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La tutela di funzioni come (complementare) fondamento di giustificazione delle

Capitolo II – Funzione e legittimazione del diritto penale dell’ambiente

3. La tutela di funzioni come (complementare) fondamento di giustificazione delle

La ricognizione appena effettuata dovrebbe aver dimostrato che il problema dell’identificazione di un paradigma di legittimazione alternativo (all’offesa) al bene giuridico si ponga soprattutto con riferimento a talune incriminazioni, perlopiù contravvenzionali, che anticipano a tal punto la soglia di tutela da rendere non intellegibile la correlazione offensiva con l’ambiente e da esaurire così la propria tipicità nella mera violazione della disciplina extrapenale. Si tratta di (alcuni) illeciti ascrivibili (al modello “sanzionatorio puro” e, in particolare,) alle categorie della accessorietà “media” e della accessorietà “forte”: ossia, a titolo esemplificativo, dei reati che reprimono lo svolgimento di attività senza la prescritta autorizzazione oppure lo svolgimento di attività in violazione delle relative prescrizioni amministrative oppure, ancora, le condotte di mancata collaborazione con le autorità preposte ai controlli (tra cui rientra anche il delitto di impedimento del controllo ex art. 452 septies c.p.)188.

È per questi illeciti che si è posto il tema della tutela di funzioni. In via generale, si deve rilevare che tale paradigma è stata impiegato, da taluni criticamente e da talaltri favorevolmente, per descrivere un contesto normativo in cui la normativa penale, in ragione della presenza di un’elevata conflittualità tra interessi meritevoli di tutela, deve prescindere dal riferimento diretto al bene giuridico “finale”, la cui dimensione è talmente macroscopica da renderlo

188 L’utile esemplificazione è offerta da C. Ruga Riva, op. cit., in (a cura di) M. Pelissero, op. cit., 2013, Torino,

p. 11. Ma anche per gli illeciti che incriminano il superamento dei limiti-soglia si pone il problema di una eccessiva anticipazione della tutela, sebbene non riconducibile al tema della tutela di funzioni: sul punto, E. Penco, op. cit., in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 195 ss.

“inafferrabile” per il legislatore189, e deve affidarsi, piuttosto, all’intermediazione di un’autorità

pubblica la cui attività consiste proprio nel definire le condizioni di sostenibilità della protezione di quel bene all’esito di un bilanciamento con gli altri interessi meritevoli di tutela coinvolti190. In altri termini, come ha chiaramente affermato Tullio Padovani, in queste ipotesi la norma penale “assume come finalità particolare la salvaguardia del modo di risoluzione di un conflitto di beni” rimesso alla pubblica amministrazione191, esaurendosi dunque in una

dimensione meramente normativa.

Due sono gli orientamenti dottrinali che pare poter ravvisare, a tal riguardo, in materia ambientale: l’uno che nega la possibilità di ritenere la tutela di funzioni come un paradigma di giustificazione autonomo dell’intervento penale, l’altro che invece la ammette. Nel primo orientamento, peraltro, si distinguono due diversi indirizzi: il primo che esclude radicalmente la legittimità della funzione amministrativa a fungere da referente della protezione penale (in quanto essa non costituisce un bene giuridico), mentre il secondo ritiene che la funzione amministrativa possa essere tutelata penalmente solo in quanto “strumentale alla salvaguardia di un bene giuridico finale, che risulta protetto indirettamente”192.

La differenza tra i due orientamenti è che l’uno (il primo) si muove entro il paradigma giustificativo classico del bene giuridico, mentre l’altro (il secondo) ritiene che le funzioni amministrative siano un referente autonomo e meritevole in sé di tutela193. I due indirizzi distinti all’interno del primo orientamento condividono il medesimo orizzonte culturale, ma giungono

189 C. Bernasconi, op. cit., 2008, Pisa, p. 123, osserva sul contesto che favorisce l’impiego di questo paradigma di

tutela: “molto spesso, infatti, nelle società moderne ci si trova di fronte, da un lato, a beni ‘a largo raggio’, privi di quello spessore necessario per renderli agevolmente afferrabili, sicché l’oggetto della tutela si sposta dagli interessi di soggetti giuridici a ‘complessi funzionali che sono in larga parte l’oggetto di disciplina di altri settori del diritto e dell’attività amministrativa dello Stato’; dall’altro lato, ad una pluralità di beni, ritenuti meritevoli di tutela, ma tra di loro in conflitto, con la conseguenza che il legislatore si limita per lo più ad affidare la composizione di tale conflitto alla pubblica amministrazione, la quale provvede, innanzitutto, ad una gestione preventiva dello stesso, invocando poi, se del caso, l’intervento della sanzione penale per una gestione repressiva; per garantire, cioè, il rispetto delle modalità legalmente stabilite per la composizione dei diversi interessi in gioco”. Cfr. anche F. Giunta,

op. cit., in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1097 ss., che parla di “necessità di dare concretezza a un bene giuridico

proteiforme e complesso come l'ambiente”.

190 In questa sede è utile richiamare l’impostazione manualistica di C. Ruga Riva, op. cit., in (a cura di) M.

Pelissero, op. cit., 2013, Torino, p. 11, 12 e 13.

191 T. Padovani, op. cit., 2012 (X ed.), Milano, p. 89. Cfr. anche le belle pagine di V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, 2005, Torino, p. 95 ss.

192 F. Giunta, op. cit., in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1097 ss. il quale propone la distinzione tra tre orientamenti.

Si è scelto di riformulare la sua elaborazione allo scopo di evidenziare come uno di essi (il primo) abbandona il quadro giustificativo classico del bene giuridico, mentre gli altri due, pur pervenendo a esiti opposti, rimangono al suo interno.

193 Tale opinione è stata autorevolmente sostenuta da G. Marinucci e E. Dolcini, Diritto penale “minimo” e nuove forme di criminalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 776 ss.

ad esiti normativi opposti, poiché l’uno propone la depenalizzazione dei tipi di illecito sopra menzionati194, mentre il secondo li sottopone ad un esame critico allo scopo di distinguere quali presentino una correlazione offensiva, sebbene “mediata”, con il bene protetto e quali invece ne siano carenti. È quest’ultimo l’indirizzo complessivamente prevalente195, il quale in

definitiva pare ricondurre lo schema punitivo in esame alla tecnica del pericolo astratto (per il bene giuridico “finale”) e verificare la corrispondenza delle singole incriminazioni alla sua

ratio.

Il dibattito è terreno di confronto tra diversi modi di intendere la penalità, tra proiezioni moderne e radici classiche196. Ripercorrerlo nel dettaglio non è possibile per la vastità e l’inesauribile complessità delle argomentazioni. Certo è che le preoccupazioni espresse, tra gli altri, icasticamente da Federico Stella con riguarda all’accettazione acritica del paradigma giustificativo della tutela di funzioni non possono essere ignorate: il timore che la pena sia inflitta a comportamenti del tutto inoffensivi rispetto all’interesse sostanziale tutelato in ragione di un fondamento formale di legittimazione dell’intervento punitivo, adottato il quale la scienza penale (inesorabilmente declinante verso un “positivismo noncurante”) perderebbe qualsivoglia possibilità di critica della legislazione vigente, non è infondato197.

È pur vero però che, per le ragioni testé menzionate, pare imprescindibile, nel “campo di materia” in esame, l’impiego di incriminazioni la cui tipicità è “plasmata” dalla violazione della disciplina extrapenale e che presentano, dunque, una correlazione offensiva con l’ambiente molto remota e astratta.

194 In tale ottica, radicale, pare orientarsi la trattazione di F. Stella, op. cit., 2003, Milano, p. 515 ss. e, sebbene in

termini meno nitidi, F. Consulich, op. cit., in Leg. pen., 2018, p. 1 ss.

195 In tal senso, F. Giunta, op. cit., in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1097 ss., ma anche L. Siracusa, op. cit., 2007,

Milano, p. 403 ss., C. Bernasconi, op. cit., 2008, Pisa, p. 133 ss. e V. Manes, op. cit., 2005, Torino, p. 100. Con maggiore apertura nei confronti della tutela di funzioni, anche T. Padovani, Tutela di beni e tutela di funzioni nella

scelta tra delitto, contravvenzione e illecito amministrativo, in Cass. pen., 1987, p. 675 e 676.

196 Tali tendenze contrastanti caratterizzano, peraltro, tutto il diritto penale dell’ambiente, e non solo l’argomento

in esame, come ricorda C. Bernasconi, op. cit., 2008, Pisa, p. 3. Per ulteriori riferimenti bibliografici (sul tema si sono espressi anche autori quali D. Pulitanò, G. Fiandaca, F. Angioni e altri), si rinvia a F. Giunta, op. loc. ult. cit. e a C. Ruga Riva, op. cit., in (a cura di) M. Pelissero, op. cit., 2013, Torino, p. 11, 12 e 13.

197 F. Stella, op. cit., 2003, Milano, p. da 533 a 535. Cfr., in termini più dogmatici, V. Manes, op. cit., 2005, Torino,

p. da 101 a 106. Come ricorda N. Bobbio, op. cit., Bari, 2007 (ed. digitale 2015), capitolo IV, p. 68 e 69, del resto, “il furore antiteologico di Kelsen e dei kelseniani” era giustificato proprio dalla circostanza che “la ricerca dello scopo o degli scopi del diritto era la breccia attraverso cui entravano nella teoria del diritto le più contrastanti ideologie. Il circoscrivere il compito di una teoria del diritto all’analisi strutturale era un modo di salvaguardare la ricerca teorica dall’intrusione dei giudizi di valore”, particolarmente insidiosi in ambito penale.

Peraltro, rispetto ad esse, la funzione critica del dogma del bene giuridico, del resto già revocata in dubbio da autorevoli indagini generali198, sembra essere estremamente ridotta199: qual è, infatti, l’intensità del pericolo per l’ambiente che giustifica la comminatoria della pena? Posto che quasi tutte le attività antropiche deteriorano l’ecosistema in termini empirici (anche quando svolte conformemente alle prescrizioni amministrative!) e che, per tale motivo, l’ambiente è tutelato nella sua dimensione “normativa” e “relativa”, come può l’interprete sovvertire le valutazioni della pubblica amministrazione e ritenere che il superamento dei limiti e delle condizioni da essa identificate per la delimitazione del “rischio consentito” non rappresenti un pericolo per l’ambiente?200 L’unica eccezione è apparentemente costituita dalle fattispecie che

incriminano la mancata collaborazione del privato con le autorità competenti: in queste ipotesi, in effetti, “il comportamento illecito si riduce alla mera non conformità a prescrizioni a carattere organizzatorio o strategico anche lontane dagli interessi concreti […] che possono subirne pregiudizio”201. Ma anche a tal riguardo, stiracchiando la nozione di “strumentalità” della tutela, si potrebbe sostenere che, ad esempio, un impedimento doloso del controllo ambientale (come quello incriminato dall’art. 452 septies c.p.) sia correlato, secondo l’id quod plerumque accidit, ad un processo, in atto, di consolidamento di un’offesa per l’ecosistema.

Ad ogni modo, prescindendo per un momento dalle considerazioni dogmatiche, l’ineludibile dato positivo da cui muovere è rappresentato dal vasto impiego, soprattutto nel segmento contravvenzionale di tutela della biosfera, di fattispecie incriminatrici la cui precipua funzione è, come più volte osservato, quella di corroborare il complesso regolatorio di governo extrapenale dell’ecosistema: in un contesto lecito di base come quello lato sensu ambientale, il

198 In particolare, rilevava la crisi del bene giuridico già F. Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, 1983, Milano, passim. Più di recente, e ancor più radicalmente, G. Fiandaca, op. cit., Palermo, 2014, passim.

199 Della stessa opinione è G. Rotolo, op. cit., 2018, Torino, p. 216.

200 Del resto, la pretesa autonomia della valutazione da operarsi in sede penale potrebbe condurre anche ad esiti

involuti, come la legittimazione di quegli orientamenti giurisprudenziali che, enfatizzando proprio il profilo del danno arrecato (sul piano empirico) all’ecosistema, ritengono meritevoli di sanzione anche condotte autorizzate dalle autorità amministrative: se, infatti, il bene giuridico consente di ritenere non punibili fatti conformi alla fattispecie legale, perché non potrebbe consentire di punire fatti non conformi ad essa? Certo, si potrebbe sostenere che la sua funzione critica debba essere esercitata unicamente in bonam partem: ma ciò non varrebbe in sede di riflessioni di politica criminale. Inoltre, quegli itinerari giurisprudenziali si fondano su un’interpretazione estensiva delle clausole di illiceità speciale e non rappresentano, dunque, argomentazioni in aperto contrasto con la lettera della legge. In argomento, A. Di Landro, op. cit., 2018, Torino, p. 97 ss. e A. Gargani, op. cit., in Discrimen, 11 febbraio 2020, p. 1 ss. il quale icasticamente osserva che “nella giustizia situazionale, adattiva rispetto alle aspettative sociali di repressione, è il processo penale che si riserva la determinazione − postuma ed esemplare − del livello di tollerabilità sociale delle condotte ad impatto ambientale”.

201 Così L. Cornacchia, Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in Giur. comm.,

riferente dell’intervento punitivo non è un’entità empirica “preesistente”, bensì una dinamica composizione di interessi determinata dalle autorità pubbliche competenti202. L’accettazione della dimensione “normativa” dell’ambiente reca con sé, implicita, la consapevolezza dell’autoreferenzialità della tutela penale approntata dall’ordinamento, la quale è rivolta ad un’oggettività giuridica inesistente in rerum natura.

Il che, però, non implica che la pena assuma direttamente “il ruolo di strumento di governo o direzione della società attraverso il ricorso ad articolate strategie punitive orientate alle conseguenze”203: al contrario, essa funge, in materia ambientale, da ammennicolo sanzionatorio della regulation amministrativa di settore. Ed è forse proprio questo uno dei connotati salienti della modernità penale: la perdita di autonomia dell’intervento punitivo, il quale, distaccandosi dal paradigma conchiuso della retribuzione per l’offesa a un bene giuridico individuale (impiegabile, sulla scorta della riflessione di Nicola Lacey, solo per i mala in se), diviene parte di complesse strategie di direzione e controllo della collettività, alla cui funzione promozionale parteciperebbe (senza, peraltro, assumerla direttamente con la scelta meramente repressiva, come pure alcuni hanno prospettato204). È in questa prospettiva che l’impostazione ricostruttiva,

funzionale e pluralistica, tipica delle regulatory theories può contribuire al dibattito in ordine alle ulteriori ragioni giustificative, rispetto all’offesa al bene giuridico tutelato, dell’intervento penale in materia ambientale. Prima di chiarire i termini di questo apporto concettuale, è necessario però offrire un quadro sintetico dell’indagine di Giovannangelo De Francesco su “programmi di tutela e ruolo dell’intervento penale”, la quale anticipa gran parte delle conclusioni cui un approccio regolatorio in tale materia può pervenire.

4. Pena e programmi di tutela: la proposta di Giovannangelo De Francesco