’infanzia.
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FRANCO OCCHIOGROSSO
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Il Novecento segna il passaggio da una cultura dell’infanzia in cui il minore è visto come oggetto di diritti a una cultura in cui il minore diventa soggetto di diritti. Un traguardo importante, che ancora oggi, tuttavia, non sempre trova piena ed effettiva attuazione.
Direi che la riflessione sui mutamenti della cultura dell’infanzia nell’arco di un secolo ha decisamente inciso sulla struttura del “Secolo”, determinando la suddivisione del lavoro in due parti: la prima – che va fino alla fine degli anni ’70 – si riferisce alla cultura minorile del pas- sato, in cui il minore era visto come oggetto di diritti; la seconda, che comincia all’inizio degli anni ’80, riguarda la cultura minorile del presente e segna l’evolversi della società verso un nuovo diritto minorile.
I cambiamenti intervenuti sono caratterizzati dalla gradualità della crescita, che consente di distinguere diversi momenti storici: il primo è quello che va fino alla metà degli anni ’30 e cioè fino alla legge minorile del 1934, che ha istituito tribunali e procure per i minorenni; il secondo va dagli anni ’30 fino alla legge sull’a- dozione speciale e alla riforma del diritto di famiglia, e quindi fino alla metà degli anni ’70; il terzo va da questa data fino ai giorni nostri, percorrendo il tempo delle grandi convenzioni internazionali sui diritti dei minori.
È appunto a partire dagli anni ’70 che muta decisamente il panorama normativo: il rapporto genitori-figlio passa da una prospettiva privati- stica, per cui il figlio “appartiene” al genitore, a una pubblicistica tesa a tutelare il minore e a difenderlo. La nuova cultura minorile si afferma definitivamente anche grazie a varie convenzioni internazionali, tra cui la Conven- zione Onu sui diritti del bambino del 1989 e la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei bambini del 1996. Tuttavia è solo con la L. 219/2012 che scompare la “potestà genitoriale” per fare posto alla “responsabilità genitoriale”, passando normativamente da un rapporto di potere tra genitori e figlio a uno di servizio. Ma si tratta di un traguardo solo formale: abu- si e maltrattamenti familiari continueranno e anche la conflittualità durante le separazioni coniugali. Sarebbero auspicabili interventi giudiziari molto più drastici rispetto a quelli attuali molto blandi per tutelare davvero i figli nei confronti di genitori prepotenti e aggressivi.
Ne Il secolo dell’infanzia si illustrano i grandi passi avanti fatti nel nostro Paese in ambito normativo, ma si accenna anche al “vuoto delle politiche per l’infanzia” che caratterizza la nostra epoca. In quale misura incide il fattore culturale nella difficoltà a colmare questo “vuoto” e qual è invece il peso della crisi economica?
I fattori culturali ed economici incidono for- temente sulle politiche dell’infanzia ed esiste una profonda disuguaglianza tra regione e regione (mortalità scolastica, lavoro minorile, possibilità di messa alla prova nel penale, lotta alla povertà, formazione e successiva occupa- zione…). Credo che fattore culturale e crisi economica siano molto collegati, nel senso della loro interdipendenza e del loro condi- zionamento reciproco; ma l’Italia pare avere la vocazione ad arrivare tardi su tanti aspetti dei diritti dell’infanzia, a cominciare dalle po- litiche sulla famiglia che viene tanto osannata ma lasciata sola, fin dalla nascita di un figlio. Non ci sono aiuti, non ci sono nidi, non si fa nulla per incrementare il lavoro femminile, salvo fare le leggi che tutelano la maternità in maniera anche esagerata, scaricando il peso sul datore di lavoro (anche lo Stato), che perciò spesso evita di assumere le donne. Anche altri Paesi europei sono in crisi ma le scelte di “ta- gliare” non le fanno sul sociale o sulla cultura.
Quali sono, a suo avviso, le principali lacune che andrebbero colmate in via prioritaria dal punto di vista legislativo?
Quella più evidente riguarda la carenza di un ordinamento penitenziario minorile. L’art. 79 della L. 354/1975 stabilisce che le norme di quello ordinario si applicano anche nei confronti
FRANCO OCCHIOGROSSO
Franco Occhiogrosso è presidente del comitato scientifico di Crc, organismo di conciliazione di Bari, e condirettore della rivista Minorigiustizia. Dal 2007 al 2010 è stato presidente del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. È stato inoltre presidente del Tribunale per i minorenni e del Tribunale di sorveglianza di Bari. Ha curato varie pubblicazioni, fra le quali Manifesto per una giustizia minorile mite (Franco Angeli, 2009).
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dei minorenni sottoposti a misure penali fino a quando non sarà provveduto con apposita leg- ge. Sono ormai trascorsi quasi quarant’anni da quando questa disposizione è entrata in vigo- re, ma l’impegno di varare una legge minorile specifica assunta da quel legislatore non è stato ancora rispettato. Più in generale è tutto il siste- ma normativo minorile, attualmente frantumato in tante singole disposizioni che ha bisogno di essere rivisitato. Occorre partire dalla cultura desunta da singole importanti esperienze quali il progetto Tutori volontari del Veneto, le moda- lità di svolgimento del giudizio di separazione coniugale realizzate dal Tribunale di Genova, le attività dei garanti regionali per l’infanzia, la sperimentazione dell’adozione mite a Bari per rendersi conto che, come risposta alle proble-
matiche delineate, si va delineando un nuovo diritto minorile e familiare, che ha la peculiarità di essere un diritto mite. Ciò vuol dire che si dovrà fondare sulla comunicazione da parte dei servizi e dei giudici con le persone adulte e mino- ri; dovrà avere come caratteristica fondamentale l’ascolto e la partecipazione del minore; dovrà mirare a ottenere il consenso e la collaborazione delle persone coinvolte, minore compreso; dovrà coltivare i valori della prossimità al destinatario dell’intervento; della solidarietà e della legalità.
Nel libro si parla di “una stasi molto diffusa dell’intero sistema della mediazione civile e commerciale” e del “cammino ancora lungo” degli altri tipi di mediazione: quali sono le ragioni
Le difficoltà che incontra la mediazione per affermarsi nascono principalmente dal fatto che cardine del sistema normativo diretto a gestire i diritti è il processo, fondato sul conflitto tra le parti e sulla logica che nelle contese deve esservi sempre un vincitore e un vinto. La mediazione capovolge questa cultura e punta alla ricerca del consenso dei soggetti coinvolti: non guar- da al passato, ai reciproci torti o alle ragioni, ma tende al futuro a cercare nuovi assetti nelle relazioni tra i soggetti.
Attualmente è difficile pensare che la figura del mediatore (familiare, minorile, penale ecc.) possa sostituire di colpo quella dell’avvocato. È piuttosto pensabile che intervengano graduali trasformazioni per quest’ultimo, come si va di recente rilevando con l’emergere dell’avvo-
cato “collaborativo”, in quanto specializzato in diritto collaborativo e formato alla pratica collaborativa.
Per quanto riguarda poi la mediazione civile e commerciale la stasi determinatasi nel suo sistema nasce dall’intervento della Corte co- stituzionale che ha dichiarato l’illegittimità di una norma (l’art. 5) rendendo la mediazione civile e commerciale solo facoltativa e non più obbligatoria, con l’effetto che la si utilizza solo quando entrambe le parti concordano di voler farvi ricorso.
Manca infine una normativa generale per la mediazione familiare e per le altre simili (inter- generazionale, interetnica ecc.), che sarebbe in- vece quanto mai opportuna. Pur con tali limiti