Nella prima età moderna, un po’ in tutta Europa era diffusa la convinzione che i bisogni e le necessità sociali di individui e di intere classi sociali in condizioni disagiate andassero risolti su base caritativa.
146 Daniel Hershenzon, The political economy of ransom cit., p. 83.
147 Giovanna Fiume, L’impossibile riscatto di Ali del Mar Negro, «Turco vero», cit. 148 Hershenzon, The political economy of Ransom, pp. 61-95.
178
La condizione di schiavitù o di captivitas in terra di infedeli rappresentava, naturalmente, un caso «estremo» di necessità, oltre che molto pericoloso non solo per l’integrità fisica ma per la fede, e per questa ragione assai meritevole di attenzione da parte della Chiesa e della società, che affrontavano il problema mobilitando la carità dei fedeli/sudditi. I diretti interessati, a loro volta, non mancavano di mettere in moto tutti i canali e le reti di relazioni cui potevano fare affidamento, implorando non un diritto, ma un atto di pietà. Un chiaro esempio di questo tipo di approccio è offerto dalle lettere che i parenti dei captivi inviavano agli istituti e confraternite deputate al riscatto, così come le richieste di sovvenzione e di aiuto economico in cui si faceva appello alla carità e alla «somma bontà» dei rettori dei detti istituti, laici o civili che fossero. Particolarmente interessanti sono le cosiddette
Litterae hortatoriae conservate all’Archivio Segreto Vaticano e studiate da Rudt De Collenberg: si
tratta di suppliche - letteralmente, «lettere di esortazione» - con le quali i pontefici raccomandavano «à la charité des fidèles» i bisogni presenti, ossia le necessità di coloro i quali, altrimenti, non avrebbero potuto provvedere agli stessi con i propri mezzi. Nella maggioranza dei casi, queste litterae
hortatoriae erano accordate a persone «dans l’incapacité totale de se procurer l’argent qui leur
permettrait de payer la rançon exigée pour des membres de leur famille retenus par des Turcs in
miseram servitutem».150 Tali littere hortatoriae sono, peraltro, assai dettagliate: molte di esse permettono di ricostruire, oltre alle generalità dei captivi e dei loro familiari, uno spaccato di vita di esperienze individuali e collettive, di restituire l’immagine di una società e di una umanità sofferenti. Grazie alla grande quantità di informazioni individuali e personali che essi contengono, documenti come questi consentono di «réévoquer le triste sort, les tragédies, mais aussi les conditions souvent fort différentes des familles et personnes qui avaient eu le malheur d’être capturées par les armées ou par les corsaires turcs».151
Ma il lessico della carità e dello spirito di solidarietà cristiana, quella disinteressata e che non bada a spese, lo ritroviamo presente un po’ in tutte la attestazioni documentali dell’epoca collegate all’affare dei riscatti di schiavi, non solo nelle opere teologiche e nei pamphlet composti dagli Ordini religiosi. Non è infrequente anche nella documentazione degli istituti laici e delle magistrature cittadine dedite al riscatto in area italiana: «Paghino anche due o tremila pezzi in più, li diano ad interesse nell’Erario del Cielo da dove ne caveranno cento per uno. Iddio contraccambia tal carità in questa vita con l’eterna grazia e nell’altra con l’eterna Gloria».152 Con queste parole Marcello Costa, missionario
150 Rudt de Collenberg, Esclavage et rançons des chrétiens en Méditerranée (1570-1600) cit., pp. 1-2. 151 Rudt de Collenberg, Esclavage et rançons des chrétiens en Méditerranée (1570-1600) cit., pp. 2-3.
152 Lettera del missionario apostolico Marcello Costa alla deputazione siciliana per la redenzione dei captivi, 9 agosto 1671. Archivio di Stato di Palermo, Arciconfraternita per la Redenzione dei cattivi (d’ora in poi: ASP, Redenzione), b. 566. Il documento è citato da Aurora Romano, Schiavi siciliani e traffici monetari nel Mediterraneo cit., p. 275.
179
apostolico e redentore a Tunisi, concludeva una lunga lettera al rettore della Deputazione siciliana della Redenzione dei Cattivi, esortandolo a «non badare a spese per riscattare i poveri schiavi». La preoccupazione del missionario redentore era quanto mai fondata: infatti, nel momento in cui Costa scriveva queste righe, nell’agosto 1671, era appena giunta notizia che i barbareschi stavano armando una nuova squadra di galere (secondo l’estensore della missiva erano già pronte sette nuove navi) che, ovviamente, avevano bisogno di parecchi rematori.153 Pertanto, alla proverbiale «avidità» dei mori si era aggiunta allora una ulteriore validissima ragione che aveva reso i tunisini ancor meno «disponibili» ai riscatti. La commistione tra il lessico religioso e quello economico, tutt’altro che rara in età moderna, ci restituisce qui l’immagine dei religiosi impegnati nel duplice intento di restituire la libertà ai captivi e di porre in salvo le loro anime, scongiurando il pericolo dell’abiura.
Eppure, tutto ciò non deve farci dimenticare il movente prettamente economico e perfino speculativo di quel commercio: attraverso il riscatto - è stato osservato - i mercati di schiavi «assomigliano più a delle borse di contrattazione che a fiere del bestiame; i loro prezzi sono speculativi».154 In effetti, il continuo arrivo di schiavi frutto delle prese corsare rappresentava una vera e propria «manna» - non dal cielo, stavolta, ma dal mare - e la loro messa in vendita sui mercati maghrebini aveva contribuito a «transformer les conceptions barbaresques en matières d’esclavage […]: l’esclave n’est plus un capital-travail, mais un placement que rapport d’autant plus qui’il est liquidé».155
Il commercio dei captivi produsse un settore collaterale di servizi di mediazione, di credito, di logistica dei trasporti che integrò quel commercio all’interno del volume generale degli scambi:
Loin de l’image d’une confrontation entre ennemis religieux, se dégage plutôt celle d’une économie de la rançon qui produit une redistribution de richesse au détriment des victimes et de leurs proches et au bénéfice de ceux qui alimentent ce commerce par leurs compétences, leurs contacts et leurs services, et ceci largement à l’interieur de l’espace européen. C’est un point obscur de l’histoire de l’essort économique de l’Europe, une tache noire.156
Di questo complesso intreccio di transazioni faceva parte anche lo scambio «testa a testa» dei captivi, praticato anche nei riscatti individuali, qualora il captivo avesse notizia di un familiare o di un conoscente del proprio padrone nelle sue stesse condizioni nella sua città di origine.157 In questo caso,
153 Ibidem.
154 Giovanna Fiume, Premessa, in Riscatto, scambio, fuga, «Quaderni Storici», n. 140 ( 2 / 2012 ), pp. 334-336. 155 Jean Munlaü, Les états barbaresques, Paris, Presses universitaires de France, 1964, pp. 98-99.
156 Il concetto è espresso da Wolfgang Kaiser, Introduction, in Id., Le commerce des captifs cit., p. 14, ed è ripreso da Giovanna Fiume, Premessa, in Riscatto, scambio, fuga, «Quaderni Storici», n. 140 ( 2 / 2012 ), pp. 334-336.
157 È bene ricordare, comunque, che la pratica dello scambio di prigionieri non fu una caratteristica esclusiva della schiavitù legata alla guerra da corsa ma che, al contrario, essa fu ammessa e spesso utilizzata anche in altri contesti, come
180
il captivo avvertiva la famiglia su come procedere, chi interessare allo scambio e come evitare i rischi di transazioni non garantite se non dalla buona fede dei contraenti. Ma anche in questo caso i due prigionieri da scambiare potevano non essere «equivalenti», in ragione dell’età, del sesso, della condizione sociale e, dunque, lo scambio necessitava di ulteriori compensazioni in merci o denaro.158 In definitiva, possiamo affermare che le caratteristiche dell’affrancamento dalla cattività attraverso il riscatto e lo scambio furono «ibride»: oltre all’aspetto religioso della liberazione dalla schiavitù (con l’accento posto sulla salvezza delle anime), tanto il riscatto quanto lo scambio costituivano dei «buoni affari», che mettevano alla prova le relazioni politiche tra Stati cristiani e Reggenze barbaresche.159 I riscatti degli schiavi di area italiana, gestiti dalle già ricordate magistrature statali o confraternite, così come quelli dei captivi iberici, o dei paesi nordeuropei o ancora quelli «impossibili» di Ali Moro e di Fatima / Maddalena, si pongono tutti all’incrocio tra interesse politico e interesse commerciale, entrambi sempre presenti, anche quando i riscatti comportavano «profonde ingerenze politiche».160
La schiavitù come «lubrificante» degli scambi
La vendita e il riscatto degli schiavi furono, dunque, innanzitutto un commercio. Un commercio, va da sé, molto particolare in quanto la merce oggetto di scambio erano persone (uomini, donne e molto spesso bambini), ma pur sempre un commercio.161 Mosso, quindi, da interessi economici prima che
religiosi, animato più dal calcolo e dalla brama di guadagno che non dallo spirito di crociata o dall’ideale del jihad. In questo senso, la schiavitù mediterranea e il commercio di captivi che essa metteva in moto non furono molto distinti dalla schiavitù atlantica e, segnatamente, dalla tratta di schiavi neri catturati e deportati con la violenza per sfruttarne la manodopera e dunque, in definitiva, per il loro valore economico. Se, infatti, tra i due tipi di schiavitù - mediterranea ed atlantica - esistettero differenze profonde, ricordate nelle pagine precedenti, esse ebbero in comune alla base motivazioni economiche. A questo proposito, facciamo solo osservare l’ambiguità (ma forse proprio
dimostra il caso di uno scambio di prigionieri ordinato nel giugno 1646 dal re di Spagna Filippo IV, su proposta del Consiglio di Stato, tra due prigionieri napoletani e un certo «capitán Bitandiera y un hermano suyo, que es Alférez, ù otros dos prisioneros de sus puestos». CODOIN, tomo XCV, Madrid, 1890, p. 239. O ancora, pochi mesi più tardi, la consulta del Consejo de Estado al re «sobre el canje de prisioneros de guerra», a cui il sovrano acconsentì. CODOIN, tomo XCV, Madrid, 1890, pp. 251-252.
158 Giovanna Fiume, Premessa, in Riscatto, scambio, fuga, «Quaderni Storici», n. 140 ( 2 / 2012 ), pp. 334-336. 159 Giovanna Fiume, Premessa, in «Quaderni Storici», n. 140 ( 2 / 2012 ), pp. 334-336.
160 Ivi, pp. 335-336.
161 A questo proposito è stato giustamente notato che il captivo era una merce particolarissima, «una inusual mercancía que se vende sola». Giovanna Fiume, Redeimir y rescatar en el Mediterráneo moderno cit., p. 56.
181
la contiguità) semantica dei termini tratta e trattare, dalle parole latine trahere e tradere: da ciò l’ambivalenza del termine «tratta» e il suo doppio significato di contrattare e trasportare (verbi legati, in ogni caso, a un accordo commerciale o finanziario).162
Tale commercio, tuttavia, fu caratterizzato da un elevato indice di rischio, dovuto al contesto di ostilità o di violenza latente in cui si svolgevano le transazioni. Malgrado ciò, non si trattò di operazioni isolate e sporadiche, bensì «d’un commerce pérenne et régulier». Quello dei riscatti di prigionieri costituì, anzi, un vero e proprio settore economico: partecipare al traffico di esseri umani era allora - come, sciaguratamente, è ancora oggi - un affare che poteva rivelarsi straordinariamente lucrativo, proprio a causa della natura della merce scambiata. Un investimento, potremmo dire, che prometteva guadagni considerevoli ed attirava attori da ogni parte del Mediterraneo.163 Fu per questa ragione, peraltro, che, malgrado tutti gli sforzi fatti dagli Stati nella direzione di un’omogeneità e di una standardizzazione della procedura per i riscatti, non si riuscì ad evitare la pratica di lunga durata dei riscatti da parte di attori non istituzionali.
Ma quale fu, in tutto questo, il ruolo giocato dai captivi? Come si è visto, contrariamente alla rappresentazione che se ne faceva all’epoca - in particolar modo ad opera degli Ordini religiosi redentori, per le ragioni sopra esposte - i captivi non erano certo ingenui e cercavano, al contrario, ogni possibile ancoraggio istituzionale (consolato francese a Tunisi, religiosi presenti in loco, redentori). In questo fragile tessuto commerciale, in balìa dei repentini cambiamenti del clima politico, venivano usate «tutte le cautele possibili, offerte dai trattati internazionali e dalla legge civile (certificazioni, deposizioni di testimoni per eventuali contenziosi, assicurazioni) e incentivi quali i «regali» e le «mance»164 (come erano chiamati i diritti consuetudinari)».165 Ciò significa che il gruppo
dei captivi, questa anomala «compagnia commerciale», non era amorfo e spontaneo, ma «iscritto in norme sociali, costumi legali e regole di comunicazione che davano stabilità alla sua azione. Esso parlava l’idioma delle obbligazioni». Non devono stupirci, allora, né la creazione della lingua franca,
162 Fabienne P. Guillén et Salah Trabelsi, Introduction, in Eidem, (sous la direction de), Les esclavage en Méditerranée.
Espaces et dynamiques économiques, Publications de la Casa de Velázquez, Madrid, 2012, p. 5.
163 Su questo si veda ancora Kaiser, Zones de transit cit., pp. 253-254.
164 Nella corrispondenza che i rettori della Congregazione romana di Propaganda Fide tenevano stabilmente con i loro missionari nelle città della Barberia si fa menzione di alcuni regali fatti da consoli, redentori e dagli stessi missionari al
bey di Tunisi, tra cui anche «alcune piante per il suo giardino». ASCPF, SC, Barbaria, b. 2, cc. 317-318.
165 Giovanna Fiume, Lettres de Barbarie. Esclavage et rachat de captifs siciliens (XVIe-XVIIIe siècle), in «Cahiers de la Méditerranée», n. 87 (2013), pp. 248-250.
182
la lingua cosmopolita di quel commercio166, né «la presenza, a volte, nelle lettere dei captivi, di vere
e proprie convenzioni discorsive mutuate dalla lingua commerciale».167
Recentemente si è insistito sulla notevole e a volte sorprendente intraprendenza dei captivi nel cercare di ottenere il proprio riscatto. Per tutta l’età moderna, i captivi del Nord Africa rimasero una presenza costante nell’immaginario della penisola iberica. Trinitari e Mercedari, gli Ordini religiosi incaricati del loro riscatto, si dedicavano anche a pubblicare opuscoli e pamphlet nei quali enumeravano le pene e le sofferenze dei captivi: perdevano la loro libertà e il loro patrimonio, erano venduti come schiavi, bastonati, torturati e costretti a convertirsi all’Islam o destinati ai lavori forzati (a volte, anche fino alla morte). Vista da questa prospettiva, l’unica via d’uscita dalla cattività era grazie ai detti Ordini religiosi.
Nella pratica, però, non era così; al contrario, i captivi ridotti in schiavitù negoziavano essi stessi la propria libertà e spesso si riscattavano autonomamente, sfruttando le proprie reti di relazioni e, più in generale, quelle reti di credito e di fiducia che connettevano uomini d’affari di diversi paesi mediterranei. Anche nel caso in cui i loro padroni avessero deciso di venderli come schiavi, i captivi avrebbero sempre potuto riacquistare la propria libertà, trattandone con il padrone stesso il prezzo e le condizioni.168 Certamente, alcuni padroni potevano essere restii a liberare i propri schiavi (seppur dietro lauto compenso), ma in generale l’affrancamento era non solo previsto dalla legislazione musulmana, bensì incentivato come opera meritoria.169
Come vedremo, i captivi di cui ci occupiamo continuarono a impiegare una vasta gamma di strategie nel tentativo di ottenere la propria libertà, indipendentemente dall’azione degli Ordini redentori. Normalmente, la prima strategia messa in atto dai prigionieri era quella di chiedere aiuto ai propri familiari o, comunque, all’interno delle proprie rete di relazioni; non sempre, però, quest’azione si rivelava efficace, e allora si intraprendevano altre strade ed altri tentativi, come quello di contrattare un prestito direttamente con degli intermediari, o ancora, negoziare il suo scambio con uno schiavo musulmano, o addirittura, per quanti fossero stati catturati insieme al resto della famiglia, vi era sempre la possibilità di lasciare in ostaggio dei mori uno dei propri congiunti e nel frattempo tornare in patria alla ricerca di finanziamento per pagare il riscatto.
166 Giogio Cifoletti, La lingua franca barbaresca, Il Calamo, Roma, 2004 e Jocelyne Dakhlia, Lingua franca. Histoire
d’une langue metisse en Méditerranée, Actes Sud, Arles, 2008.
167 Giovanna Fiume, Lettres de Barbarie cit., pp. 248-250.
168 Daniel Hershenzon, Las redes de confianza y crédito cit., pp. 132-133.
169 L’affrancamento dello schiavo era, tra l’altro, raccomandato dal Corano: se ne trova un preciso riferimento, ad esempio, nella celebre Sura della Luce (Surat An-Nūr), XXIV, 33.
183
Una volta fissato il prezzo del riscatto, il captivo doveva trovare il denaro in contante o negoziare un prestito per assolvere l’obbligazione e rispettare l’accordo. Vi erano diversi modi in cui i captivi potevano guadagnarsi dei soldi, ma - così almeno sembrerebbe, allo stato attuale delle ricerche - ciò avveniva sempre attraverso l’aiuto di intermediari (cristiani o musulmani), che avevano interesse a prestare denaro o anche solo a fare arrivare in loco il denaro spedito dai familiari del captivo. Viceversa, operazioni come questa potevano richiedere molto tempo, anche anni diversi:
Some used their savings and sold their belongings; others received money their relatives sent them, or took loans from intermediaries. Collecting the money independently without the help of local intermediaries was a task that could last years and the majority of the captives could not save enough money for such an expensive operation.170
Com’è ovvio, il meccanismo delle redenzioni - religiose o laiche che fossero - costituì un innegabile aiuto e rappresentò la principale speranza per coloro i quali avessero avuto la sventura di cadere in schiavitù nelle mani dei barbareschi: anzi, fu senza dubbio quanto di più utile e di più efficace si potesse predisporre in quelle società di Antico Regime, ancora prive - nella stragrande maggioranza dei casi - di forme pubbliche di assistenza sociale capaci di garantire sostegno a uomini e donne in casi di emergenza o di particolare necessità. Eppure, sappiamo anche di alcuni captivi che, contrariamente a quanto ci potremmo aspettare, furono danneggiati dall’invio di una redenzione in Nord Africa, in quanto, stando ai loro racconti, essi erano riusciti a negoziare privatamente con le autorità maghrebine un certo prezzo per il loro riscatto, il più delle volte con grandi sacrifici da parte dei familiari. Malgrado ciò, poteva accadere che, quando essi fossero già prossimi a versare la somma prevista, il contemporaneo arrivo al porto della città barbaresca della nave della redenzione facesse improvvisamente rialzare (fino a triplicare) il prezzo pattuito, costringendo quelli a intavolare nuove trattative per il loro rilascio. Si tratta di una lamentela ricorrente tra i captivi, i quali denunciavano che i prezzi negoziati dai padri redentori fossero generalmente più elevati. Ad esempio, «le capitaine Cristóbal de Cáceres rapportait qu’il avait réussi à négocier le prix de son rachat à 600 ducats. L’arrivée inopinée d’un religieux fit monter d’un coup son prix à 5.000 ducats, ou bien à 1.500 ducats plus un raïs détenu en Espagne. Il avait l’espérance que finalement le prix se fixerait à 1.000 ducats, sans avoir à négocier, en plus, l’échange de prisonniers».171
170 Daniel Hershenzon, Early Modern Spain and the Creation of the Mediterranean cit. ( Tesi di Dottorato ), p. 159. 171 Rapporto del capitano Cristóbal de Cáceres a Francisco de Ibarra, Algeri, 9 marzo 1576. Instituto Valencia de Don Juan (Madrid), Envío 49, b. 65, fasc. 6, n. 124. Il documento è citato in Cecilia Tarruell, La captivité chrétienne de longue
184
Si potrebbero portare ancora altri esempi a conferma di come, paradossalmente, l’azione degli Ordini redentori potesse addirittura arrivare ad essere nociva ai captivi più intraprendenti, soprattutto a quanti riuscivano a mettere da parte qualche somma e a negoziare con abilità la propria liberazione. Questo fatto, peraltro, appare chiaro agli occhi dei mori, a cui evidentemente non era sfuggita l’opportunità di lucrare con più alto margine in occasione delle redenzioni religiose. E, in effetti, sappiamo che nel 1588 «l’arrivo delle redenzioni mercedarie di Spagna e Portogallo, con delle casse piene di moneta pregiata spagnola, fece aumentare di colpo il prezzo dei captivi». Alcuni di essi, peraltro, erano riusciti a negoziare privatamente con i padroni il proprio riscatto, ed erano quasi giunti a mettere insieme il denaro necessario, quando videro i loro sforzi vanificati dall’arrivo della nave dei redentori mercedari, che come detto fece schizzare verso l’alto i prezzi dei captivi.172
Quei captivi, insomma, lungi da essere soggetti passivi, corpi inermi in attesa dell’arrivo della nave della redenzione, partecipavano invece, non solo da attori, ma da protagonisti all’«economie de la rançon», perfettamente inseriti nella rete di credito e di “fiducia” che connetteva i trafficanti di merci, come di uomini e donne, con le vittime di quel circuito perverso, in cui ognuno aveva il proprio tornaconto. Tutti, meno i captivi stessi, naturalmente, che subivano sulla propria pelle le conseguenze di tale particolarissimo commercio. Quelle reti offrivano un ampio ventaglio di possibilità di scambio, però la maggior parte delle volte gli scambi avvenivano tra persone che non si conoscevano e che, anzi, si reputavano mutuamente nemici e possibili truffatori: ciononostante, per salvare la pelle quei disperati dovevano fidarsi e proprio per questo occorreva la massima cautela nelle transazioni. Contrariamente alle normali transazioni commerciali, negli accordi di riscatto le parti erano - e generalmente rimanevano - ostili, e tuttavia si obbligavano a concludere un affare commerciale episodico, coscienti che mai più gli sarebbe capitato di ritrovarsi in future transazioni (o, per lo meno, questa era la speranza dei captivi e delle loro famiglie). In un tale contesto, è chiaro che le relazioni