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Per comprendere appieno le potenzialità educative della Philosophy for Children si rivela determinante approfondire le principali influenze teoriche che ne sono alla base. Lipman ha infatti prefigurato il suo modello formativo raccogliendo e rielaborando contributi e suggestioni provenienti dall’ambito filosofico, pedagogico e psicologico. Nel corso di questo lavoro saranno prese in considerazione, senza pretese di esaustività, quelle che si ritengono le principali ascendenze teoriche, facendo riferimento ad alcune idee e concetti che rivestono un ruolo determinante nella definizione del curricolo e che si riveleranno funzionali all’analisi della metodologia che lo caratterizza.

218 U. Galimberti, “Se i bimbi studiassero Platone”, «Repubblica», 11 settembre 2004, p.1.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/11/se-bimbi-studiassero- platone.html. consultato il 10 agosto 2014.

219 M. Riemma, P. Montesarchio, (a cura di) Vedi alla voce dialogo, cit., p. 29.

220 M. Santi, Conversazione con Matthew Lipman, in A. Cosentino (a cura di), Filosofia e formazione,

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2.1.1 Ruolo e principi del filosofare: Socrate

Occorre preliminarmente precisare che quando parliamo di Philosophy for

Children221 non facciamo riferimento ad una filosofia a “misura di bambino”, ossia una semplice traduzione di sistemi e teorie filosofiche in narrazioni accattivanti e comprensibili al mondo infantile, ma si tratta di promuovere lo sviluppo di uno specifico “habitus filosofico”, inteso come attitudine ad un pensiero riflessivo e problematizzante, aperto al dialogo ed al confronto. Infatti i principali maestri di Lipman sono stati soprattutto i filosofi che hanno impiegato la comunicazione orale, e dunque il linguaggio, come strumento di indagine del vissuto individuale e sociale,

filosofando in modo dialogico e narrativo222.

Punto di riferimento ineludibile in tal senso è Socrate, con cui il fondatore della P4C sembra condividere diversi aspetti, primo tra tutti l’accento posto sul fare filosofia223. Il filosofo greco,infatti, è stato il primo a sostenere l’importanza pratica della filosofia, dimostrando (attraverso la sua vita e la sua morte) non solo come non esista un’opposizione radicale tra la vita abituale degli uomini e quella del filosofo, ma anche e soprattutto come in tutto ciò che accade ed in ogni momento della vita quotidiana sia possibile filosofare224.

In Socrate, così come in Lipman, la filosofia diviene attività, qualcosa che si

esercita e si vive. Socrate non dispone i suoi interlocutori su sedili all’interno di un

uditorio, ne tantomeno possiede una cattedra da cui elargisce il suo sapere in quanto

maestro225. Il suo approccio, comune a quello proposto da Lipman attraverso la

figura del facilitatore, consiste piuttosto nell’immergersi all’interno del tessuto sociale della polis, partendo dai saperi e dalle credenze di coloro con i quali si confronta ed avviando assieme ad essi una ricerca comune che prende avvio da una

221 Fuorviante appare in tal senso la traduzione letterale della "Philosophy for Children" con

l'espressione filosofia per i bambini. Diversi studiosi ritengono sia più opportuno parlare del curricolo di Lipman utilizzando l'espressione “filosofia con i bambini”. A. Cosentino, Socialità riflessiva e democrazia, in «Rassegna», cit., p. 50.

222 Lipman stesso, in un intervista rilasciata a Maura Striano, riconosce il suo debito teorico nei

confronti di diversi pensatori: non solo Socrate, Dewey ed Aristotele, ma anche San Tommaso, Sant’Agostino, Diderot e Locke. M. Santi, Conversazione con Matthew Lipman, in A. Cosentino (a cura di), Filosofia e Formazione, cit., p. 51.

223 R. Radice, Socrate, Corriere della sera, Milano 2014, p. 55.

224 S. Oliverio, Il con-filosofare educante di Socrate e l’Accademia come Bund filosofico-educativo, in

A. Cosentino, S. Oliverio (a cura di), Comunità di ricerca filosofica e formazione. Pratiche di coltivazione del pensiero, Liguori editore, Napoli 2011, p. 140.

225 Socrate infatti rifiuta di essere considerato un maestro, «in quanto ciò segnerebbe un distacco tra se

65 domanda iniziale per poi tradursi in un dialogo dal finale imprevisto. Da ciò derivano le profonde implicazioni educative della filosofia cosi com’è intesa da Socrate e, in ultima istanza, da Lipman: essa contribuisce a formare spiriti critici, «scongelando i pensieri che si sono solidificati in cliché»226 ed esortando a riscoprire il significato autentico di alcuni concetti di fondamentale importanza per l’uomo. Il “conosci te stesso” socratico rappresenta infatti un invito a riflettere ed a prendere coscienza dei condizionamenti sociali e culturali che plasmano la nostra identità ed influenzano le nostre scelte, imparando a portare avanti l'impegno riflessivo inteso come impresa personale conoscitiva ed etica227.

Il ruolo del maestro/filosofo consiste dunque non nel trasmettere conoscenze, ma nel partire dalle convinzioni proprie dell’interlocutore, per poi porlo in contraddizione, al fine di fargli riconoscere l'inconsistenza di tali convinzioni228. All’interno di questa prospettiva, l’interrogazione di cui esso si avvale per assolvere a tale compito, lungi dall’essere fine a se stessa, rappresenta uno strumento per condurre la ricerca verso il suo obbiettivo, la verità intesa come verità morale, che si interroga su ciò in base a cui orientare la propria esistenza. Pierre Hadot, attento studioso di Socrate, ha sottolineato come il dialogo socratico rappresenti in tal senso un vero e proprio esercizio spirituale, un invito a conoscere incessantemente se stessi e convertirsi attraverso il lavoro maieutico229 compiuto dal “maestro ignorante”230.

Bisogna inoltre precisare che il domandare socratico non è solipsistico. Esso rappresenta «lo spazio della cor-rispondenza di due intenzionalità indagative indirizzate al vero [ed ha] come condizione di possibilità l'apertura di due soggetti

226 S. Oliverio, Il con-filosofare educante di Socrate e l'Accademia come Bund filosofico-educativo, in

A. Cosentino, S.Oliverio (a cura di), Comunità di ricerca filosofica e formazione, cit., p. 141.

227 A. Cosentino (a cura di), Pratica filosofica e professionalità riflessiva. Un’esperienza di

formazione con operatori psico-socio-sanitari, Liguori editore, Napoli 2005, p. 26.

228 Di particolare interesse è a tal proposito il testo di Gregory Vlastos, il quale definisce l’élencghos

(confutazione, prova) socratico come «ricerca della verità morale per mezzo di un’argomentazione, che procedendo per domande e risposte tra loro antagoniste, prevede che una tesi venga discussa solo se asserita come personale convinzione del rispondente, tesi che può considerarsi confutata solo se la sua negazione viene dedotta dalle stesse convinzioni del rispondente». G. Vlastos, Studi socratici (1994), tr. it. a cura di F. Filippi, Vita e pensiero, Milano 2003, p. 10.

229 Socrate paragonava il suo metodo all’attività della levatrice (ostetrica), perché fondato non sul

tentativo di vincere l'interlocutore con una propria verità, bensì su quello di condurlo per mano, aiutandolo, attraverso l’ironia e il dubbio, a portare gradualmente alla luce la verità racchiusa nella profondità della sua anima. S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola. La classe, l'ascolto, il racconto autobiografico, il pensiero simbolico, Ipoc, Milano 2009, pp.111-112.

230 Socrate dichiara apertamente la sua ignoranza affermando di “non sapere”. Una celebre espressione

dietro la quale in realtà si cela il fine ultimo dell’insegnamento socratico. Il filosofo greco infatti attraverso la “maschera del non sapere” vuole avvicinarsi il più possibile al suo allievo/interlocutore per liberarlo dall'ignoranza e indurlo ad assumere a pieno la responsabilità delle proprie affermazioni. G. Reale, Socrate, BUR, Milano 2001, Prefazione.

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che nel dialogo si dischiudono all’interlocuzione con l’altro»231. Socrate si impegna

in un dialogo trasformativo con i suoi allievi, facendo appello «all’essere dell’individuo in senso esistenziale»232 e vivendo l’esperienza di una «philia co-

educante»233 che produce co-conoscenza, principio questo, comune alla P4C. Il

filosofare è dunque sempre con-filosofare234, uno spazio aperto di riflessione in cui le

posizioni del maestro e dell’allievo (interlocutore) non vengono cristallizzate in ruoli predefiniti, ma si sostengono vicendevolmente, dando vita ad una relazione educativa fondata sulla logica del pensare e l'onesta intellettuale dei partecipanti.

L’appello alla razionalità e all’onesta intellettuale all’interno della discussione filosofica è un altro elemento che accomuna la proposta di Lipman alla pedagogia socratica e rivela il forte legame tra piano etico e piano cognitivo presente in entrambe. Infatti, come ha sottolineato Walter Kohan, «laddove Socrate considerava che l’eccellenza di una persona dipendesse in buona parte dalla sua conoscenza (chi agisce male lo fa perché non conosce il bene), per Lipman lo sviluppo delle diverse dimensioni (critica, creativa e affettiva) del pensare dei

bambini non può che fare di loro delle persone migliori»235.

Occorre notare come, nonostante i numerosi riflessi dell’insegnamento di Socrate in Lipman, vi sono anche sostanziali differenze nel modo in cui i due pensatori concepiscono il fare filosofia e nello specifico il ruolo del domandare. Mentre infatti nel dialogo socratico la discussione prende avvio da una domanda significativa, per Lipman è un racconto a dare inizio al processo di problematizzazione in coloro che sono coinvolti nella discussione. Dalla lettura del racconto sorgeranno poi le domande da cui scaturirà il dibattito.

231 S. Oliverio, Il con-filosofare educante di Socrate e l'Accademia come Bund filosofico-educativo, in

A. Cosentino, S.Oliverio (a cura di), Comunità di ricerca filosofica e formazione, cit., p. 141.

232 R. Radice, Socrate, cit., p. 54.

233 S. Oliverio, Il con-filosofare educante di Socrate e l'Accademia come Bund filosofico-educativo, in

A. Cosentino, S.Oliverio (a cura di), Comunità di ricerca filosofica e formazione, cit., p. 145.

234 L’idea del con-filosofare socratico diverrà poi synousia all’interno dell’Accademia platonica e

synphilosophein in Aristotele. Espressione che denota il diletto del filosofare insieme e la comunanza di vita tra coloro che sono impegnati nella ricerca filosofica. L’accentuazione del momento dell'amicizia (philia) e della comunanza (koinonia) nella pratica della filosofia è divenuto poi uno degli elementi cardine dell’approccio proposto da Lipman. Cfr. A. Volpone, l'Alambicco della filosofia, ovvero perché la coda non dimena il cane, in A. Volpone, (a cura di), Filosofare, politica e società, Liguori editore, Napoli 2008, p. 9; Id., Le pratiche filosofiche da un punto di vista epistemologico: filosofia del sumphilosophein, in C. Brentari, R. Madera, S. Natoli, L. Vero Tarca (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di se, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 226.

235 V. Waksman, W. Kohan, Fare filosofia con i bambini. Strumenti critici e operativi per il lavoro in

classe con e oltre il curricolo della Philosophy for Children (2000), tr. it. a cura di M. Santi, Liguori editore, Napoli 2013, p. 6.

67 Per Socrate la domanda è, in genere, unica e non tutti i dialoganti contribuiscono alla sua formulazione (spesso a formularla e Socrate stesso). Inoltre «il dialogo cerca la vera risposta»236, vengono quindi lasciate in secondo piano eventuali divergenze in quanto non c’è spazio per più di una risposta vera su ciò che è oggetto della discussione (ad esempio cos’è la giustizia, il coraggio o l’amicizia). Per Lipman invece le domande stimolate dal testo iniziale sono molte (a seconda del numero di partecipanti) e di diversa natura.

Nella ricerca della risposta si attribuisce poi maggiore importanza «all’interpretazione piuttosto che alla verità (ciò non significa che questa non abbia

alcuna importanza)»237. Questo presuppone che da una discussione sullo stesso

argomento possano sorgere diverse posizioni, frutto di molteplici interpretazioni, tutte considerate ugualmente legittime. Infine mentre per Socrate ciò che rende filosofica una domanda è l’interrogarsi sul cos’è, dunque sull’essenza, Lipman ritiene che una domanda sia filosofica quando mette in discussione un tema comune, centrale e polemico.

Un’altra importante differenza riguarda il ruolo attribuito alla scrittura all'interno del filosofare ed il rapporto dei due pensatori con la storia della filosofia. Per quanto riguarda il primo aspetto, com’è noto Socrate era contrario alla scrittura, ritenendo che fosse mera riproduzione priva di valore conoscitivo e dunque non funzionale “alla ricerca filosofica”238. Lipman invece, attraverso i racconti, fa della scrittura uno strumento metodologico fondamentale della sua proposta educativa. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, mentre Socrate non manifesta un particolare interesse per il passato, per la storia della filosofia così come si era delineata fino a quel momento, Lipman vede il contatto con tale storia come un aspetto imprescindibile del dialogo filosofico. Quest’ultimo aspetto lo pone in continuità con la tradizione sorta con l’Accademia Platonica: Platone, così come Aristotele, « dialoga costantemente con i suoi predecessori, Socrate compreso. [Esso ha] chiara consapevolezza, espressa nei suoi scritti, di far parte di una tradizione nata

236 V. Waksman, W. Kohan, Fare filosofia con i bambini, cit., p. 9. 237 Ibidem.

238 Nelle ultime pagine del Fedro, Socrate espone in maniera dettagliata le ragioni del suo essere

contrario alla scrittura: una volta scritto, il discorso ha sempre bisogno del supporto dell’autore per essere compreso e difeso, senza di esso rischia di tramutarsi da strumento di diffusione delle idee del maestro in dogma. Inoltre chi crede di accrescere la propria conoscenza leggendo gli scritti degli altri acquisisce una falsa sapienza. Platone, Opere, vol. I, ed. a cura di F. Adorno, Laterza, Bari 1967, pp.790-792.

68 pochi secoli prima»239. Non a caso i racconti di Lipman, che saranno oggetto di approfondimento nelle pagine successive, richiamano per molti aspetti i Dialoghi

platonici.

2.1.2 Il dialogo come relazione: Martin Buber

Fondante all’interno della proposta educativa di Lipman è il ruolo assegnato al dialogo. Esso si pone nel contempo come attività, metodo e scopo del curricolo ed è inteso in senso creativo e generativo, come processo di costruzione collettiva di conoscenza e di senso.

Si tratta di un modo di concepire il dialogo, che per quanto contenga importanti rimandi alla tradizione socratica240, presenta significativi punti di contatto con la concezione dialogica di Martin Buber e con ciò che egli definisce dialogo

autentico.

Secondo il filosofo tedesco, l’elemento fondante l’esistenza umana è il

principio dialogico, ossia la capacità di porsi in relazione con l’altro (la natura, gli

uomini e le entità spirituali), situandosi in un rapporto Io-Tu241. È attraverso tale principio, e dunque mediante la relazione, che l’uomo prende coscienza di sé come soggettività, poiché è «impossibile concepire l’essere al di fuori dei rapporti che lo

legano all’altro»242. Risulta evidente come, secondo Buber, l’altro svolga un ruolo

decisivo per l’essere umano, il cui pensiero va considerato a partire dal contesto comunicativo in cui esso si manifesta ed attiva. Il pensiero è infatti apertura, comunicazione e condivisione di significati all'interno di uno spazio reale e vitale, lo spazio dialogico della comunità. Una comunità da intendersi non come essere

comune bensì come essere in comune, dimensione in cui sia possibile salvaguardare

239 V. Waksman, W. Kohan, Fare filosofia con i bambini., cit., p. 7.

240 Il riferimento è, come si è detto in precedenza, al dialogo come strumento euristico di ricerca di

senso.

241 Nella filosofia di Buber l’essere è concepito non a partire dal “sé” ma a partire dal “tra”, in quanto

la realtà è relazione e dialogo "tra te e me". Il "tra" rappresenta una categoria primordiale della realtà umana, che non è solamente psicologica ma anche ontologica, poiché separa e nel contempo unisce due soggetti distinti in grado di comunicare e condividere la propria condizione. S. Claris, Filosofia e pedagogia del dialogo, Armando editore, Roma 2013, pp. 72-73.

242 F. C. Manara, Comunità di ricerca e iniziazione al filosofare, Lampi di stampa, Vignate (MI) 2004,

69 l’autonomia e l’autenticità di ogni singolo membro pur all’interno di una

progettualità condivisa che guida le scelte del gruppo243.

Come si è detto in precedenza, secondo Buber l’uomo acquisisce piena consapevolezza di se solo mediante il rapporto con l’altro che si realizza pienamente all’interno di una “relazione dialogica”. Quest’ultima, per essere definita tale, poggia su due principi ineludibili: reciprocità e responsabilità.

In particolare, mentre la reciprocità fa riferimento alla reciproca rinuncia di assoggettare l’altro alla propria conoscenza o visione del mondo, la responsabilità è intesa come capacità di rispondere a colui che mi presta attenzione, ed a cui devo

render conto perché «chiamandomi mi si affida, mi da fiducia»244. Sono questi

dunque i capisaldi di quello che Buber definisce “dialogo autentico”.

Contrariamente al dialogo tecnico, che nasce esclusivamente da un’intesa oggettiva, e al monologo, falso dialogo al servizio di se stesso, il dialogo autentico è invece uno spazio dialogico comune, caratterizzato da accettazione e riconoscimento dell'altro come essere unico e irriducibile con cui stabilire relazioni mutuamente significative. Come ha sostenuto Kohan, nella Comunità di ricerca filosofica delineata da Lipman si tenta di realizzare quest’ultima tipologia di dialogo, attraverso un processo deliberativo «basato sul rispetto, il muto riconoscimento, l’esame delle ragioni che sostengono le idee e la ricerca comune e che arricchiscono l’esperienza condivisa. Non si tratta semplicemente di un procedimento didattico, bensì della

forma specifica che assume la ricerca filosofica “alla Lipman”»245.

Nello specifico il fondatore della P4C, al pari di Buber, distingue il dialogo

dalla semplice conversazione, sostenendo l’importanza di quest’ultimo246, « […] la

conversazione implica stabilità mentre il dialogo implica instabilità. […] Una conversazione è un’alternanza di protagonisti; prevede movimenti, ma la conversazione in sé non si muove. Al contrario, nel dialogo s’instaura un certo squilibrio affinché si verifichi un movimento in avanti. […] Una conversazione è uno scambio: di sensazioni, di pensieri, di informazioni, di consapevolezze. Un dialogo è

243 D. Di Cesare, Buber e l’utopia anarchica della comunità, in M. Buber, Sentieri in Utopia. Sulla

comunità (1974), trad. it. a cura di D. Di Cesare, Marietti, Genova 2009, p. 18.

244 M. Buber, la domanda rivolta al singolo (1962) , in Id, Il principio dialogico e altri saggi, trad. it.

a cura di A. M. Pastore, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 234.

245 V. Waksman, W. Kohan, Fare filosofia con i bambini., cit., p. 20.

246 Buber definisce la conversazione come “chiacchiera” e sostiene che essa non si fonda sul bisogno

di comunicare e di apprendere qualcosa dall’altro ma nasce dal bisogno di rafforzare la fiducia in se stessi. S. Claris, Filosofia e pedagogia del dialogo, cit., pp. 132-133.

70 esplorazione reciproca, indagine, ricerca»247, in cui ognuno riconosce il carattere specifico ed unico dell’altro. Da ciò discende la necessità di fare in modo che nel corso del lavoro d’indagine all’interno della comunità di ricerca, la conversazione si tramuti in dialogo.

2.1.3 Le condizioni ideali della comunicazione: Jürgen Habermas

Nell’intervista rilasciata a Felix Garcia Moriyon, Lipman riconosce esplicitamente l’influenza esercitata su di lui dalla riflessione habermasiana sulle condizioni ideali della comunicazione. Per tale ragione, si ritiene importante evidenziare brevemente gli aspetti di tale teoria a cui il fondatore della P4C sembra aver fatto riferimento nella delineazione delle possibilità comunicative della Comunità di ricerca filosofica.

Jürgens Habermas concepisce la comunicazione entro un paradigma intersoggettivo e pragmatico, definendola una prassi orientata al riconoscimento intersoggettivo delle pretese di validità relative ad un atto o espressione linguistica248.

In particolare, all’interno della sua riflessione sulle forme della comunicazione, il filosofo di Francoforte distingue tra agire strumentale ed agire

comunicativo249. Il primo, guidato da una razionalità strumentale (o teleologica) attenta solo all’efficienza dei mezzi utilizzati per raggiungere determinati fini, è orientato al successo e finalizzato al perseguimento del successo. L’agire comunicativo è invece orientato alla comprensione reciproca ed all’intesa tra soggetti parlanti e agenti che definiscono insieme la situazione comune e coordinano fra loro i rispettivi piani d’azione. Quest’ultima modalità d’azione appare sorretta da una forma di razionalità (razionalità comunicativa) fortemente connotata in senso pratico- emancipativo: essa infatti condurrebbe ad identità individuali e sociali più libere,

247 M. Lipman, Educare al pensiero (2003), trad. it a cura di Angelo Leghi, Vita e Pensiero, Milano

2005, pp. 101-102.

248 J. Habermas, Verità e giustificazione (1999), tr. it. a cura di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari

2011, p. 125.

249 Trattando delle due modalità di agire, Habermas propone la celebre distinzione sta sistema e

mondo della vita, (riproponendo in tal modo il dualismo classico tra natura e cultura, comunità e società). Mentre il primo appare dominato dalla razionalità strumentale, il mondo della vita rappresenta l’orizzonte di senso entro cui prende forma la razionalità comunicativa. A Censi , La costruzione sociale dell’infanzia, Franco Angeli, Milano 1998, p. 84.

71 sottratte da ogni forma di condizionamento, aperte alla partecipazione e dunque in grado di affrontare i propri conflitti e regolare in comune i conflitti collettivi250.

Partendo da tali presupposti, l’analisi del filosofo di Francoforte è volta alla ricerca e all’approfondimento di ciò che rende possibile l’esplicarsi della razionalità comunicativa e della modalità d’azione ad essa corrispondente, ossia la “situazione linguistica ideale”. Si tratta di un contesto comunicativo la cui attuazione è concepibile solo in presenza di specifiche condizioni. Scrive a tal proposito Habermas: «le situazioni linguistiche ideali devono innanzitutto soddisfare due banali condizioni. 1. Tutti i partecipanti a un discorso devono avere uguali possibilità di utilizzare atti linguistici comunicativi in modo tale che in ogni istante si possano aprire discorsi, e continuarli mediante interventi e repliche, domande e risposte. 2. Tutti i partecipanti al discorso debbono avere la stessa possibilità di avanzare interpretazioni, affermazioni, raccomandazioni, spiegazioni e giustificazioni e di problematizzare, motivare o confutare le loro istanze di valore, cosicché nessuna

opinione precostituita rimanga alla lunga alla tematizzazione e alla critica»251.

A tali condizioni il filosofo di Francoforte ne aggiunge altre di pari cogenza,