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Vedi S.A.S vs France e Dakir vs Belgium Di “principio di presunzione di lesività”, parla Monia Ciravegna nella sua analisi della sentennza Dahlab vs

Switzerland ed, in particolare, della nozione di “segno esteriore forte” fatta propria dai giudici in tale sentenza (per i dettagli su tale sentenza si rimanda alla parte storica nel cap.1). Vedi Monia Ciravegna, “La nozione di segno esteriore forte tra problemi di definizione e presunzione di lesività: la sentenza Dahlab vs Svizzera”, in “Diritto e Religione in Europa. Rapporti sulla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo in materia di libertà religiosa” a cura di Roberto Mazzola, Il Mulino, 2012.

57 Vedi “Recomendation Act of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe”, 2007.

58 Si veda ad esempio Simon Paul, “Governing from the Margin: the European Court of Human Rights' margin of appreciation doctrine as a tool of global governance”, Croatian Yearbook of Europeran Law and Policy, vol.12, n°1, pg 81- 118, 2016. All'interno di tale articolo, sono riportate le significative e famose parole di Elie Weisle, il quale, nel commentare l'emanazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dichiarò che quest'ultimi sono diventati “ a secular religion that has replaced traditional faith communities and commitments as the ordering civilization morality”.

tradizioni storiche e culturali di molti dei Paesi membri del Consiglio d'Europa, i quali, al contrario, di una “laicitè de combat” di stampo francese o turco, hanno regolato i loro rapporti con le confessioni religiose presenti in maniera diversa, facendosi portatori di una diversa visione della religione e dei suoi rapporti con lo Stato; dall'altro, esso può rappresentare, come abbiamo visto, un pericolo sopratutto per le minoranze, le quali, sopratutto se composte in prevalenza da stranieri senza diritto di voto, rischiano di ritrovarsi in una posizione svantaggiata, senza neanche la possibilità di partecipare alla vita democratica del paese in cui vivono e senza , quindi, prendere parte alla formulazione delle decisioni che li riguardano direttamente. A mio parere, una possibile risposta per evitare tali rischi risiede in una sempre maggio valorizzazione del concetto di pluralismo religioso, rappresentante la pietra angolare sulla quale poggia la tutela fornita dall'art. 9 ed, in generale, la libertà religiosa. Di fronte agli opposti rischi dati, da un lato, da un appiattimento delle diversità caratterizzanti i Paesi membri, costituenti certamente un motivo di possibili tensioni, ma anche di confronto e di scambio culturale, in nome di un modello astratto e, dall'altro, da un eccessivo affidamento su strumenti come il margine, con l'altrettanto grave rischio di una particolarizzazione della tutela fornita dai diritti umani a scapito della loro universalità, la risposta sta in una sempre maggiore valorizzazione di quel pluralismo “indissociable from a democratic society”. Il compito della Corte deve essere, infatti, quello di far sì che i diritti e le libertà di tutte le parti in gioco, in special modo le parti più deboli e minoritarie, risultino non eccessivamente sacrificate dalle misure e limitazioni predisposte dall'autorità nazionali, autorità il cui ruolo, in tali circostanze, “is not to remove the cause of tension by eliminating pluralism, but to ensure that the competing groups tolerate each other”59.

59 Merita di essere riportato per esteso tale passaggio della Corte:

“Altough the Court recognises that tension is created in situations where a religion or any other comunity become divided, it considers that this is one of the unavoidable consequences of pluralism. The role of the authorities in such circumstances is not to remove the cause of tension, but to ensure that the competing groups tolerate each other”.

Questo principio, lo possiamo trovare espresso e ripetuto in varie sentenze decise dalla Corte di Strasburgo: vedi Serif vs Greece, 14/12/1999, § 53; Hasan and

Chaush vs Bulgary, 26/10/2000; Metropolitan Church of Bessarabia vs Moldova, 13/12/2001; Agga vs Greece, 17/10/2002.

L'ultimo dei punti che volevo affrontare in questa conclusione, e che si ricollega alle riflessioni da me fatte più sopra, è quello che individua come l'utilizzo e l'evoluzione nel tempo del margine d'apprezzamento sia il risultato di una tensione, un dilemma inerente al sistema del Consiglio d'Europa, derivante dalle sue caratteristiche giuridiche e storico- politiche: ossia, quella tra la particolarità dei diritti nazionali dei vari Stati membri, i quali chiedono di vedere rispettate le loro autonomie sia politiche che culturali, e l'universalità dei diritti umani, il cui concetto esige un'applicazione che non tenga conto di tali distinzioni. Molti giuristi hanno evidenziato come tale tensione, o “dilemma” sia insito al Consiglio d'Europa e dovuto alle sue caratteristiche come organo supra nazionale: se da un lato, infatti, il Consiglio, ed in particolare la Corte di Strasburgo, sono investiti del compito supremo di garantire l'applicazione delle disposizioni contenute nella Convenzione e vigilare sull'adempimento delle stesse da parte dei Paesi membri, dall'altro, non bisogna dimenticare che il potere di cui è investita, deriva da una cessione di sovranità da parte di quegli stessi Stati nazionali, attraverso dei trattati di diritto internazionale, sovranità che, però, seppur volontariamente limitata, rimane comunque nella disposizione degli stessi, imponendo quindi un confronto fra essi e gli organi di Strasburgo. Per vari autori, il margine d'apprezzamento, quindi, può essere visto come il risultato di tale “institutional conflict”: scrive Simon Paul che “the margin of appreciation can be seen as a symptom of the governance dilemma that arises from two different sets of commitments inherent in the European Court Human Rights: its foundation in a treaty- based system, reflecting public international law's regard for sovereign States, and the transnational universalism of human rights”60. Ad ogni modo,

tale tensione, non è solo espressione di ciò, ma si collega ad una prospettiva più profonda e generale che riguarda la tutela dei diritti umani nel loro complesso, dove alla tradizionale visione stato-centrica, che vedeva in quest'ultimi i soggetti unici e privilegiati demandati a proteggere e regolare i diritti dei loro cittadini, si contrappone quella, sempre più diffusa a partire dal dopoguerra, che vede la tutela degli stessi demandata ad organi e strumenti giuridici elaborati in sede internazionale, al di fuori dei tradizionali confini nazionali. Proprio prendendo in considerazione tali riflessioni, si giustifica la visione di chi vede nel margine d'apprezzamento una “linea di galleggiamento”61, uno

60 Vedi Simon Paul, “Governing from the Margin: the European Court of Human Rights' margin of appreciation doctrine as a tool of global governance”, Croatian Yearbook of Europeran Law and Policy, vol.12, n°1, pg 81-118, 2016.

61 Vedi Pierluigi Consorti, “La battaglia per la libertà religiosa nel “dialogo fra Corti” e la funzione dei “margini d'apprezzamento”, in “Il Diritto come“scienza di mezzo. Studi in onore di Mario Tedeschi” a cura di Maria D'Arienzo, Luigi Pellegrini Editore, 09/04/2018, pg 617 .

strumento attraverso il quale, nella dialettica fra Corte Europea ed i singoli Paesi membri, viene fissato un limite oltre il quale non è possibile andare. Come abbiamo visto anche nella riflessione sul concetto di “very essence”, il margine di apprezzamento può ben essere definito come uno strumento che si colloca al confine fra tutela universale dei diritti umani e rispetto di quella “marvellous richness” costituita dalle tradizioni giuridiche-culturali degli Stati Europei, con la funzione di porre un limite invalicabile all'esercizio della loro discrezionalità; limite che, d'altro canto, non è fissato in maniera astratta dalla Corte, ma è caratterizzato da una “geometria variabile”62, che tiene conto dell'evoluzione sociale e

culturale dei popoli europei ed in virtù di esse ricollocarsi, atteggiandosi, quindi, a “valvola di sfogo” fra gli organi di Strasburgo e gli Stati contraenti. Alla tensione che si crea fra la sua vocazione universalistica e la sua natura di organo di diritto internazionale, se ne collega, secondo l'opinione di Pollicino, un'altra, riguardante lo stesso assetto giuridico- istituzionale della Corte di Strasburgo, ossia quella che vedrebbe la stessa oscillare tra il ruolo di giudice del caso concreto (individual justice) e quella, invece, di giudice dalla vocazione costituzionale (constitutional justice)63. Già nel capitolo 1, abbiamo visto come il meccanismo di

controllo giurisdizionale previsto dal sistema CEDU sia riconducibile, dalle disposizioni previste dai Trattati, ad un concetto d' “individual justice”, che vede la Corte quasi esclusivamente come giudice del caso singolo, le cui sentenze non hanno, dato il loro carattere esclusivamente dichiarativo, la possibilità di modificare quelle norme nazionali ritenute in contrasto con le disposizioni della Carta, limitandosi ad un'efficacia inter partes. Se questo era, forse, il disegno originario sotteso alla nascita delle varie istituzioni di Strasburgo, è, però, impossibile non accorgersi che “le profonde innovazioni introdotte, da un lato, dal protocollo 11 e, dall'altro, dalla campagna di allargamento ad est del Consiglio d'Europa, che negli ultimi anni ha portato a raddoppiare il numero degli Stati contraenti, abbiano favorito, se non costretto, la Corte a rimettere in discussione il proprio ruolo di custode secondario e residuale dei diritti fondamentali d'Europa”64. Il protocollo 11, al quale abbiamo già avuto

62 Vedi Yutaka Arai-Takahashi, “The Margin of Appreciation Doctrine: a theoretical analyses of Strasbourg's variable geometry”, Cambridge University Press, pg 62- 105, 2013.

63 Vedi Oreste Pollicino e Vincenzo Sciarabba, “La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la Corte di Giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale”, in “Sistemi e modelli di giustizia costituzionale” a cura di Luca Mazzetti, 2010, reperibile su www.forumcostituzionali.it

64 Vedi Oreste Pollicino e Vincenzo Sciarabba, “La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la Corte di Giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale”, in “Sistemi e modelli di giustizia costituzionale” a cura di Luca Mazzetti, 2010, reperibile su www.forumcostituzionali.it

modo di accennare,infatti, ha innovato profondamente il sistema di garanzie predisposto dalla Convenzione, prevedendo la soppressione della Commissione e della precedente Corte, sostituite entrambe da una “nuova” Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che, attraverso la sua articolazione e suddivisione fra Sezioni e Grande Camera, ha la possibilità di gestire tutti i ricorsi che le vengono sottoposti, sia per quanto riguarda la loro ammissibilità che la loro decisione nel merito. A partire e proprio in virtù di questi importanti cambiamenti che hanno caratterizzato le istituzioni di Strasburgo, “oggi, la sempre più utilizzata possibilità che ciascun soggetto ha di rivolgersi, esauriti i ricorsi interni, e senza ulteriori mediazioni, alla Corte, determina l'esercizio, da parte di questa, di competenze decisionali quantitativamente e qualitativamente di tutto rilievo”65. In particolare, proprio l'allargamento ad est del sistema

CEDU, in paesi dalla scarsa tradizione democratica e con uno standard di protezione dei diritti umani molto inferiore a quello già affermatosi nei paesi continentali ed occidentali, ha richiesto una “maggiore aggressività”66 dei giudici europei nella propria giurisprudenza, la quale

si è caricata inevitabilmente di un tono costituzionale che in precedenza era meno presente, arrivando a svolgere un compito di “scuola di democrazia” per quei determinati paesi67. Questa tendenza, iniziata a a

partire dagli anni '90 non può dirsi esaurita nemmeno ai nostri giorni: come abbiamo visto, nei casi Ibragim Ibragimov and others vs Russia o Begheluri and others vs Georgia, la Corte in esse arriva a svolgere un ruolo “quasi- costituzionale”, valutando determinate disposizioni vigenti in quegli stessi Stati membri come contrarie ai dettami della Convenzione ed invitando gli stessi a modificarle in senso conforme. Il percorso qui succintamente riassunto, il quale vede molti studiosi del diritto auspicarsi che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo superi definitivamente le ritrosie manifestate, diventando infine la Corte Costituzionale Suprema degli Stati europei, è lungi dall'essere compiuto, e non mancano le reazioni opposte degli stessi Stati contraenti, contrarie ad un' evoluzione di questo tipo, la quale andrebbe oltre gli scopi originari. Proprio alla luce di tale “reazione”, molti giuristi interpretano le proposte contenute nei protocolli 15 e 16 alla CEDU e la decisione, voluta fortemente da alcuni Stati e manifestata già dalla conferenza intergovernativa di Brighton, d'inserire nel preambolo alla stessa un riferimento testuale alla dottrina del margine d'apprezzamento ed al principio di sussidiarietà quali principi fondamentali e guida dell'operato

65 Vedi Oreste Pollicino e Vincenzo Sciarabba, ibidem. 66 Vedi Oreste Pollicino e Vincenzo Sciarabba, ibidem

67 Si richiama a tale concetto sia Oreste Pollicino con Vincenzo Sciarabba, ibidem, pg. 17; sia Iulia Motoc e Ineta Ziemele, in “The impact of the Echr on democratic change in Central and Eastern Europe. Judicial Perspectives.”, Cambridge University Press, 2016.

degli organi di Strasburgo68. Di fronte a questa vera e propria svolta, in

molti hanno evidenziato i rischi di porre un'insistenza eccessiva sul margine d'apprezzamento e, di conseguenza, sul prioritario ruolo statale nell'assicurare la piena attuazione della CEDU, il quale potrebbe dar adito ad interpretazioni di tale principio volte a “trasformare la Corte europea in una corte destinata ad occuparsi dei soli casi concernenti seri problemi interpretativi o gravi violazioni della CEDU”, con un conseguente rafforzamento dello spazio di discrezionalità riservato ai Paesi membri69. Solo il tempo e l'analisi della prossima attività

giurisprudenziale della Corte, ci mostrerà se tali pericoli evidenziati da più parti si riveleranno fondati e se si assisterà ad un rafforzamento del margine di apprezzamento, con un'inversione di quel “judicial attivism” di cui la stessa si è resa protagonista a partire dagli anni '90 del Novecento; o se, invece, quello imboccato da Strasburgo rappresenti ormai un percorso irreversibile ed irresistibile, finalizzato alla nascita di quella “Corte Costituzionale dei Popoli europei”, da molti auspicata, ridimensionando la portata e l'incidenza di tali strumenti70. Ciò che, a mio

parere, è certo e risulta dall'analisi da me effettuata, è il fatto che non stiamo assistendo alla scomparsa del margine di apprezzamento come strumento presente nell'armamentario giuridico della Corte, ma, piuttosto, ad una sua riconfigurazione. Certamente, come abbiamo visto, l'applicazione di tale strumento nelle cause riguardanti l'art. 9 CEDU non

68 Fra gli Stati membri promotori di una tale proposta, spicca il Regno Unito, il quale “richiamandosi agli argomenti svolti da una parte della dottrina, ha criticato la Corte, accusandola di sostituirsi alla volontà dei parlamenti nazionali democraticamente eletti per sovvertire l'interpretazione di alcuni diritti,

correttamente effettuata a livello nazionale sulla base di principi giuridici, etici, sociali, religiosi e culturali propri della popolazione locale”; vedi Egeria Nalin, “I Protocolli n. 15 e 16 alla Convenzione dei Diritti dell'Uomo”, in “Studi

sull'integrazione europea IX”, 2014, pg 117-145.

69 Vedi Egeria Nalin, “I Protocolli n. 15 e 16 alla Convenzione dei Diritti dell'Uomo”, in “Studi sull'integrazione europea IX”, 2014, pg 117-145. Per i rilievi critici su tali Protocolli e sul rischio che una certa interpretazione di essi arrivi, di fatto, a negare il principio d'interpretazione evolutiva della CEDU, vedi U. Villani, “Il Protocollo 14 alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in “La Comunità Internazionale”, 2004, pg 487ss. Rilievi critici, in particolare su alcuni punti della dichiarazione d' Interlaken, sono presenti in V. Zagrebesky, “La Conferenza di Internlaken per assicurare l'avvenire della Corte europea dei diritti umani. La crisi è più seria dei rimedi che i governi ipotizzano”, in “Diritti Umani e diritto internazionale”, 2010, pg. 309ss. S' interroga, invece, sull'avvento di una vera e propria “age of subsidiarity” a seguito dei due Protocolli ,l'autore Eb Bates, “Activism and self-restrain: the margin of appreciation's Strasbourg career...its “coming of age”?”, in “Symposium in honor of judge Mahoney, pubblicato su Human Rights Law Journal, vol.36, n°7-12,pg 269 ss., 2016.

70 Si vedano , ad esempio, gli scritti, già da me citati in precedenza, di Steven Greer o Eyal Benvenisti, alle cui note bibliografiche rimando.

è privo d'ambiguità e non mancano settori in cui il suo utilizzo si risolve, in un mero atteggiamento deferenziale o di “self-restrain verso le decisioni statali71; cionondimeno, abbiamo visto come, in molti altri casi,

esso venga in prevalenza utilizzato per assolvere la funzione di limite invalicabile ed ultimo, sia da parte degli Stati, ma anche dei giudici stessi. Inteso in quest'ultimo senso, il margine d'apprezzamento, ha ancora, a mio parere, un'importante ruolo da giocare nella giurisprudenza della Corte ed, in particolare, nella tutela dei diritti e le libertà dei popoli europei, rappresentando, appunto, un limite frapposto a difesa della “vera essenza dei diritti umani”: uno strumento mobile, “a geometria variabile”, che si adatta alle evoluzioni sociali, culturali e religiose e che può assolvere una funzione mediatrice fra le due anime ed esigenze che rappresentano l'essenza di tutto il sistema di tutela predisposto dalla CEDU, ossia la necessità di una tutela universale dei diritti umani che si applichi senza confini o distinzioni di sorta, e la valorizzazione della ricchezza insita nelle tradizioni culturali, storiche e religiose dei diversi popoli europei.

71 Si rimanda alle riflessioni riguardanti, in particolare, la tematica dei simboli religiosi nello spazio pubblico, contenuta nel cap. 2 ed, in parte, anche in questo capitolo.

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