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Generi letterari e interazioni linguistiche

Capitolo 2: La lingua dell’esperienza

4. Generi letterari e interazioni linguistiche

Iniziamo dal pezzo di LN più citato dalle interpretazioni in favore di un recupero magico e mitico del passato attraverso il dialetto:

Maggio in orto, api, calabroni; virgulti, germogli, foglie tenere, e bai dappertutto, in aria in terra sulle foglie. Mi vede questo bao? Vede un bao grando; è tutto fatto a bai il mondo, bai-bimbissóli, bai-lumèghe, bai-sórze, bai-càn, bai-òmini, bai-angeli che zòla come questo bao. Zòla via bao!

Nel zufolo delle api filandiere c’era il bandolo di una cosa che dardeggiava dentro e fuori dal tempo; mi sentivo uscire dal nostro man-locked

set, lo spazio infinito e il tempo infinito erano gocciole di suono a

mezz’altezza, press’a poco alte come la mura dell’orto, che fioccavano in aria senza cadere.

Si sapeva che erano solo ave. Ava: una giuggiola che si muove, una strega striata, minuscola; un bao che non è un bao, un segreto che non si può penetrare perché non parla, una goccia gialla che punge.

Ava aveta, do lo ghètu ‘l basavéjo? Ava: sa te me bèchi te lo incatéjo.

Non giocare con la Ava. Viene dalla zona dei nuomeni, non è un bao Ava215

Nella prima parte del brano citato la sintassi riproduce l’elenco delle cose viste con gli occhi del bambino; il presente narrativo ci proietta nel passato del fanciullo, nella sua immedesimazione nel punto di vista del bao e nel tentativo di parlarci: «Zòla via bao!». La centralità è assegnata alla parola dialettale, al suo ritmo e all’atmosfera lirica che prosegue per tutto il brano, anche quando il narratore adulto tenta di oggettivare e spiegare – collocandole nel tempo passato – le percezioni del bambino. Infine la filastrocca appare quasi come un incantesimo che incanta, però, anche chi lo pronuncia. In sintesi la prospettiva infantile immette nel testo una logica di tipo associativo che inibisce le razionalizzazioni dell’adulto, sposta lo sguardo sul reale al di fuori delle precomprensioni linguistiche e dei consueti schemi mentali dettati dalle stratificazioni culturali; sembra questo il significato di man-locked set citato dalla poesia Angel Surrounded by Paysans di Wallace Stevens. In questo modo la logica del bambino restaura un nesso parola-cosa sconosciuto alle convenzioni e

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concettualizzazioni linguistiche, ma che pure trova in una lingua, il dialetto, la sua incarnazione: logica infantile e parola-cosa trascinano con sé il mondo passato facendolo apparire nel tempo presente. Per capire in pieno il brano, tuttavia, è necessario ricollocarlo all’interno della struttura in cui l’autore l’ha inserito. L’estratto citato è isolato tra due spazi bianchi (uno prima e uno dopo il testo), il frammento testuale che precede e quello che segue il testo ci aiutano a interpretarlo. Precede il momento lirico un brano che prende avvio dal mottetto XIV di Montale:

La tempesta (italice grandine) è di quelle cose che appartengono per sempre a Montale. Infuria sale o grandine? Fa strage – di campanule, svelle

la cedrina. – Un rintocco subacqueo s’avvicina… È tutto perfetto, ma è troppo

bello per il nostro paese.

Era sale secco, e solfo. Si sentiva il carattere litigioso di Dio, i suoi fotóni ciechi, e la strapotenza dei grandi carri che faceva disporre tutt’intorno all’orlo sopra il paese, e ordinava di rovesciarli all’ingiù alzando le stanghe. Le carrettate di sale si sventagliavano in aria, picchiavano di striscio sui tetti e sui cortili. Si vedevano le sbadilate supplementari che ci colpivano a spruzzo passando come ventate; si distinguevano benissimo le sfere più grosse, gli uovi trasparenti tirati a mano fra una carrettata e l’altra, che rimbalzavano come oggetti d’acciaio. Tiravano a noi, ma senza mirare. I mucchi giallastri, avvelenati, fumavano sotto ai muri.

Non vedevamo morire i fiori, ma mutilare le viti e stracciare i sorghi. L’aria nera, specchiante, che precede la tempesta, il mondo magico intagliato nel quarzo si sporcava: c’erano cortine d’un pulviscolo color lisciva, rigurgiti di solfo; non c’era rintocco subacqueo, ma un crepitio maligno di superfici sfregate, di scocchi contraddittori. Non c’era vera luce nella cosa, nulla che brillasse, c’era un bagliore prigioniero, una gazzarra di raggi opachi che si polverizzavano scontrandosi. Tutto s’incrociava, si contraddiceva, si annullava.

Ci si sentiva in trappola, coi diavoli sotto che venivano a guardare alle feritoie improvvisamente abbuiate, e noi guardavamo per le inferriate delle case, ora verso il cortile, ora verso le raffiche che ci chiudevano dalla parte di Schio.

Poi finiva il casino, veniva un silenzio assordante, schiariva, e il sole tornando a trovarci entrava nei mucchi di tempesta, rivelava il cuore verde dei grani216

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Precede questo brano un frammento in cui il narratore racconta della prima poesia che aveva composto da bambino: «Ultima sera d’agosto / sotto le brache c’è un mostro», la commenta e ne analizza il rapporto con la realtà, dicendo di ricordare «l’emozione e il senso di fulfiltment che si provava la sera dal 31 agosto, quando le parole corrispondevano esattamente alle cose, come se l’anno fosse venuto all’appuntamento, e i grilli sembravano impazziti»217. Capiamo che l’estratto che prende l’avvio dalla poesia di Montale procede in continuità con il frammento precedente, l’argomento è ancora il confronto tra poesia e realtà. Nell’estratto si afferma che nessuno ha descritto bene la

tempesta come Montale, ma che in paese il fenomeno atmosferico si svolgeva in modo meno bello e

perfetto. Ogni verso di Montale viene verificato alla luce del reale, quasi a valutarne la distanza: quattro volte viene descritta la realtà con un modulo di negazione della raffigurazione poetica montaliana. Due volte si ripete la formula esplicita non… ma: «Non vedevamo morire i fiori, ma mutilare»; «non c’era rintocco subacqueo, ma». E due volte agisce un modo di negazione implicito: la prima in apertura, alla dichiarazione «È tutto perfetto, ma è troppo bello per il nostro paese», segue «Era sale secco, e solfo»; e la seconda negazione implicita: «Non c’era vera luce nella cosa […] c’era un bagliore prigioniero», quasi in risposta all’interrogativa del primo verso di Montale: «Infuria sale

o grandine?».

A ben guardare il confronto tra poesia e realtà non sfocia in una derisione del poeta, anzi quello che sembra una esame della poesia alla luce del temporale paesano, diviene una via per guardare la realtà. È come se l’autore tornasse con la memoria al suo paese e ripercorresse l’evento atmosferico filtrandolo attraverso un codice culturale, infatti ripercorre la fenomenologia della grandine usando la poesia: la forza con cui cade la grandine è descritta in termini paesani, a provocarla è (come nell’incipit di LN) il «solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini»218; le campanule e la cedrina montaliani divengono viti e sorghi; il mottetto evoca luce e suoni, così anche la prosa di Meneghello; il richiamo infernale di Montale compare tradotto dal contesto maladense. È la memoria poetica a infondere vigore ai ricordi dell’infanzia, se il confronto procede per antitesi è perché Meneghello è legato ai modi oppositivi, una forma di polarità a cui l’autore affida un ruolo particolare: «come se per poter pensare, o perfino sentire, occorresse lasciar fluire la corrente tra i due poli»219. Afferma Giancotti che secondo:

Meneghello la scrittura riesce a toccare il nucleo più vero della realtà quando si fonda su iterazioni, interplays, differenziali che possano produrre un passaggio di corrente da un polo all’altro dell’immaginario e dell’esperienza

217 LN, p. 39.

218 LN, p. 5.

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[…] e tenta di raggiungere […] una scrittura non univoca ma bipolare, in bilico/equilibrio tra due opposti versanti dell’esperienza. Insomma, è necessario che la scrittura sia dinamica, che produca movimento nella mente di chi scrive e di chi legge, perché un certo frammento di esperienza vissuta possa essere sottratto al flusso divoratore del divenire e collocato sotto una luce nitida, eterna220

Tornando all’estratto, nonostante una narrazione al passato e il punto di vista adulto, è interessante notare che nella parte conclusiva vi è un crescendo di emotività (Ci si sentiva in trappola;

veniva un silenzio assordante) che sembra rilanciare alla lassa narrativa seguente: l’arrivo del sole

dopo il temporale rivela «il cuore verde dei grani», il frammento termina e in quello successivo emerge un punto di vista centrato sul rapporto fusionale del bambino con la natura. Inizia, dunque, un tentativo di nominare la realtà, di evocarla, di giungere al suo nucleo attraverso un nesso parola-cosa dialettale e la prospettiva bambina; ma tale tentativo segue quello speculare avvenuto attraverso il filtro della parola-poetica. Eppure, il senso del momento lirico che sopraggiunge alla descrizione del temporale e i modi di rapportarvisi del suo autore si comprendono meglio leggendo ciò che segue e che conclude il capitolo:

Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose.

Ma questo nòcciolo di materia primordiale (sia nei nomi che in ogni altra parola) contiene forze incontrollabili proprio perché esiste una sfera pre-logica dove le associazioni sono libere e fondamentalmente folli. Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia.

Sento quasi un dolore fisico a toccare qui nervi profondi a cui conduce basavejò e barbastrìjo, ava e anguàna, ma anche solo rùa e pùa. Da tutto sprizza come un lampo-sgiantìzio, si sente il nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito.

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Non dico che questo è dialetto, ma che nel dialetto c’è questo. So bene che non solo nel dialetto c’è questo, anzi ancor più in quell’altro dialetto degli occhi e degli altri organi del senso, quando il caso o certe disposizioni emotive determinano uno sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose.

Io mi proverò a parlare della cosa ineffabile, quella che ho sentito qualche anno fa a Stringo in Valsugana dove mio fratello Gaetano faceva l’artigliere alpino, con mio cugino Roberto capopezzo nella sua batteria. Andammo su io il papà e Katia. Gaetano ci portò a vedere la caserma, le mense, i cortili quasi deserti perché mi pare che fosse festa; poi al parco della sua batteria. I quattro pezzi erano allineati al margine della piccola spianata, modesti quasi come oggetti in disuso.

Sentivo affacciarsi la cosa ineffabile, e mentre Gaetano m’indicava il pezzo di Roberto, mi prese il panico. Io non so che cos’era, ma sembrava pena e paura. Erano oggetti muti, raggelati; sentivo che è per sua natura insopportabile a una creatura che parla che ci siano cose, materia; mi pareva di

vedere che cos’è nel suo ultimo fondo impietrato la nostra vita. Distolsi il viso

serrando gli occhi e i denti. Basta, Basta!

La prima parte del passo citato ha conosciuto un’eccezionale fortuna critica. Per Zampese:

il legame parole-cose si definisce attraverso la potenza dell’imprinting originario del dialetto, così strettamente ancorato alla personalità di un luogo e della gente che vi abita, e al tempo stesso per la vitalità della mente infantile così libero e ricco nel generare associazioni prelogiche221

Altrettanto nitido è il commento si Segre:

Si può tradurre in questo senso: che l’impressione infantile fonde parola e cose a prescindere dal contratto sociale che permette al linguaggio adulto di distinguere significante e significato. Nella percezione infantile non solo significante e significato sono inseparabili, ma inseparabili anche dalle connotazioni implicate nel momento della prima appercezione. In più, le parole si collegano in un sintassi prelogica, fatta di associazioni libere e, in qualche misura, folli, perché non controllate dalla ragione. Su questa concezione si fondano tutte le notizie su parole (e frasi) dialettali nei romanzi di Meneghello: mai parole lessicalizzate, ma sempre nessi suono-cosa sensazione222

221 L. Zampese, La forma dei pensieri, cit., p. 85.

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Non sembra necessario aggiungere altro all’esegesi del passo meneghelliano223. In sintesi la percezione infantile recupera sia le cose del passato sia la connotazione con cui erano state percepite («le forme prime» della percezione sensoriale). Il brano lirico che incomincia con «Maggio in orto» e termina con «Viene dalla zona dei nuomeni, non è un bao. Ava» assume, dunque, tre funzioni; tutte illuminate dal frammento che conclude il capitolo. Innanzitutto, la visione infantile e la sua logica permettono un recupero del passato, aspirazione tematizzata più volte nel capitolo. Nel frammento di apertura la scoperta della legge che regola la progressione temporale e della non reversibilità del tempo scatena la rabbia del personaggio bambino:

La Ernestina e io in granaio facevamo la rivista dei giocattoli rotti; c’era un bel tramonto, e mi sentivo felice.

«Mi sono molto goduto oggi» dissi alla Ernestina. Lei si felicitò con me per la bella giornata.

«Questo giorno qui lo voglio di nuovo domani» dissi. La Ernestina disse sorridendo che anche domani sarebbe stato un bel giorno. M’insospettii e dissi freddamente:

«Io voglio che torni questo giorno qui.»

«Questo giorno qui ormai è passato» disse la Ernestina, «domani ne viene un altro.»

Mi rivoltai come un forsennato, intravedevo che c’era di mezzo una specie di regola intollerabile, la Ernestina non ne aveva colpa ma la graffiavo urlando: «Voglio che torni questo giorno qui! Questo giorno qui! Voglio che torni!». Niente da fare224

Mentre nel brano in cui il narratore cita la propria poesia infantile, dopo aver espresso il senso di emozione che si sperimentava la sera del 31 agosto per la corrispondenza tra parole e cose, il testo fa un salto nel passato che diviene il presente della narrazione, così la prospettiva autoriale lascia spazio a quella del personaggio bambino: «Tra poche ore è settembre: questo momento non tornerà più per un anno, e non si può fermare»225.

La logica fanciulla è associativa e non distingue pienamente tra passato e presente, e non accetta lo scorrere del tempo: la lingua del bambino ci proietta nel passato, o, cambiando punto di vista, possiamo dire che recupera il passato fondendolo con il presente. La sua funzione, tuttavia, non è tanto quella di cedere all’emotività del ricordo, ma di trascinare con sé i modi con cui erano

223 Un unico appunto: non si condivide l’idea che i procedimenti associativi del bambino siano da considerarsi folli e prelogici, piuttosto figli di una logica diversa, simmetrica, ma internamente altrettanto coerente di quella adulta. Si riconosce, tuttavia, che la scelta del termine prelogico sia dello stesso Meneghello.

224 LN, p. 36.

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connotate le percezioni di allora; ovvero la forma con cui si era esperita la realtà. Arriviamo così a capire la seconda funzione del momento lirico. La rievocazione mnemonica del passato attraverso la prospettiva bambina permette di toccare «le croste» delle parole dialettali a cui si lega la potenza dei sensi e delle loro percezioni («quell’altro dialetto degli occhi e degli altri organi si senso»), da queste si sprigiona come «un lampo-sgiantìzio» che porta a galla un «fondo impietrito» dove si trova il «nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita». Il momento lirico – in cui dominano la logica associativa del bambino e la forza della parola-cosa dialettale – non è un punto di arrivo o di abbandono al tempo mitico e magico del mondo perduto; piuttosto il frammento rappresenta uno strumento conoscitivo in quanto modo di mettere in forma letteraria le forme prime delle percezioni sensitive. La terza funzione del frammento è quella di esemplificazione particolare di una riflessione più generale che, però, è contemporaneamente la materia stessa da cui sorge tale riflessione. Ciò è dimostrato proprio dal rapporto tra i generi.

All’interno del capitolo una prospettiva personale dà vita a una serie di racconti incentrati su esperienze e percezioni dell’infanzia, siamo nel terreno dell’autobiografia che segna il punto di partenza della narrazione di Meneghello; il suo culmine si raggiunge nel brano lirico in quanto momento di affondo massimo nella psiche e nell’emotività dell’io. Da questo abisso, tuttavia, il narratore riemerge razionalizzando la propria esperienza con un registro riflessivo e argomentativo. Siamo nell’ultimo frammento del capitolo, quello che inizia con: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo» e termina con: «Distolsi il viso serrando gli occhi e i denti. Basta, basta!». Lo stile di questo brano è saggistico, la sua posizione conclusiva all’interno del capitolo a seguire il maggior momento di abbandono lirico in cui più forte è l’incanto dei suoni, della parola-cosa dialettale e dell’adesione al mondo magico, evidenzia gli intenti razionalizzanti di Meneghello, che come afferma Plarolan: «ce li spiega resistendo al tentativo di cedere a questa purezza, al brivido che questi segni ci danno, il brivido di una vicinanza non mediata o, se volete, segretamente mediata». Ciò è dato dalla vocazione saggistica della scrittura meneghelliana, dal suo interesse per il presente; in Discorso in

controluce l’autore afferma di aver smesso progressivamente di «corteggiare senza vera fortuna la

filosofia» per scrivere su alcune cose che lo interessavano: «la cultura e la vita paesana, la guerra civile, i traumi dell’educazione di un italiano, la strana stagione del dopoguerra». Prosegue dichiarando apertamente il suo interesse per il presente e la sua convinzione che «il modo migliore di provare a gettare un po’ di luce su come viviamo e sentiamo oggi, resti quello di dire bene, col vigore necessario, ciò che h[a] da dire su quel mondo in apparenza lontano»226. Il presente è «un groviglio inestricabile di passato e futuro, di memoria e intenzionalità», il saggio «non può concedersi l’alibi della disperazione e non può illudersi di tornare allo stadio originario della creatura. Al contrario è

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tenuto a rispondere alle sollecitazioni del proprio tempo, muovendosi in uno spettro di relazioni fruttuose col passato e col futuro»227.

Si può obiettare che gli ultimi due paragrafi del capitolo si allontanano nuovamente da uno stile riflessivo-meditativo, si tratta infatti della narrazione di un episodio personale in cui si allude all’emergere «della cosa ineffabile» di cui il narratore vuole parlarci. Ciò appartiene allo stile di Meneghello: ragionare, riflettere fermandosi sempre un attimo prima di diventare retorici, didattici e prediligendo uno stile ellittico, marcato per difficoltà. Inoltre, va ricordato che il carattere elusivo, figurale, narrativo e autobiografico di questa conclusione non è in contrasto con i modi che il saggio può assumere; oltreché con la scelta autoriale di ricercare ed esprimere la verità con un medium diverso da quello del concetto.

Aprendo questo capitolo sulla lingua dell’autore, si è affermato che il rapporto tra i generi avrebbe illuminato la funzione che Meneghello attribuisce alla lingua e che, nello stesso momento, la lingua impiegata avrebbe potuto contribuire a comprendere gli intenti espressivi celati nell’ibridazione dei generi. Quanto Meneghello afferma per i generi letterari: «Autobiografico è invariabilmente per me il punto di partenza, ma il punto di arrivo non è autobiografico», è valido anche per la lingua: l’aspetto linguistico è la sorgente, non il termine della scrittura meneghelliana. Nelle opere di Meneghello i generi si mescolano tra loro, ma lo scopo a cui l’autore tende è determinato da una vocazione propriamente saggistica: