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Entriamo adesso nel vivo del nostro discorso e concentriamoci sul fenomeno che di quel vasto ed incomprimibile modo mediterraneo costituisce l’oggetto del presente lavoro: la schiavitù legata alla guerra da corsa, e successivamente, il commercio dei captivi che ne derivava.

88 Kaiser, Zones de transit, pp. 253-254.

89 Fernand Braudel - Ruggiero Romano, Navires et marchandises à l'entrée du port de Livourne. 1547-1611, A. Colin, Paris, 1951, p. 24.

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La schiavitù è uno dei fenomeni di più lunga permanenza nella storia delle civiltà umane. Se escludiamo l’ultimo secolo e mezzo, che ne ha visto la progressiva scomparsa (o una persistenza sotto nuove forme?)91 almeno in una parte del mondo, per millenni la soggiogazione, deprivazione e lo

sfruttamento di esseri umani alla stregua di meri oggetti o di merci da vendere erano considerati naturali e dunque largamente praticati. Ciò vale sia per le antiche civiltà europee, ma anche per molte società del medioevo e dell’età moderna, ivi compreso il mondo islamico.92 Quella che si conobbe

nel Mediterraneo tra Cinque e Settecento, però, ebbe dei caratteri peculiari, che la distinguono da altre forme di schiavitù, conosciute nei secoli anteriori o anche nello stesso periodo nel contesto atlantico.93 Vediamo in che senso.

Uno degli elementi tipici della schiavitù mediterranea fu senz’altro la temporaneità: sebbene non sempre, molti degli individui - uomini, donne e bambini - che venivano catturati da pirati e corsari restavano schiavi per un periodo di tempo limitato, per lo più fino a quando non fosse stato versato il prezzo del riscatto, dai familiari o da altre istituzioni laiche o religiose. Ciò, appunto, al contrario di quanto accadeva per gli schiavi africani, che restavano schiavi per tutta la vita e la loro condizione non era reversibile.94 Non solo, ma spesso la permanenza forzosa dei captivi cristiani era di breve durata: alcuni riuscivano a tornare in libertà dopo solo pochi mesi e questo faceva sì che si potesse cadere in cattività anche più di una volta nel corso della vita.95 Questo in particolare poteva accadere ai pescatori o ai mercanti che percorrevano frequentemente le rotte mediterranee, ma non solo, come vedremo. Un altro elemento che differenzia le schiavitù mediterranea ed atlantica era certamente quello della reciprocità: non esisteva solo la corsa musulmana, ma anche quella cristiana, non solo cristiani captivi in terra d’Islam, ma anche musulmani (ed ebrei) in vari paesi europei. È appena il caso di ricordare come, al contrario, nessun uomo bianco venne mai condotto schiavo, ad opera di africani, per lavorare nelle miniere o nelle piantagioni. Inoltre, fu solo nel contesto mediterraneo che

91 La domanda, volutamente retorica ma dalla risposta tutt’altro che scontata, emerge tra l’altro dall’interessante comunicazione di Maria Grazia Giammarinaro (Rappresentante Speciale OSCE e Coordinatrice per la Lotta alla tratta di esseri umani), Human trafficking in contemporary Europe. Features of the phenomenon and actions for combating it and

for protecting the victims, intervento conclusivo alla XLV Settimana di Studi dell’Istituto Internazionale di Storia

economica F. Datini, tenutasi nell’aprile 2013 e dedicata a Schiavitù e servaggio nell’economia europea. Secoli XI-XVIII (Atti a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze, 2014).

92 Com’è evidente, non è pensabile fornire una paternità singola a una tale riflessione, però ci pare utile segnalare, almeno, due lavori che a tale continuità hanno dedicato uno spazio che va oltre un semplice accenno nell’introduzione, e cioè, su un piano temporale Salvatore Bono, Schiavi musulmani nell’Italia moderna. Galeotti, vu’ cumprà, domestici, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1999; e, su un piano spaziale, Géza Dávid and Pál Fodor (eds.), Ransom slavery along the

Ottoman borders. Early-fifteenth - early-eighteenth centuries, Brill, Leiden, 2007.

93 Ci riferiamo, ovviamente, a quella delle migliaia di deportati dall’Africa subsahariana al continente americano e legata all’economia di piantagione nel Nuovo mondo, nell’ambito del cosiddetto «commercio triangolare».

94 Non lo era, per meglio dire, se non per un deliberato atto di clemenza del padrone, che poteva eventualmente decidere di affrancare il proprio schiavo. Tale eventualità, comunque, non si verificò nella pratica che in rarissimi casi.

95 Sappiamo, ad esempio, del caso di un «patrone di barca» che nel giro di trent’anni venne catturato tre volte dai corsari maghrebini e fu altrettante volte riscattato. Giovanna Fiume, Schiavitù mediterranee cit., p. 32.

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nacquero e si diffusero un gran numero di istituti per il riscatto dei captivi, nonché alcuni Ordini militari e religiosi preposti a tale compito.96

Su quest’ultimo punto occorre fare una precisazione. Fino a pochi anni fa era opinione diffusa tra gli storici che la creazione di tali istituti avesse riguardato solo l’Europa cristiana, constatazione da cui si fece derivare troppo frettolosamente la conclusione che il mondo turco-barbaresco non si fosse ugualmente adoperato per il riscatto dei propri correligionari. In effetti, non risulta che paesi islamici si siano mai dotati di istituzioni equivalenti a quelle cristiane per il riscatto dei loro captivi; tuttavia - lo si vedrà più avanti - la mancanza di organizzazioni centralizzate non impedì ai mori di operare comunque privatamente per il riscatto dei loro correligionari.97

Tentativi di stima del fenomeno

Un’amplissima bibliografia ormai ha messo in evidenza come soprattutto la captivitas cristiana in terra d’Islam sia stata un fenomeno di massa e, se si vuole, di una certa «banalità», nel senso che essa rimonta almeno al Medioevo (ma potremmo farla risalire anche a tempi molto più antichi, per analogia con la pratica di riduzione in schiavitù o in prigionia delle popolazioni sconfitte in guerra). Ciò che rende, tuttavia, peculiare quella che conobbe il Mediterraneo tra Cinque e Settecento fu, per l’appunto, la sua straordinaria diffusione e, diremmo, quasi standardizzazione.98

Ma quanti furono i captivi vittime della guerra da corsa mediterranea di età moderna? È stato stimato che solamente i cristiani caduti in cattività siano stati, tra XVI e XVII secolo, «au moins plusieurs centaines de milliers». Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini che furono catturati, ridotti in schiavitù, contrabbandati e riscattati tra le due sponde del Mare Nostrum, dalle coste della Spagna

96 Su tutto questo cfr., tra gli altri, Salvatore Bono, La schiavitù e la storia del Mediterraneo, in «Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura», XIV, n. 54 (2001), in particolare le pp. 6-7; Giovanna Fiume, Premessa, in «Quaderni storici», 126, anno XLII, n. 3 (2007), p. 661.

97 Sulla presunta mancanza, nel mondo musulmano di età moderna, di istituti espressamente dediti al riscatto dei captivi di confessione islamica, paragonabili a quelli sorti in varie città e stati europei, si era espresso un gran numero di studiosi europei fino, appunto, a pochi anni fa. Vedremo più avanti che si tratta, però, più che altro di un luogo comune e che semplicemente la mancanza di notizie relative ai riscatti di musulmani è da attribuire a una maggiore dispersione delle fonti ad esso relative. E ciò perché si trattava per lo più di operazioni non istituzionali ma, in grandissima quantità, individuali, da ricercare tra le carte private e gli atti notarili (e non, invece, come per gli antichi Stati italiani ed europei, tra i documenti di opere pie o di apposite istituzioni formalizzate). Su tutto questo si veda Giovanna Fiume, Redimir y

rescatar en el Mediterráneo moderno, in «Drassana. Revista del Museu Marítim», n. 23 (2015), pp. 54-77, e infra,

capitolo II.

98 Diciamo “standardizzazione” perché, oltre al fatto di aver assunto in quell’epoca dimensioni mai raggiunte in precedenza, la schiavitù nel contesto mediterraneo conobbe anche una certa omologazione formale, tramite la messa a punto e l’affinamento di procedure specifiche, tanto per la cattura, quanto per la restituzione in libertà dei malcapitati. Di quest’ultimo punto ci occuperemo più nel dettaglio nel capitolo seguente.

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e dell’Italia al Marocco ed alle reggenze ottomane della Barberia. Ma questa stima, come detto, riguarda unicamente i cristiani. Complessivamente, secondo alcuni sarebbero stati almeno tre milioni di persone - tra cristiani e musulmani - ad essere catturati in terra o in mare e tratti in schiavitù tra il 1450 e il 1850.99 Secondo Robert Davis, oltre un milione sarebbero stati soltanto i cristiani schiavi in Maghreb tra il 1530 e il 1780100, mentre Alessandro Stella ha stimato che tra il 1450 e il 1750 siano arrivati soltanto in Spagna e Portogallo circa un milione e cento mila schiavi provenienti dall’Africa sub-sahariana, dal Marocco e dalle reggenze ottomane della Barberia.101 Nella penisola italiana, all’incirca mezzo milione di persone persero la libertà per mano dei corsari musulmani tra il primo Cinquecento e la fine del Settecento102, mentre nella sola Malta sarebbero stati almeno 35.000 o forse 40.000 i musulmani (la metà dei quali di origine maghrebina) catturati e ridotti in schiavitù ad opera dell’Ordine dei cavalieri di San Giovanni tra il XVII e il XVIII secolo.103

Numeri importanti, dunque, tanto che ormai, come è stato recentemente notato, l’importanza dell’esperienza della cattività nel Mediterraneo di età moderna «n’est plus à démontrer». Si trattò di una «expérience massive», che coinvolse non solo i diretti interessati (schiavi e padroni di schiavi) ma anche tutta una serie di associazioni ed istituzioni religiose, statali o confraternali - e che mobilitò una tale quantità di denaro da arrivare a costituire, almeno tra Sei e Settecento, un vero e proprio settore economico (di questo punto, però, ci occuperemo più avanti).104

Da quanto detto pocanzi, dunque, possiamo concludere che, probabilmente, non sapremo mai con esattezza quanti siano stati davvero i cristiani vittime della guerra da corsa, che abbiano sperimentato

99 Salvatore Bono, La schiavitù nel Mediterraneo moderno. Storia di una storia, in «Cahiers de la Méditerranée», n. 65, 2002, Atti del convegno L’esclavage en Mediterranée à l’époque moderne, Grasse, 2001, pp. 1-16 (versione on line); Id.,

Slave histories and memories in the Mediterranean World. A Study of the Sources (Sixteenth-Eighteenth Centuries), in

M. Fusaro, C. Heywood, M. S. Omri, (a cura di), Trade and Cultural Exchange in the Early Modern Mediterranean cit., p. 105.

100 Lo storico calcola un numero che oscillerebbe tra un milione e un milione e duecento mila persone. Cfr. Robert C. Davis, Counting European Slaves on the Barbary Coast, in «Past and Present», n. 172, 2001, I, pp. 87-124. Da tale conto restano esclusi, pertanto, i molti cristiani schiavi ad Istanbul e nelle altre regioni del Levante ottomano: pur in mancanza di numeri certi, possiamo però affermare che il loro conteggio accrescerebbe in modo significativo la stima proposta dallo storico americano.

101 Il numero sale a due milioni se si considerano anche i figli di quegli schiavi, nati anch’essi - ovviamente - col medesimo

status giuridico di schiavi nella penisola iberica, nelle Canarie o nelle Baleari. Cfr. Alessandro Stella, Histoires d’esclaves dans la péninsule ibérique, Editions de l'École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 2000, pp. 78-79.

102 Raffaella Sarti, Bolognesi schiavi dei “Turchi” e schiavi “turchi” a Bologna tra Cinque e Settecento: alterità etnico-

religiosa e riduzione in schiavitù, in «Quaderni storici», XXXVI (2001), n. 107, p. 450.

103 Michel Fontenay, Il mercato maltese degli schiavi al tempo dei Cavalieri di San Giovanni (1530-1798), in « Quaderni storici », n. 107, a. XXXVI (2), La schiavitù nel Mediterraneo (agosto 2001), p. 397. Le stime qui riportate sono riprese anche da Daniel Hershenzon, The political economy of Ransom in the Early Modern Mediterranean, in «Past and Present», n. 231 ( 2016 ), pp. 61-95.

104 Wolfgang Kaiser, Les mots du rachat. Fiction et rhétorique dans les procédures de rachat de captifs en Méditerranée,

XVIe-XVIIe siècles, in François Moureau (sous la direction de), Captifs en Méditerranée, XVIe-XVIIIe siècles cit., pp.

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anche solo per poco tempo la schiavitù in terra d’infedeli. Non solo perché abbiamo il sospetto che furono molto più frequenti gli auto-riscatti e, più in generale, i riscatti che non hanno lasciato tracce (come nel caso delle alafías, o ancora dei riscatti operati dai privati per conto delle famiglie dei captivi, senza l’intermediazione delle istituzioni, statali o religiose) ma anche perché non sapremo mai con precisione quanti dovettero essere i cristiani che decisero di convertirsi all’Islam, un numero che Bernard Vincent ipotizza addirittura più alto dei riscattati stessi.105 È dello stesso avviso ancora Robert Davis, secondo cui appena il 2% del totale dei captivi in Maghreb tra ‘500 e ‘600 sarebbe stato effettivamente riscattato e la gran parte restante (ovvero, stando a questa stima, quasi la totalità dei captivi) si sarebbe convertita all’Islam, integrandosi poi - in maniera più o meno conflittuale - nelle società barbaresche ed ottomane.106

La guerra da corsa: assalti e catture nel Mediterraneo e altrove

L’unica certezza che emerge da queste stime è che le incursioni corsare sui litorali dovettero rappresentare un pericolo di primissimo ordine per i paesi rivieraschi dell’Europa mediterranea (ma non solo). Uomini, donne e bambini di ogni età e condizione sociale erano catturati mentre navigavano o razziati nelle loro terre, magari mentre lavoravano nei campi o andando a lavare i panni al fiume; ciò poteva accadere non solo nell’immediato litorale ma anche in località più interne: il maiorchino Andres Felipe, ad esempio, fu catturato nel 1676 all’età di sessant’anni mentre era intento a sorvegliare il pascolo.107 Pirati e corsari giungevano alle coste della Spagna e dell’Italia meridionale,

sbarcavano in qualche tratto di litorale al riparo dalla vista di guardie e vedette - spesso in ciò aiutati da qualche rinnegato che ben conosceva l’ubicazione delle torri di avvistamento - e a volte del tutto indisturbati riuscivano anche a penetrare fin dentro i villaggi dell’entroterra o distanti qualche miglio dalla costa. Fonti e trattati dell’epoca raccontano come in alcune occasioni i barbareschi fossero giunti a terra travestiti da cristiani, per non dare nell’occhio, e che solo una volta raggiunto il centro abitato

105 Bernard Vincent, L’action des ordres rédempteurs, in «Hypothèses», Travaux de l’École doctorale d’Histoire de l’Université Paris I Panthéon-Sorbonne, Paris, 2007, pp. 326-327.

106 Robert C. Davis, Counting European slaves on the Barbary Coast cit. (in particolare alle pp. 113-115). La stima proposta dallo storico statunitense è accolta da Hershenzon, Las redes de confianza y crédito en el Mediterráneo

occidental. Cautiverio y rescate (1580-1670), in Fabienne P. Guillén et Salah Trabelsi (a cura di), Les esclavages en Méditerranée. Espaces et dynamiques économiques (moyen âge et temps modernes), Collection de la Casa de Velázquez,

Madrid, 2012, p. 133 n.

107 Questi fu poi riscattato dai padri Mercedari, un anno e mezzo più tardi, al prezzo di 215.5 pesos. BNE, ms. 3601, c. 38r.

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avessero dato avvio alla repentina razzia, catturando talvolta centinaia di persone in un sol colpo.108

Inoltre, se è vero che la maggioranza dei catturati era rappresentata da gente di mare, pescatori o marinai, generalmente di umili condizioni, nondimeno l’esperienza della prigionia in terra di infedeli poteva toccare in sorte a uomini di alto rango come soldati, ufficiali, diplomatici, membri della gerarchia ecclesiastica, o ancora a letterati. Com’è noto, lo stesso Miguel de Cervantes, l’autore del

Quijote, sperimentò la cattività in terra ottomana, precisamente ad Algeri, tra 1575 e 1580, prima di

essere liberato insieme ad altri al termine di una missione di riscatto inviata nella città maghrebina dai Trinitari spagnoli.109

Alcuni luoghi, ovviamente, erano più esposti di altri. La Sicilia, come è facile immaginare, era uno dei bersagli più colpiti, proprio a causa della sua posizione, così prossima alle basi della guerra da corsa barbaresca: le sue coste erano mal protette dalle frequenti incursioni corsare e la navigazione nelle sue acque era insicura. Basti pensare che i contratti di assicurazione delle navi, in partenza dagli scali dell’isola, per il trasporto di merci prevedevano, tra le cause di perdita del carico o della nave stessa, solamente gli imprevisti naturali come burrasche o tempeste, ma non l’eventualità di essere assaltati o catturati da pirati e corsari, evenienze per le quali non era previsto alcun rimborso o indennizzo. Ciò la dice lunga su quanto frequenti fossero imprevisti di questo tipo.110 Tuttavia, sebbene gli assalti alle imbarcazioni in transito fossero certamente più frequenti nelle acque mediterranee e nei litorali dei paesi rivieraschi del Mare interno, alcuni tra i corsari maghrebini più intraprendenti potevano spingersi fino alle acque dei mari del Nord, in Bretagna, nelle Asturie, perfino nelle coste dei paesi anseatici. E così, le catture da parte dei pirati barbareschi potevano accadere anche lì dove nessuno se le aspettava: nel 1640 Emmanuel D’Aranda, per far ritorno da Madrid alle Fiandre, scelse di passare da Castilla la Vieja e la Biscaglia ed imbarcarsi dal porto di San Sebastián, onde evitare di prendere il mare dalle coste d’Andalusia, che insieme a quelle del Portogallo erano «presque toujours infestées [par] les Turcs». Nonostante le precauzioni prese dal conte, i corsari lo catturarono in mare proprio nelle acque del Mar Cantabrico, poco lontano dal porto francese di La Rochelle. Poco prima, il capitano dell’imbarcazione nella quale egli viaggiava era stato messo in

108 Ignacio Vidondo, Espejo católico de la caridad divina y christiana con los cavtivos de sv pveblo, en qve se ve el

sagrado institvto del Real y Militar orden de Nuestra Señora de la Merced, por Gaspar Martínez, Pamplona, 1658, pp.

341-342.

109 Per un’accurata ricostruzione delle varie fasi legate alla cattività algerina e, poi, al riscatto di Miguel de Cervantes ad opera dei Trinitari nel 1580, si rimanda a Emilio Sola - José F. De La Peña, Cervantes y la Berbería. Cervantes, mundo

turco-berberisco y servicios secretos en la época de Felipe II , Fondo de Cultura Económica, Madrid - México D.F., 1995

(si vedano, in particolare, le pp. 227-260).

110 Aurora Romano, Schiavi siciliani e traffici monetari nel Mediterraneo del XVII secolo, in Mirella Mafrici (a cura di),

Rapporti diplomatici e scambi commerciali nel Mediterraneo moderno (atti del convegno internazionale di studi,

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guardia dall’equipaggio di una fregata francese, che aveva avvistato tre imbarcazioni turche nella direzione ove quella era diretta; eppure, stando a quanto racconta D’Aranda, il capitano «si fece beffa» di quell’avviso, giudicando «impossibile» che navi turche si spingessero fino a quelle latitudini.111

Ad ogni modo, stando alle fonti pervenuteci si può affermare che, malgrado il verificarsi di episodi come quello appena ricordato, la stragrande maggioranza delle catture e, quindi, dei riscatti riguardò le popolazioni costiere di Italia, Spagna, Portogallo e Sud della Francia. In questo senso, il riscatto di captivi provenienti da paesi del Nord Europa, catturati da corsari maghrebini, può essere considerato, tutto sommato, un affare di scarsa rilevanza, sia in termini numerici sia in termini di impatto economico. Secondo studi recenti furono alcune migliaia i nordeuropei che ebbero la sfortuna di cadere in schiavitù per opera di corsari barbareschi, venendo poi condotti in prevalenza in Marocco, ma anche ad Algeri e Tunisi. Nel complesso, il loro riscatto movimentò una quantità di denaro tutto sommato modesta, nonostante i prezzi normalmente più elevati rispetto a quelli dei captivi di Stati dell’Europa mediterranea.112

Una pratica codificata

Si ha spesso la tendenza a considerare la pirateria come una conseguenza della mancanza di regole, o meglio, della loro mancata applicazione. In particolare, essa può indurre l’impressione di un’anarchia economica dovuta a una carenza di controllo politico: e ciò a volte fu vero, soprattutto se si pensa ai casi più celebri, quelli delle grandi figure di pirati che emersero al di fuori di ogni controllo da parte dello Stato. Ma nel contesto maghrebino del Medioevo e dell’età moderna, questo non fu affatto il caso più frequente e possiamo constatare, al contrario, «une implication de l’État, qui va d’une tolérance intéressée, notamment en raison des recettes fiscales induites, à una participation plus ou moins ouverte à l’activité de rapine». In questo caso, si è soliti utilizzare, in luogo di pirateria,

111 Emanuel d’Aranda, Relation de la captivité et liberté de sieur Emanuel d’Aranda, Paris, Compagnie des libraires du Palais, 1665, pp. 2-3.

112 Magnus Ressel, Venice and the redemption of Northern European slaves (seventeenth and eighteenth centuries), in «Cahiers de la Méditerranée», n. 87 (2013), pp. 131-134. Lo studioso tedesco spiega così questa differenza riguardo il livello medio dei prezzi: «For Southern Europe […], the rate was certainly lower since Southerners were often captured and generally came from poorer countries». Ivi, p. 143 (nota). Cfr. anche Id., Protestant slaves in Northern Africa during

the Early Modern Age, in «Schiavitù e servaggio nell’economia europea. Secc. XI-XVIII», Atti delle Settimane di Studi

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l’espressione di guerra di corsa, sebbene il confine tra le due attività fosse sempre molto labile e perciò difficile da stabilire. In ogni caso, possiamo dire che si trattò di un’attività controllata ed