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Uno spazio «di mezzo»?

Giunti a questo punto abbiamo elementi sufficienti per interrogarci sul carattere di spazio di frontiera che per lungo tempo è stato riconosciuto al Mediterraneo, un mare che nei decenni passati è stato considerato - lo si è visto all’inizio - come spazio di separazione tra due civiltà, come cerniera, anzi come «frontiera» naturale tra due mondi, poi a lungo e colpevolmente «dimenticata». Ciò rimanda alla solita e apparentemente intramontabile dicotomia che sembra caratterizzare quasi per definizione lo scenario mediterraneo - e ciò ben oltre i due secoli e mezzo circa (dai primi decenni del XVI alla fine del XVIII) che costituiscono il periodo oggetto del nostro discorso - e che avrebbe opposto, semplicemente, mondo cristiano e mondo musulmano in un confronto/scontro sotto tutti i punti di vista: religioso, politico, militare, economico. L’idea che «l’Islam et l’Occident forment deux civilisations incompatibles» è condivisa ancora oggi in diversi Paesi europei da partiti politici e movimenti xenofobi o apertamente razzisti ed è ben espressa dalla famosa formula del clash of

civilizations di Samuel Huntington, così chiara ed efficace da essersi convertita in breve tempo in un

luogo comune (ben prima che l’espressione giungesse ad indicare dinamiche e fatti drammaticamente noti all’osservatore contemporaneo69). Forse, proprio l’identificazione così precisa del bersaglio, da

parte dell’Occidente, nel mondo musulmano avrebbe favorito «l’effervescence antioccidentale des courants fondamentalistes comme des milieux nationalistes».70 Smussare gli angoli e le asperità di un tale scontro non è certo compito nuovo per gli storici, già da molti anni impegnati in un profondo ripensamento di quei termini, frutto del quale è oggi una bibliografia già sterminata e ancora

69 Samuel P. Huntington, The clash of civilizations and the remaking of World Order, Simon and Schuster, New York, 1996. È interessante notare, peraltro, che la formulazione dello «scontro di civiltà» vede opposto all’Occidente solamente l’Islam (e non, invece, anche le civiltà della Cina o dell’India).

70 Lucette Valensi, Ces étrangers familiers. Musulmans en Europe (XVIe-XVIIIe siècles), Payot & Rivages, Paris, 2012,

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crescente.71 E non si tratta neppure di rivedere al ribasso le implicazioni culturali e sociali che quello

scontro, che fu reale e duraturo, dovette avere sulle popolazioni e le civiltà che in quei secoli abitarono le rive del Mare interno (una tale operazione non è sbagliata in sé e, anzi, diremmo che è necessaria). Ciò che è fuorviante, a nostro avviso, è il punto di partenza: in effetti, prima di esaminare qualunque conseguenza di uno scontro o, ancor più a monte, della divisione di uno spazio, occorre chiedersi se tale scontro sia stato o meno l’elemento predominante nel complesso delle relazioni tra le due sponde e, in definitiva, se quello spazio sia stato davvero uno spazio di mezzo tra due mondi o se non sia stato piuttosto l’unico vero «mondo», comune alle due (presunte) civiltà che lo popolavano. Notiamo a questo proposito che l’espressione di «spazio di mezzo» (o, con l’ancor più netto termine francese, l’«entre-deux») fu utilizzata per la prima volta dalla storiografia contemporanea per indicare lo spazio frontaliero compreso tra la Mosa, il Rodano e il Reno nell’Alto Medioevo.72 Ora, questo spazio non

era affatto vuoto ma, al contrario, troppo pieno, uno spazio cioè in cui venivano a urtarsi i diritti e le pretese di dominio di differenti signori, offrendo così agli attori locali e regionali dei margini di manovra, mettendo un signore contro l’altro. Bene, dinamiche simili caratterizzarono allo stesso modo lo spazio mediterraneo, «un monde de circulations intenses qui sont facilitées par ce que l’on pourrait appeler des “zones de transit”».73 A proposito degli scambi commerciali e delle reti

mercantili e di credito nello spazio mediterraneo, è stato recentemente osservato che

L’unità fisica del Mediterraneo nell’epoca premoderna era assicurata dai marinai e dai mercanti che trafficavano nelle sue acque. La forma mentis e le pratiche di questi gruppi itineranti, tra i quali si trovavano cristiani greco-ortodossi e cristiani cattolici romani, musulmani arabi e musulmani osmanli, armeni ed ebrei, creavano una cultura comune che, anche in tempi in cui il Mediterraneo era diviso in sfere politiche e religiose distinte, forniva ad esso un’ulteriore dimensione d’unità.74

71 Inutile elencare anche solo pochi titoli, ma vale la pena forse segnalare per lo meno le seguenti opere collettanee che, apparse qualche anno fa, costituiscono a nostro avviso un punto di riferimento obbligato per qualunque altro studio sull’argomento: François Moureau (sous la direction de), Captifs en Méditerranée, XVIe - XVIIIe siècles. Histoires, récits et légendes, Presse de l’Université Paris-Sorbonne (PUPS), Paris, 2008 ; Wolfgang Kaiser (dir.), Le commerce des captifs: les intermédiaires dans l’échange et le rachat des prisonniers en Méditerranée, XVe-XVIIIe siècle, École franҫaise de

Rome, Roma, 2008 ; Giovanna Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e libertà nel Mediterraneo tra medioevo ed età

moderna, numero monografico di «Incontri mediterranei», XVII, 1-2 (2008) ; Sara Cabibbo e Maria Lupi (a cura di), Relazioni religiose nel Mediterraneo. Schiavi, redentori, mediatori (secc. XVI-XIX), Viella, Roma, 2012.

72 Georges Livet (a cura di), Les Pays de l’entre-deux au Moyen-Âge. Questions d’histoire des territoires d’Empire entre

Meuse, Rhône et Rhin (Actes du 113e Congrès national des Sociétés savantes), CTHS, Strasburgo, 1988.

73 Wolfgang Kaiser, Zones de transit. Lieux, temps, modalités du rachat de captifs en Méditerranée, in Jocelyne Dakhlia et Wolfgang Kaiser (sous la direction de), Les musulmans dans l'histoire de l'Europe, II. Passages et contacts en

Méditerranée, Albin Michel, Paris, 2013, pp. 252-253.

74 Anthony Molho, Comunità e identità nel mondo mediterraneo, in M. Aymard - F. Barca (a cura di), Conflitti, migrazioni

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Viene da chiedersi, allora, se quella dello scontro culturale/religioso sia ancora una valida chiave di lettura per interpretare fenomeni come le conversioni o il commercio dei captivi, o se non rischi, invece, di cristallizzare nei due blocchi identitari, legati al cristianesimo e all’islam, una realtà come quella del Mediterraneo di età moderna, che appare, invece, molto più complessa e sfaccettata. E questo diventa quanto mai evidente in alcuni luoghi in particolare, in quelli che potremmo chiamare «luoghi di confine».

Luoghi di confine

Era possibile evitare, nel Mediterraneo del Cinque e Seicento, quel confronto permanente tra «la Croce e la Mezzaluna»? C’era un modo di scappare alle galere del «Gran Turco» come alla corsa dei Cavalieri di Malta? La risposta è sì: ne era convinto il capitano spagnolo Alonso Contreras, un corsaro al servizio dell’Ordine di San Giovanni alla fine del XVI secolo, che nella sua autobiografia ci ha lasciato questa suggestiva descrizione dell’isola di Lampedusa:

A medio camino hay una isla que llaman de Lampedusa, donde cogimos a Caradali, aquel corsario; tiene un puerto capaz para seis galeras, y hay una torre encima del puerto muy grande, desierta; dicen que está encantada y que en esta isla fué donde se dieron la batalla el Rey Rugero y Bradamonte; para mí, fábula; pero lo que no es fábula es que hay una cueva en la que se entra a paso llano, y en ella hay una imagen de Nuestra Señora con un niño en brazos, pintada en tela sobre una tabla muy antigua, que hace muchos milagros; en esta cueva hay un altar donde está la imagen, con muchas cosas que han dejado allí los cristianos de limosna; bizcocho, queso, aceite, tocino, vino y dinero. Al otro lado de la cueva hay un sepulcro, donde dicen está enterrado un morabito turco, que tienen por santo suyo y al que dan las mismas limosnas que nosotros a nuestra imagen, más o menos, y mucho ropaje turquesco; sólo le falta tocino; es cosa cierta que esta limosna de comida la dejan los cristianos y turcos para que cuando llega allí huyendo algún esclavo tenga con que comer, hasta que venga bajel de su nación y le lleve, si es cristiano o turco; lo hemos visto porque de las galeras de la religión [ovvero, l’Ordine di Malta] habían huído moros y se guarecieron allí hasta que vino un bajel suyo, en el que se embarcaron; entretanto, comen de aquel bastimento. [...] Pero adviértase que ni él ni ninguno de los bajeles se atreverá a tomar el valor de un alfiler de la cueva, porque [si no] es imposible salir del puerto. Suele estar ardiendo noche y día la lámpara de la virgen, sin haber alma en la isla [...].

Toda esta limosna, tan grande, no consiente la imagen que la tome ningún bajel de cualquier nación, salvo las galeras de Malta, que lo llevan a la iglesia de la Anunciada de Trápani; si otro lo toma, no puede salir del puerto.75

75 Vida del capitán Alonso de Contreras, in Autobiografías de soldados, siglo XVII, Biblioteca de Autores Españoles, tomo XC, Atlas, Madrid, 1956, pp. 85-86. Il racconto del capitano di fregata spagnolo è riportato anche (in traduzione francese) in Kaiser, Zones de transit. Lieux, temps, modalités du rachat de captifs en Méditerranée, in Jocelyne Dakhlia et Wolfgang Kaiser (sous la direction de), Les musulmans dans l'histoire de l'Europe, II. Passages et contacts en

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L’isola di Lampedusa si dimostra, dunque, a fine Cinquecento, un luogo per lo meno neutrale ma, a ben guardare, il suo carattere ibrido si spinge anche oltre, facendone non soltanto una sorta di porto franco, ma quasi un luogo di doppia fede. La grotta di cui parla il capitano spagnolo parrebbe essere stata, in effetti, un luogo di culto «doppio», appartenente contemporaneamente alle due religioni, il che si spiega ovviamente con la particolare posizione geografica dell’isola. Una leggenda siciliana vuole che ad accendere il lume - che, come racconta ancora il Contreras, stava acceso anche la notte per guidare i naviganti - fosse un eremita, che viveva nella grotta sacra e che si presentava come cristiano o come musulmano, a seconda della provenienza dei naviganti che sbarcavano. Da ciò deriverebbe il comune detto «il romito di Lampedusa», con cui in Sicilia si additava una persona di doppia fede.76

Non è certo casuale che questo modello di sincretismo religioso si sia perpetuato fino alla fine del secolo XVI proprio in quest’isola, posta a metà strada fra la Sicilia e la costa africana. Al contrario di come accadde in Sicilia, a Pantelleria e a Lampedusa avevano continuato a vivere famiglie musulmane e si parlava un dialetto arabo. Anche la progressiva conversione al cristianesimo di rito orientale non provocò - come del resto a Malta77 - l’abbandono della lingua araba. A Pantelleria, fino alla fine del Trecento, gli abitanti pagavano 60 onze di tributo, 30 agli Hafsidi e 30 al re di Sicilia, una doppia sudditanza che ne rivela il carattere di luogo «neutrale» tra le due società, cristiana e musulmana. Quest’isola fungeva da tappa per il commercio degli schiavi e, più in generale, per trattative commerciali con il Maghreb.78

Un altro luogo simbolo di questo spazio di confine è, senza dubbio, Tabarca. La storia di questa minuscola isola, situata di fronte la costa della Tunisia, illustra davvero in modo esemplare questa condizione di spazio ibrido, tanto a livello politico quanto a livello religioso e si rivela particolarmente efficace anche per osservare, più nello specifico, il meccanismo dei riscatti di captivi.

76 Ivan Arnaldi, Nostra Signora di Lampedusa. Storia civile e materiale di un miracolo mediterraneo, Leonardo ed., Milano, 1992.

77 Tra l’altro, un recente studio di Francesco Russo ha portato l’attenzione sulla schiavitù di musulmani ed ebrei a Malta tra Cinque e Settecento, mostrando come, a seguito dei provvedimenti di espulsione per i non convertiti dai regni di Spagna, la compresenza delle tre religioni mediterranee nel piccolo arcipelago maltese sia stata garantita proprio dalla schiavitù (fino all’inizio del XIX secolo, infatti, a Malta e a Gozo continuarono a vivere ebrei e musulmani schiavi di padroni cristiani). Cfr. Francesco Russo, Schiavitù e conversioni a Malta in età moderna: nuove fonti e percorsi di ricerca, in Sara Cabibbo e Maria Lupi (a cura di), Relazioni religiose nel Mediterraneo cit., pp. 135-158.

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A partire dal 1540, Tabarca entrò a far parte della Repubblica di Genova (seppure, di fatto, sotto il controllo quasi esclusivo delle aristocratiche famiglie Lomellini e Grimaldi, da cui provennero praticamente tutti i governatori del presidio). Non è improprio affermare che la fortuna di questa piccola isola, così come il ruolo strategico che essa a lungo rivestì, derivarono, ancor più che dalla pesca del corallo e dalla sua elezione a importante base commerciale, dai contatti quotidiani fra governatori e rinnegati dell’alta gerarchia musulmana tunisina.79 Infatti, proprio attraverso questi

canali privilegiati i mercanti tabarchini svolgevano un redditizio ruolo di mediatori, che si concretava anche nell’acquisto di carichi navali predati dai barbareschi e, in massima parte, nella loro partecipazione al meccanismo dei riscatti e degli scambi di prigionieri, agevolata dallo stretto rapporto che essi intrattenevano coi rinnegati. Tabarca giocava un ruolo centrale per il riscatto e lo scambio dei prigionieri, che venivano fatti attendere sull’isola, sotto la responsabilità del governatore, per un tempo che poteva andare da pochi giorni ad alcuni mesi.80 Tanto i riscatti e gli scambi di prigionieri, quanto il commercio coi rinnegati, che costituivano il punto di forza dell’economia tabarchina, facevano capo a delle vere e proprie «imprese familiari europeo-barbaresche», che vedevano impegnati nello stesso affare membri di una stessa famiglia, in parte rinnegati, in parte cristiani.81 L’esempio del presidio genovese di Tabarca, insomma, è emblematico di quella osmosi di cui parlavamo all’inizio, di una certa confusione tra i confini rassicuranti della propria parte e quella avversa: «da che parte stavano i tabarchini?», si chiede laconicamente Lucetta Scaraffia.82 La loro

isola si poteva ancora considerare terra cristiana oppure, come suggerisce la ripartizione dei tributi fra Spagna e Barberia «una sorta di zona neutra, in cui venivano aboliti i confini fra Islam e Cristianità e quindi terreno di elezione per le attività dei rinnegati»? Ed effettivamente, se, vista dalla prospettiva

79 In effetti, per tutto il tempo che precedette la definitiva conquista ottomana di Tunisi (1574), Tabarca non era stata molto più che un’isoletta pressoché insignificante e con un’economia asfittica, se si eccettua la già ricordata e redditizia pesca del corallo; dopo quella data, invece, essa si convertì in breve tempo in un importante avamposto cristiano. E così, se dalla prospettiva genovese l’isola giocava quasi il ruolo di un presidio, vista dal Maghreb essa era invece una sorta di «anticamera dell’Europa». Si veda Lucetta Scaraffia, Rinnegati cit., pp. 21-23.

80 Oltre alla posizione favorevole - isolata e relativamente sicura - c’era anche un’altra ragione che rendeva consigliabile lo spostamento delle negoziazioni da Tunisi (a volte perfino da Algeri) a Tabarca, ed era il fatto che lì, essendo quella possedimento genovese, si evitava di pagare il 10 per cento dovuto al bey di Tunisi o a quello di Algeri, riducendo così i costi supplementari della transazione. È per questo motivo che, non solo il Magistrato del riscatto di Genova, ma anche altre istituzioni di riscatto attive nella penisola (ad esempio quelle di Napoli e della Sicilia) si servirono di Tabarca per le negoziazioni dei riscatti dei loro corregionali. Su tutto questo si veda Kaiser, Zones de transit cit., pp. 260-265.

81 Nel XVII secolo, un tale Giaffer Kadi, un rinnegato genovese (in cristianità Zachane Vione) che a Tunisi era giunto ad occupare la carica di cadi della dogana - ovvero il funzionario incaricato di controllare importazioni ed esportazioni -, compare spesso al centro di trattative di riscatto o di scambi commerciali insieme al fratello Luca, rimasto in Liguria, e ad un cugino che abitava a Marsiglia. Cfr. Lucetta Scaraffia, Rinnegati cit., pp. 21-23.

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genovese, l’isola giocava quasi il ruolo di un presidio, vista dal Maghreb, essa era invece una sorta di anticamera dell’Europa.83

Lampedusa e Tabarca, dunque, come luoghi di mezzo, spazi simbolo dell’«entre-deux», in cui la convergenza di interessi e, nel quotidiano, di pratiche sociali, economiche, religiose, diventa evidente. Diventa, anzi, così evidente da fare dire ad Amalia Signorelli, con immagine assai evocativa:

Contiguo, anzi cerniera tra altri due potenti poli simbolici, l’Oriente e l’Occidente, il Mediterraneo è sempre così pronto a sfumare i propri confini in quelli dell’uno o dell’altro, che talvolta sembra sul punto di venirne risucchiato, di diventare parte dell’una o dell’altra costruzione simbolica. E invece rimane sempre Mediterraneo, non tutto Oriente né tutto Occidente.84

Così, facendo leva su questi aspetti, c’è chi ha sostenuto che per comprendere davvero questo spazio occorra studiare non già luoghi, istituzioni e personaggi in modo isolato gli uni dagli altri, ma semmai spingersi a studiare «le identità collettive delle popolazioni delle epoche pre-nazionalistiche». E qui, effettivamente, il Mediterraneo ha molto da dire. Infatti,

Sia che fossero arabi, turchi, greci ortodossi, cattolici vecchi o nuovi cristiani, marrani, ebrei ponentini o levantini, mercanti o missionari italiani, iberici o nordeuropei, gli abitanti del bacino del Mediterraneo nei primi anni della modernità si confrontavano con un mondo che non presentava né consentiva la creazione di identità sociali semplici, lineari e ben integrate. I confini fisici e simbolici erano molto più fluidi di quanto lo siano stati in tempi più recenti; le autorità politiche esercitavano il proprio potere in modo più tenue; le conversioni religiose forzate o volontarie, strumentali o genuine, accadevano abbastanza frequentemente per indebolire le pretese di ortodossia avanzate dalle autorità religiose.85

Un sistema di valori (e di pratiche) condiviso

Prima di concludere questa parte introduttiva e volgere l’attenzione ad un aspetto specifico di quello spazio mediterraneo che qui si è provato a presentare - ovvero, la schiavitù e l’economia del riscatto ad essa legata - ci sia consentita un’ultima osservazione. Come è stato affermato, al di là del suo

83 Sul caso di Tabarca si vedano Achille Riggio, Tabarca e il riscatto degli schiavi in Tunisia (1593-1702), in «Atti della Deputazione di Storia patria per la Liguria», vol. III, 1938, pp. 255-346; Lucetta Scaraffia, Rinnegati cit., pp. 21-24; Wolfgang Kaiser, Zones de transit, pp. 260-265.

84 Amalia Signorelli, Postfazione in Dionigi Albera - Anton Blok - Christian Bomberger (a cura di), Antropologia del

Mediterraneo, Edizione italiana a cura di Adelina Miranda, Guerini scientifica Ed., Milano, 2007, p. 327.

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aspetto militare o para-militare, la guerra da corsa e la pratica di riduzione in schiavitù nel Mediterraneo tra Cinque e Settecento videro opposti «deux mondes religieux et socioculturels».86 Se

ciò è senz’altro vero, possiamo chiederci in che misura il commercio e lo scambio dei captivi possano essere considerati un tipo di commercio trans-culturale, ovvero - all’opposto - quanto quell’«espace partagé», quell’entre-deux di cui si è parlato, abbia potuto influenzarne, dall’una e dall’altra parte, pratiche, criteri di attribuzione del valore (valore d’uso, valore di scambio dei captivi) e perfino la retorica. Crediamo, infatti, che lo spazio mediterraneo abbia rappresentato un luogo eccezionale di ibridazione culturale e di formazione di pratiche condivise, giungendo a creare, attraverso quell’incredibile fluidificante rappresentato dal commercio, un linguaggio comune tra quei due «mondi» e delineando, dal basso, un orizzonte condiviso di riferimento. Tale orizzonte, al di là della retorica sapientemente utilizzata in sensi contrapposti da ambo le parti (e funzionale agli opposti scopi, come si è visto), era invece il punto di intersezione di pratiche di scambio e di strategie di garanzia degli interessi di parte, ma anche, concretamente, delle pratiche di identificazione delle persone e dei meccanismi di mobilitazione del denaro che creavano non solo una «rete» astratta, seppur ben rodata, ma un sistema di valori condiviso. Bisogna infatti «con-dividere» i criteri di attribuzione del valore, ad esempio, al denaro ed alla libertà di un essere umano, perché possa aver luogo uno scambio tra questi due fattori. Ma, lo ribadiamo, il ragionamento vale per qualunque tipo di scambio. Esemplifica bene questo concetto la vicenda del mercante tedesco Hans Ulrich Krafft, originario di Ulm, che negli anni ’70 del Cinquecento decise di entrare nel commercio di diamanti ad Aleppo e, per farlo, si servì della mediazione di un orefice olandese, che conosceva l’arabo e aveva contatti con intermediari locali. Ma i mercanti di Aleppo, prima di decidere se ammettere Krafft come loro socio d’affari, vollero testarne l’esperienza e, così, gli mostrarono delle pietre senza alcun valore, chiedendogli di valutarle. Questi, a sua volta, dietro consiglio dell’amico olandese si era fabbricato