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Abbiamo fatto riferimento più volte, nelle pagine precedenti, alla figura dei rinnegati, senza mai però darne una definizione. Arrivati a questo punto, però, ne abbiamo intuito l’importanza nell’ambito della guerra da corsa mediterranea e, parimenti, del commercio dei captivi: vogliamo chiederci, allora, chi erano esattamente questi rinnegati e quale fu il loro ruolo nel determinare le azioni e le scelte degli attori di quel commercio. Per la rilevanza storica e per i problemi interpretativi che questo tema pone all’analisi degli studiosi, è il caso di soffermarci su questo particolarissimo gruppo umano, di

154 E questo - lo diciamo per inciso - dopo Marc Bloch, Lucien Febvre, Emmanuel Le Roy Ladurie, e in generale dopo l’insegnamento della scuola de Les Annales e dello stesso Fernand Braudel, non stupisce e non può stupirci.

155 Va detto, comunque, che il progressivo abbandono della marina remiera tra fine Settecento e prima metà dell’Ottocento, in conseguenza dell’affermazione della marina a vapore, non spiega da solo il declino della schiavitù in area mediterranea: per tutta l’età moderna, infatti, l’impiego di manodopera schiavile rimase, anche in Europa, una pratica universalmente ammessa e largamente diffusa, almeno nei ceti alti della società. Per altro verso, la condanna al remo per determinati delitti fu sempre dettata da ragioni giuridiche, oltre che pratiche e il rapporto tra schiavitù e remo appare, in questo senso, meno meccanicisticamente collegato alla tecnologia navigatoria.

156 Relación de los forzados que se han condenado en las galras de este reino después que la Excelencia del señor duque

de Osuna le gobierna, hasta hoy 15 de hebrero 1612, así condenados por su Excelencia y ministros suyos, como por los señores arzobispos, obispos y otras personas particulares, señores de Estados dél, segun parece por los libros de los oficiales reales de las dichas galeras [...]. Palermo, 15 febbraio 1612. CODOIN, tomo XLIV, Madrid, 1864, pp. 207-

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delinearne i contorni di azione nello spazio mediterraneo e nelle reti commerciali e di credito che li videro implicati.

Diffusione e influenza del fenomeno

Il fenomeno delle conversioni appare intimamente legato al fenomeno della schiavitù in area mediterranea: studiarlo significa sforzarsi di ricostruire le vicende di quegli uomini e quelle donne che, per motivi diversi e a volte sorprendenti, decidevano di abbandonare la propria confessione religiosa e passare dalla parte degli odiati infedeli.

Avvertendo il bisogno di discostarci da una tradizione per certi versi ancora eurocentrica o, se vogliamo, cristiano-centrica, da ora in avanti, in questo lavoro ci riferiremo a questi individui con il termine generico di rinnegati (renegados). Tale termine, nelle fonti cristiane dell’epoca, era usato per indicare i cristiani convertiti all’Islam (o, più raramente, all’ebraismo), mentre se ad abiurare era un musulmano (o un ebreo), che decideva di abbracciare la fede cristiana, le fonti parlano, significativamente, non di rinnegati ma di neofiti o convertiti (conversos). Come vedremo tra breve, la stragrande maggioranza dei casi che si conoscono e che sono stati oggetto di studio nei decenni passati è costituita da uomini o donne europei, di fede cristiana (quasi sempre cattolici, più raramente protestanti), che si convertivano all’Islam durante la loro permanenza forzosa come captivi nelle Reggenze barbaresche (soprattutto nelle città di Algeri, Tripoli, Tunisi, Sfax, Biserta) e a Istanbul. Intorno ad essi disponiamo, oggi, di una quantità di informazioni molto maggiore - rispetto ai casi di conversioni al cristianesimo - perché accadeva spesso che questi individui, che avevano rinnegato la loro fede in terra di «Turchi», qualora fossero stati catturati in corsa, una volta ricondotti in patria avrebbero dovuto sottoporsi a un processo intentato nei loro confronti dal Tribunale del Sant’Uffizio spagnolo, al fine di accertare che essi avessero mantenuto, in realtà, una intima fedeltà alla Santa Fe

Católica e che la loro conversione, quindi, non fosse stata altro che una pura simulazione.157

Su questo versante, un ruolo di primaria importanza spetta alla Sicilia, non solo per la sua posizione geografica che ne faceva terra di frontiera fra i due schieramenti, ma anche perché l’isola, allora viceregno spagnolo, era sede di uno dei più severi tribunali distrettuali dell’Inquisizione spagnola,

157 Tuttavia, come si dirà più avanti, a parlarci di rinnegati non sono soltanto le fonti inquisitoriali, bensì una serie di lettere, memoriali, richieste di riscatto, ma anche trattati di teologia scritti da religiosi degli Ordini redentori, in particolare dai Mercedari.

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particolarmente attivo proprio contro i rinnegati cristiani che vi giungevano dall’Africa.158 Tra i

condannati che presero parte all’auto da fe celebrato a Palermo, per volere del Santo Uffizio spagnolo di Sicilia, il 9 dicembre del 1618, figura anche un rinnegato calabrese, tale Giovan Francesco Torano, nativo di Cassano, di cui si dice che era stato catturato «viniendo en corso contra christianos por haverse huydo voluntariamente a Berbería y renegado de Nuestra Santa Fe catholica».159 Un caso simile è quello di Luigi Di Carlo, rinnegato nativo di Sutera, anch’egli catturato «viniendo en corso contra X.tianos por haverse ydo voluntariamente a tierra de Ynfieles y renegado de nuestra santa fe catholica pasándose a la secta de Mahoma». Per lui il Tribunale del Santo Uffizio di Sicilia decise l’uscita pubblica in auto da fé con abito penitenziale, la confisca dei beni e la condanna alla galera per dieci anni, al termine dei quali sarebbe stato recluso nelle carceri della Vicaría del capoluogo isolano.160 Ma la Sicilia, ovviamente, non fu la sola a conoscere il fenomeno dell’abiura e a sperimentarne l’impatto sociale: insieme ad essa, la Sardegna, Maiorca, le Canarie, Siviglia, Granada, Murcia, Lisbona, Napoli, Venezia ci hanno parimenti consegnato il loro contingente di apostati processati per «mahometanismo».

I rinnegati, però, non costituirono affatto un gruppo omogeno, quanto piuttosto «un híbrido entre las dos culturas en liza».161 Per le cronache del tempo, essi erano semplicemente il frutto «de los apresamientos y las malas condiciones de vida que tenían que soportar los cautivos en tierra de moros y turcos»; tuttavia, le ricerche condotte negli ultimi decenni hanno fatto venire alla luce una realtà ben più complessa. È innegabile che un gran numero di essi veniva da cristiani che erano stati captivi, ma vi erano anche uomini e donne che viaggiavano verso la Barberia e la Turchia con l’unico fine di abbracciare l’Islam. Rinnegati erano, allora, non soltanto quei cristiani che, caduti in schiavitù per mano dei corsari musulmani, si convertivano all’Islam nella speranza di migliorare la propria condizione servile, ma, assai più in generale, tutti coloro che abbandonavano la loro fede e la loro cultura «por una decisión personal, de una forma voluntaria y consciente».162 I rinnegati appaiono

158 Sebbene il detto tribunale operasse in dipendenza da quello centrale della Suprema e Generale Inquisizione di Madrid, esso aveva tuttavia «una notevole autonomia nel giudicare e punire i rinnegati cristiani e nel convincere “gli infedeli” ad abiurare». Maria Sofia Messana, Il Santo ufficio dell’Inquisizione. Sicilia 1500-1782, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo, 2012 (postumo), p. 169.

159 Lo stesso era poi stato condotto al cospetto degli inquisitori di Palermo per essere processato: il tribunale lo condannò a sette anni di remo sulle galere (sebbene il reo avesse tentato di rompersi un braccio per evitare la pena, dietro consiglio di un altro carcerato) al termine dei quali ordinò che lo stesso fosse recluso nelle carceri della Vicaría di Palermo. AHN,

Inq. Sicilia, libro 900, c. 37v.

160 AHN, Inq. Sicilia, libro 900, c. 40r.

161 Miguel Angel de Bunes Ibarra, La imagen de los Musulmanes y del Norte de África en la España de los siglos XVI y

XVII. Los carácteres de una hostilidad, Consejo superior de investigaciones científicas (CSIC), Madrid, 1989, p. 184.

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allora come l’elemento che fa da ponte, per certi aspetti, tra mondo musulmano e mondo cristiano, «como se demuestra en la lengua que se habla en muchas de las ciudades del Norte de Africa que se dedican al corso»: la «lengua franca», come era chiamata, la quale aggregava vocaboli di tutte le lingue dei paesi mediterranei ed era usata comunemente da pirati e corsari. È stato notato come, più che un traditore, il rinnegato possa considerarsi «un intermediario tra due culture, tra due mondi tanto differenti», davvero una specie di «mediatore culturale», sebbene, naturalmente, non sia possibile generalizzare.163 Spesso, infatti, le cause che portavano i captivi cristiani ad apostatare erano proprio in relazione col maggiore o minore loro grado di integrazione nella società musulmana: da quelli che si convertivano all’Islam per salvare la propria vita o uscire dagli orrori del remo, fino a coloro che lo facevano per una scelta cosciente e non forzata, vi era un ampio margine in cui «es posible encontrar de todo».164

Quale fu il ruolo dei rinnegati all’interno delle società barbaresche? Possiamo pensare che, probabilmente, senza la complicità dei mercanti europei e senza l’apporto di manodopera qualificata e particolarmente addestrata nei mestieri del mare, la Barberia non sarebbe stata «tecnologicamente in grado di arrecare danni alla cristianità».165 In questo senso, il ruolo dei rinnegati risulta fondamentale: essi, infatti, erano molto richiesti grazie alla loro esperienza e soprattutto alla conoscenza che essi avevano dei luoghi della sponda cristiana. Spesso, anzi, era proprio grazie al loro apporto che i barbareschi riuscivano a sferrare con successo i loro attacchi, magari aspettando nascosti all’interno di qualche insenatura il passaggio dell’imbarcazione da predare. Ciò fu particolarmente evidente nel caso di Algeri, che durante la prima metà del secolo XVI si trasformò in un vero e proprio «bastione della guerra santa» tra l’Impero ottomano e i paesi cristiani del Mediterraneo.166

L’importanza di quella città come base strategica per la pirateria barbaresca andò sempre crescendo, tanto che nel 1588 nel suo porto erano attraccati trentacinque galeoni, molti dei quali capitanati, per l’appunto, da rinnegati spagnoli, portoghesi, francesi, italiani, greci.167 Dei trentacinque corsari

elencati da Diego de Haedo nella celebre Topographia di Algeri, ben ventiquattro erano i rinnegati, oltre a due ebrei e nove turchi «de nación».168 Il caso di Algeri, comunque, seppure il più evidente,

163 Mafrici, Mezzogiorno e pirateria cit., p. 153; Giovanna Fiume, Premessa, in Ead. (a cura di), La schiavitù nel

Mediterraneo, «Quaderni Storici», XXXVI, n. 107 (2001), p. 326.

164 Bunes Ibarra, La imagen de los musulmanes y del Norte de África cit., pp. 184-189. 165 Mafrici, Mezzogiorno e pirateria cit., p. 30.

166 Federico Cresti, Gli schiavi cristiani ad Algeri in età ottomana: considerazioni sulle fonti e questioni storiografiche, in «Quaderni Storici», XXXVI, n. 107, (2001), p. 432.

167 Martínez Torres, Prisioneros de los infieles cit., p. 82.

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non era l’unico; diverse altre città della Barberia e del Levante presentavano una situazione analoga: città come Tunisi, Tripoli, Sfax, Biserta e, naturalmente, Istanbul si presentavano, proprio grazie alla grande quantità di rinnegati che vi abitavano, come centri marcatamente cosmopoliti.

Gli storici sono concordi nell’affermare che la pratica dell’apostasia fosse un fenomeno abbastanza diffuso tra i cristiani captivi169, sebbene le fonti non ci consentano di ricostruirne l’effettiva entità. A questo proposito, è stato giustamente osservato come uno studio approfondito sul tema risulti particolarmente difficile a causa della stessa natura della conversione religiosa, un fatto intimo e personale, che lo rende forse «inattingibile alla ricerca storica».170 In molti casi, probabilmente, non si trattava di una conversione autentica: molti cristiani captivi decidevano di abiurare e di «farsi turchi», come allora si diceva171, più per convenienza che per convinzione, come è facile immaginare. Va detto che la conversione all’Islam non determinava automaticamente la liberazione: il captivo che decideva di rinnegare rimaneva comunque schiavo del suo padrone (o, se era di proprietà pubblica, del bey). Le sue condizioni di vita, però, indubbiamente miglioravano: per prima cosa gli venivano tolte le catene e non veniva più tenuto rinchiuso nei bagni, mentre i più intraprendenti potevano anche ambire a cariche pubbliche nella Reggenza o ancora diventare ufficiali dell’esercito o capi corsari. Vi era una certa mobilità sociale nelle città barbaresche, contrariamente a quanto avveniva sulla sponda cristiana del Mediterraneo, dove chi nasceva in una famiglia umile difficilmente poteva sperare di migliorare la sua condizione, né tanto meno entrare a corte; nei secoli dell’età moderna, è stato detto, «il turco apre le porte, mentre il cristiano chiude le sue».172

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: quello che potremmo chiamare la “guerra” delle conversioni. Almeno nella prima metà del secolo XVI, infatti, quella guerra fra Stati di cui si è detto all’inizio non si combatté solo sul piano della politica e dell’economia, ma anche - e, forse, soprattutto - sul piano religioso. E fu, in un certo senso, una guerra tra privati: la conversione all’una o all’altra religione appariva, infatti, come una «vittoria personale di chi poss[edeva] uno schiavo e p[oteva] vantarsi di averlo convertito».173

169 Lucetta Scaraffia, Rinnegati. Per una storia dell'identità occidentale, Laterza, Roma, 1993; Mafrici, Mezzogiorno e

pirateria cit.; Salvatore Bono, Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio,

Mondadori, Milano, 1997.

170 Fiume, Schiavitù mediterranee cit., pp. 68-70.

171 Lucia Rostagno, Mi faccio turco. Esperienze ed immagini dell’Islam nell’Italia moderna, Istituto per l’Oriente C. A. Nallino, Roma, 1983.

172 Fiume, Schiavitù mediterranee cit., pp. 77-78.

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Conversioni sincere o strumentali?

Uno dei grandi interrogativi relazionati al tema delle conversioni religiose è quello che ha portato molti storici a chiedersi quante di quelle conversioni fossero sincere, autentiche, e quante invece solo transitorie, «di facciata», utilizzate nient’altro che come uno strumento per ottenere un miglioramento delle proprie condizioni di vita (pur rimanendo in schiavitù). Diciamo subito che non è affatto facile sapere quante di quelle conversioni fossero autentiche: da un punto di vista formale, peraltro, l’abiura non comportava particolari difficoltà: per aderire al nuovo credo bastava pronunciare la formula di rito, la Sha’hāda («Non vi è altro dio che Dio [Allah] e Maometto è il suo profeta») e rivolgere verso il cielo l’indice della mano destra. E così, non era raro che una stessa persona rinnegasse due volte, prima nel tentativo di migliorare la propria condizione di schiavo in terra d’Islam, e poi di nuovo una volta tornata in patria dopo il riscatto. In questo caso, lo abbiamo visto, il “doppio rinnegato” era sottoposto a un processo ad opera del Santo Uffizio, che ne doveva accertare l’ortodossia e capire per quale ragione avesse abiurato, se per timore di perdere la vita o per pura convenienza. Spesso erano gli stessi rinnegati a presentarsi spontaneamente davanti il tribunale (per questo indicati come sponte

comparentes), ben conoscendo il rischio che correvano se fossero stati scoperti, grazie magari a una

segnalazione anonima. Nel corso degli interrogatori i rinnegati tendevano a spiegare le cause del passaggio all’Islam (indigenza, sfruttamento, fuga, speranza del rientro), ma anche la modalità formali della conversione e dichiaravano l’eventuale «osservanza di pratiche rituali o di costumi e tradizioni etniche (adorazione di Maometto, recita di orazioni nelle moschee, frequenza dei bagni, l’uso di abiti alla turca, l’astinenza dalle carni nei giorni proibiti etc.)».174 Spesso gli imputati

dell’Inquisizione presentavano la propria come un’apostasia «estorta, che non presupponeva un esplicito rifiuto del cristianesimo». Ciascun rinnegato sosteneva che la propria adesione all’Islam era stata «incompleta», perché cristiana era rimasta in lui la parte più importante, il cuore; si trattava, dunque, più che altro, di una simulazione, considerata da molti cristiani captivi in terra musulmana né più e né meno che «un mezzo di sopravvivenza».175 Non solo: a giudicare dalle dichiarazioni rese negli interrogatori, negli imputati sembri esserci «una sorta di indifferenza o freddezza religiosa e, in alcuni casi, una specie di miscuglio delle due religioni, in fondo considerate equivalenti».176

174 Mafrici, Mezzogiorno e pirateria cit., p. 162.

175 Mafrici, Mezzogiorno e pirateria cit., pp. 153-164; Maria Sofia Messna, La “resistenza” musulmana e i “martiri”

dell’Islam, in «Quaderni Storici» n. 126, 2007; Ead., Il Santo ufficio dell’Inquisizione cit.

176 Maximiliano Barrio Gozalo, Conversione o semplice cambio di religione degli schiavi musulmani e cristiani nel XVIII

secolo, in Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e libertà cit., num. monografico di «Incontri mediterranei», XVII, 1-2

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Intimamente collegata alla questione dell’autenticità e della sincerità delle conversioni dei captivi cristiani all’Islam è, di riflesso, il giudizio sul comportamento tenuto dai padroni nei confronti degli schiavi e la maggiore o minore insistenza con cui essi avrebbero invogliato - o addirittura obbligato - i propri schiavi a rinnegare e convertirsi alla fede islamica. Questo scenario è ripetuto con grande frequenza nella memorialistica e nei trattati teologici dell’epoca, scritti spesso da membri di quegli stessi Ordini religiosi che dovevano, poi, chiedere le elemosine per il riscatto, e che dunque avevano tutto l’interesse a esagerare i toni per muovere la compassione e la carità dei fedeli.177 Ma davvero la

conversione all’Islam era «estorta» dai musulmani? Dobbiamo credere alle dichiarazioni rese dai rinnegati nei processi inquisitoriali, nelle quali essi affermano di essere stati indotti ad abiurare dagli stessi loro padroni, di aver subito minacce, di essere stati perfino maltrattati e fustigati con l’obiettivo di ottenerne la conversione? In effetti, se i maghrebini avessero provato ad obbligare tutti o anche solo una buona parte degli schiavi cristiani a rinnegare la propria religione ed avessero avuto successo nel loro intento, la guerra da corsa «non avrebbe avuto ragione di esistere» o, piuttosto, si sarebbe trasformata in una specie di guerra religiosa, mentre è innegabile il suo carattere commerciale ed economico. In tal caso, potremmo chiederci, che vantaggio avrebbero avuto dall’esercizio della corsa se non avessero avuto prigionieri per i quali chiedere un riscatto?178 Al contrario, il danno economico per il padrone, in caso di conversione dello schiavo all’Islam, era evidente: se è vero che la conversione non mutava lo status giuridico di schiavo, senza dubbio, da quel momento, il padrone non poteva più venderlo ai cristiani, mentre questo era il fine principale della guerra da corsa. Occorre ricordare, infatti, che la distinzione tra musulmani e non musulmani ha un ruolo fondamentale nella regolamentazione della schiavitù: più precisamente, «dalla confessionalità del sistema e dalla superiorità che viene riconosciuta, in tutti gli ambiti giuridici, ai musulmani, rispetto a coloro che appartengono ad altre religioni, deriva il divieto per i non musulmani di avere come schiavi dei musulmani» (nella pratica, tuttavia, il divieto non veniva sempre rispettato, come dimostrano le numerose cause intentate nelle corti sharaitiche).179 Da ciò seguiva, tra l’altro, che nel caso in cui a convertirsi fossero gli schiavi appartenenti a cristiani o ebrei, in virtù del detto divieto lo schiavo convertito doveva essere liberato. Inoltre, il Corano raccomandava l’affrancamento dello schiavo musulmano come opera meritoria180 oppure incoraggiava i musulmani, padroni di schiavi

straordinaria epopea dei convertiti all’islamismo nei secoli XVI e XVII, Rizzoli, Milano, 1991 (ed. originale: Les Chrétiens d’Allah. L’histoire extraordinaire des renégats (XVIe-XVIIe siècles), Perrin, Paris, 1989), pp. 302-303.

177 Fedeli che venivano spronati - non a caso - in conclusione ai suddetti trattati a contribuire, con tutto quanto fosse loro possibile, alla raccolta delle elemosine per la redenzione. Ne daremo degli esempi infra, capitolo III.

178 Barrio Gozalo, Conversione o semplice cambio di religione cit., pp. 130-131.

179 Felicita Tramontana, Il diritto musulmano e la schiavitù, in Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e libertà cit., p. 67. 180 Sura della Luce (Surat An-Nūr), XXIV, 33. I versetti che suggeriscono l’affrancamento come opera meritoria sono, però, assai numerosi: cfr. Corano IV, 92; V, 89; LVIII, 3; XC, 13; II, 177; IX, 60; XLVII, 4.

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correligionari, a praticare nei loro confronti l’affrancamento contrattuale (mukataba): si dava, cioè, allo schiavo la possibilità di riacquistare autonomamente la propria libertà, pagando al padrone una cifra convenuta.181 È per questo motivo che il prezzo del prigioniero, per il solo fatto di avere

rinnegato, si abbassava notevolmente, facendo perdere al padrone la possibilità di venderlo a condizioni vantaggiose. Dunque, riassumendo: i rinnegati potevano essere venduti soltanto a dei musulmani, ma il Corano ne raccomandava l’affrancamento, gratuito o dietro modesto compenso. Naturalmente, per gli stessi motivi per i quali il padrone desiderava vendere il proprio schiavo rinnegato, nessuno desiderava comprarlo; così, i prigionieri rinnegati erano praticamente invendibili e il padrone doveva farsene carico. In generale, possiamo affermare che la maggiore facilità con cui