• Non ci sono risultati.

Funzione e legittimazione della pena nel programma di tutela dell’ambiente: un modello

Capitolo II – Funzione e legittimazione del diritto penale dell’ambiente

5. Funzione e legittimazione della pena nel programma di tutela dell’ambiente: un modello

L’elaborazione appena esaminata, pur non avendo attecchito alle radici della riflessione penalistica italiana sui paradigmi di giustificazione della pena, è stata comunque richiamata da autori quali Dario Franzin217 e Giuseppe Rotolo218 nei loro studi settoriali sul diritto penale dell’ambiente. Sebbene l’idea dei “programmi di tutela” non sembri in ultimo informare l’impalcatura concettuale di tali ricerche, tuttavia il cursorio riferimento che esse vi operano ne segnala l’utilità nella riflessione sulla funzione e sulla legittimazione della pena nel contesto della tutela dell’ecosistema.

Nell’economia della presente indagine, tale proposta teorica risulta di primario rilievo euristico in quanto pare recepire e, anzi, sviluppare nella prospettiva del penalista continentale, l’impostazione funzionale olistica e pluralistica che si è ritenuta distintiva delle regulatory

theories. A ben vedere, infatti, si potrebbe asserire che lo studio di Giovannangelo De Francesco

sia orientato a identificare un fondamento di giustificazione dell’intervento penale di tipo funzionale, ossia che discende dalla funzione che la comminatoria della pena svolge rispetto all’obiettivo di tutela perseguito da strategie regolatorie pubbliche composite. In quest’ottica, dunque, la legittimazione della scelta repressiva andrebbe rinvenuta non (solo) in schemi teorici endopenalistici (come l’offesa al bene giuridico selezionato dalla fattispecie legale), bensì (anche) in valutazioni sistemiche che considerano il complesso degli strumenti normativi impiegati dal legislatore per realizzare un più vasto programma di soddisfazione di un dato interesse ritenuto meritevole di tutela.

È evidente, peraltro, come la proposta di De Francesco abbia un valore eminentemente speculativo e sia, sotto alcuni profili, problematica. La direzione che essa sembra segnalare è, infatti, quella di una progressiva erosione del ruolo, nevralgico nella teorica liberale del bene

216 Questi passi sono tratti da G. De Francesco, op. cit., 2004, Torino, p. da 70 a 73. 217 D. Franzin, op. cit., 2018, Napoli, p. 3.

giuridico219, del principio di offensività220 a favore della rivitalizzazione del principio di

extrema ratio221. Tale principio, però, per la sua ambivalenza (laddove inteso come principio

di necessità della tutela penale222) e, soprattutto, per la sua connotazione prevalentemente politica (che ne rende difficile la giustiziabilità da parte della Corte Costituzionale)223, possiede una valenza critica ancora minore di quella, già assai limitata, del principio dell’offesa224. Del

resto, neanche il richiamo alla “ragionevolezza” dell’incriminazione pare essere più selettivo, considerato che tale “meta-criterio” possiede in materia penale una “geometria variabile”, tra i cui principi guida si identificano tanto la “sussidiarietà” quanto la “offensività”225.

L’intuizione fondamentale rimane però quella di un intervento penale che, in taluni settori dell’ordinamento, funge da precondizione strumentale di più complesse strategie regolatorie rivolte alla realizzazione di obiettivi, come la tutela dell’ambiente o della salute, di ampiezza e estensione tali da poter essere perseguiti solo mediante politiche pubbliche composite. Si tratta di un paradigma di inquadramento delle scelte repressive particolarmente convincente nel contesto del “passaggio dallo stato liberale allo stato sociale, dallo stato tutore dell’ordine pubblico allo stato curatore e promotore del pubblico benessere”226. In tale quadro, il diritto

penale serve da sostegno all’attività promozionale di altri rami dell’ordinamento, senza

219 Come ricorda F. Angioni, op. cit., 1983, Milano, p. 85 ss., l’offendibilità è infatti un attributo centrale della

concezione liberale moderna del bene giuridico. Una delle quattro proposizioni (due delle quali, peraltro, smentite dallo stesso Autore) su cui si fonda tale concezione è infatti la seguente: “Il bene giuridico è una situazione offendibile secondo il principio di causalità”.

220 Cfr., in senso critico, V. Manes, op. cit., 2005, Torino, p. da 101 a 106.

221 In senso analogo, in materia ambientale, D. Franzin, op. cit., 2018, Napoli, p. 80 e 81.

222 C. E. Paliero, L’agorà e il palazzo. Quale legittimazione per il diritto penale?, in Criminalia, 2012, p. 95 ss. 223 Chiarissima, a tal riguardo, la diagnosi di A. Gargani, op. cit., in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1488 ss., il

quale rileva: “il modello teorico difetta, inoltre, di falsificabilità e di vincolatività. Com'è stato opportunamente osservato, esso finisce per esprimere un'idea regolativa: un metodo (e un'etica) di approccio al problema penale, una linea di tendenza per un uso il più possibile limitato e ponderato dello strumento penale, […]. Difetto di univocità e inidoneità a condurre a soluzioni vincolate inficiano l'efficacia e la forza del principio, non di rado ridotto a mero invito al legislatore ad un uso il più possibile limitato dello strumento penale, lasciando indefinito il possibile limite. La tendenziale insindacabilità delle valutazioni politico-criminali e il difetto sostanziale di giustiziabilità costituzionale dell'extrema ratio, se non negli angusti limiti della ragionevolezza, hanno indotto a ritenere che tale principio (al pari di quelli di proporzione e frammentarietà) implichi valutazioni che, per la loro genericità e per l'opinabilità del riscontro dei presupposti di fatto contingenti, sono inevitabilmente e tipicamente politiche. Inserito tra i criteri informatori e direttivi nell'adozione da parte del legislatore di norme penali, l'extrema

ratio viene, infatti, da molti considerato un canone materiale di politica criminale privo di effettività”. Sulla crisi

attuale di tale principio, cfr. C. E. Paliero, op. cit., in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1447 ss.

224 Sulla scarsa valenza limitativa di tale principio, ancora F. Angioni, op. cit., 1983, Milano, in diversi passaggi

tra p. 79 e 101 ss.

225 V. Manes, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen.,

2007, p. 739 ss.

assumere, è bene ribadirlo, esso stesso siffatta funzione promozionale, perlomeno nella sua componente repressiva227.

In sintesi, dunque, la funzione del diritto penale, nello Stato sociale moderno, pare essere, perlomeno in taluni settori, quella di prevenire i comportamenti che violano le condizioni fondamentali di realizzazione dei programmi di tutela predisposti dalle competenti autorità pubbliche. La sua legittimazione si rinviene, di conseguenza, negli interessi sostanziali alla cui tutela sono diretti tali programmi. Se essi sono interessi costituzionali (espliciti o impliciti) allora si potrà ritenere che la violazione diretta delle strategie normative e amministrative predisposte per la loro realizzazione giustifichi (ma non necessariamente richieda!) una sanzione penale, sebbene ovviamente adeguata nelle sue modeste proporzioni alla circostanza che non vi sia stata offesa diretta all’interesse tutelato.

È un modello che si potrebbe definire “regolatorio” di inquadramento e giustificazione dell’intervento punitivo: le norme penali sono impiegate per assicurare le condizioni di base per lo svolgimento di politiche pubbliche dirette a realizzare “a broadly defined outcome or

outcomes”228 e la loro legittimazione discende proprio dalla meritevolezza degli obiettivi complessivamente perseguiti e dalla circostanza che la condotta illecita pregiudichi la possibilità di realizzarli.

Potrebbe parere che tale paradigma abbia una portata espansiva eccessiva. Ma esso, oltre a offrire una lettura maggiormente aderente alla realtà della legislazione vigente (la quale, però, potrebbe essere, ed effettivamente è, criticata), si presta in definitiva alle medesime strumentalizzazioni concettuali cui va incontro la teorica del bene giuridico quando si impiegano le categorie dei “beni strumentali” e dei “beni finali” (mediante la c.d. “seriazione” dei beni), del pericolo astratto e del pericolo presunto, dei beni “normativi”, della ratio di tutela, e così via229: a tal proposito, è suggestiva la disincantata considerazione di Francesco Angioni,

227 Come si evince ancora da N. Bobbio, op. cit., Bari, 2007 (ed. digitale 2015), capitolo I, La funzione promozionale del diritto, p. 34, il quale osserva che “col minimo di parole si può utilmente distinguere un

ordinamento protettivo-repressivo da un ordinamento promozionale, dicendo che al primo interessano soprattutto i comportamenti socialmente non desiderati, onde il suo fine precipuo è di impedirne quanto più è possibile il compimento; al secondo interessano soprattutto i comportamenti socialmente desiderati, onde il suo fine è di provocarne il compimento anche nei confronti dei recalcitranti”.

228 Per utilizzare parte della definizione di regulation elaborata da J. Black, op. cit., in Current legal problems,

2001, p. 142.

secondo cui “si muove la storia e vi si adegua il dogma, nel bene e nel male”230. Non è, infatti,

il bene giuridico in sé ad avere portata limitativa, quanto piuttosto la concezione che se ne propone e, soprattutto, il rigore con cui essa viene inquadrata entro i principi di garanzia sanciti dalla Costituzione.

Ebbene, taluni di questi principi presentano innegabili frizioni con un paradigma di legittimazione dell’intervento penale accessorio e funzionale. Istruttive sono, a tal riguardo, le riflessioni di Vittorio Manes, il quale rileva come la carente offensività di illeciti penali che sanzionano la violazione della disciplina extrapenale di settore “si ripercuote spesso in modo direttamente proporzionale sul grado di osservanza e di affermazione di altri principi di garanzia in materia penale (riserva di legge; tassatività/determinatezza; colpevolezza)”231. Si tratta di rilievi critici condivisibili, ma che rischiano in ultima istanza di rivelarsi aprioristici. In effetti, Giuseppe Rotolo, approfondendo questi profili problematici, sembra aver rilevato elementi capaci di bilanciare gli apparenti deficit sul piano dei principi di legalità e di colpevolezza: da una parte, il riferimento alla riflessione, ormai consolidata, sugli “equivalenti funzionali della riserva di legge” e, dall’altra, l’elaborazione di una proposta atta a rendere il soggetto che agisce in contrasto con la pertinente normativa amministrativa consapevole della illiceità della propria condotta (tramite l’interposizione di un momento “ingiunzionale”)232. Ma si ricordi anche

l’osservazione di Massimo Donini, secondo cui la punizione di una condotta meramente rischiosa potrebbe essere giustificata dalla pericolosità del presupposto della stessa (come nell’ipotesi della violazione di prescrizioni attinenti alla gestione di rifiuti tossici)233. O ancora,

si pensi alla feconda proposta di Dario Franzin, secondo cui è possibile recuperare il deficit (apparente) di offensività delle contravvenzioni ambientali mediante la predisposizione di generali ipotesi di non punibilità per le condotte di ripristino di una situazione conforme alla disciplina extrapenale234. Nel prossimo capitolo si constaterà, peraltro, come tracce di talune di queste soluzioni possono già ravvisarsi nella legislazione penale ambientale vigente.

230 F. Angioni, op. cit., 1983, Milano, p. 153.

231 V. Manes, op. cit., 2005, Torino, p. 107. L’argomento è sviluppato con riguardo ai principi di legalità,

colpevolezza e della funzione rieducativa della pena nelle pagine successive (fino a p. 120).

232 G. Rotolo, op. cit., 2018, Torino, p. da 236 a 241. 233 M. Donini, op. cit., 2004, Milano, p. 114.

234 D. Franzin, op. cit., 2018, Napoli, p. 82, ove si legge esplicitamente: “l’idea di fondo che ci sembra di poter

ragionevolmente sostenere è che la minaccia penale potrebbe retrocedere quasi ai limiti della lesione della sola funzione di governo dell’ambiente purché la maggiore lontananza dall’offesa venga in qualche modo compensata da ‘contrappesi’, quali ad es. il principio di ultima ratio, da valorizzare – per l’appunto – sotto forma di tecniche

Più che rifugiarsi in un manicheo ripudio delle esigenze della modernità, dunque, la scienza penale dovrebbe prenderne atto, tentando di guidare una evoluzione che ormai sembra inevitabile e non del tutto censurabile (ossia quella dell’impiego del diritto penale come strumento regolatorio nel contesto di più ampi programmi di tutela) per ricondurla a razionalità, in termini descrittivi (de iure condito) e prescrittivi (de iure condendo). La riflessione di Giovannangelo De Francesco si orienta, in definitiva, proprio in questa direzione, poiché tenta di fornire una lettura delle dinamiche della modernità penale che, nella sua aderenza alla vigente realtà normativa, ne propone però un ripensamento nella logica della extrema ratio.

Rimane comunque insoluta la questione dell’identificazione di un “surrogato” del principio di offensività in tali schemi di intervento penale. Sembra infatti difficile eludere il riferimento, sebbene indiretto, all’interesse sostanziale finale tutelato dal programma normativo cui partecipa lo strumento punitivo. In questa prospettiva, si potrebbe pensare ad una valutazione in termini di pregiudizio alla possibilità che il complesso normativo realizzi il suo obiettivo regolativo: in altri termini, si potrebbero ritenere legittimate sul piano del principio di offensività solo quelle fattispecie che incriminano violazioni significative della pertinente disciplina extrapenale, tali da rendere, se diffuse, impossibile la tutela effettiva di quell’interesse. Oppure, sulla scorta delle suggestioni dottrinali dianzi richiamate, si potrebbe valorizzare la gradualità dell’approccio punitivo mediante l’introduzione di paradigmi ingiunzionali (ossia, di un momento intermedio precedente alla repressione penale) o, specularmente, tramite la generalizzazione delle ipotesi di non punibilità correlate a condotte di ripristino della conformità alla legalità amministrativa.

Ad ogni modo, prescindendo da tali speculazioni dogmatiche e tornando al “campo di materia” ambientale, la legislazione vigente consegna un modello di penalità ibrida, la cui funzione e legittimazione si coglie nella protezione, tramite la minaccia della repressione, delle “precondizioni strumentali” dell’attività amministrativa di governo dell’ambiente, sebbene talora (ossia, in taluni ecodelitti) il profilo dell’offesa all’ecosistema assuma una paritaria (ma non prevalente) dimensione giustificativa.

È questo il quadro d’insieme che restituisce un’analisi regolatoria (descrittiva) sulla razionalità funzionale del diritto penale ambientale. A ben vedere, però, tale rappresentazione risulta

premiali, a loro volta incentrate sull’eliminazione dei rischi per l’ambiente che alla lesione degli interessi amministrativi eventualmente si accompagnano”.

incompleta poiché è stata dedotta da un’indagine relativa alle sole “sanzioni negative”, ossia repressive, approntate in tale settore. In verità, infatti, ivi si rinvengono anche rilevanti ipotesi di “sanzioni positive”235, ossia premiali, aventi portata applicativa tale da estendersi all’intero segmento punitivo in esame. Pertanto, è ora necessario muovere ad uno studio “regolatorio” di tali previsione, dal quale si trarranno elementi utili a integrate le conclusioni cui si è appena pervenuti.

235 La distinzione tra queste due categorie è approfondita da N. Bobbio, op. cit., Bari, 2007 (ed. digitale 2015),

Capitolo III – Sanzioni positive e premialità nel diritto