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Capitolo 3: frammento e totalità

4. Alterità

4.1 Interno-esterno

Proseguendo con la disamina delle forme di interazione, si rinviene una perenne dialettica tra dimensione esterna e interna, tra dentro e fuori, della compresenza tra partecipazione e distacco: la sua sede è nel racconto dei fatti del passato (partecipazione), compiuto dalla prospettiva di un narratore emigrato (distacco). Tale relazione si realizza innanzitutto a livello macro-strutturale: il narratore è altrove, ha imparato un’altra lingua e si è confrontato con un altro sistema culturale, può dunque far interagire questa alterità con il mondo narrato, quello a cui appartiene per origine. Si tratta di una scelta narrativa variamente adottata da Meneghello in tutte le sue opere:

Volendone fare una storia, sarebbero due storie incrociate: come da un lato l’esperienza inglese (EN) ha stravolta la mia percezione dell’Italia (IT), e d’altro lato come IT ha stravolto EN.

Ho vissuto con l’idea che tutto ciò che avveniva lassù era anche (per me) roba di qui. Mi accorgo che il punto di vista continua a oscillare. L’Inghilterra è insieme “lassù” e “quassù”, e altrettanto l’Italia. Qui, là: corrente alternata398

Si osservi il ripresentarsi del campo metaforico della corrente che circola tra i due poli. Un esempio evidente del rifrangersi della dialettica interno-esterno sulla struttura dell’opera è dato già dall’incipit di LN: il testo prende avvio da un effettivo ritorno del narratore a Malo.

Per certi versi constatare questa polarità all’interno del rapporto tra presente del narratore e fatti narrati è scontato, anche perché esplicitamente tematizzata dai testi:

L’idea del “rinnovamento” dell’Italia acquistava un’intensità poco meno che religiosa: nuovo significava anche vivo e ricco e non so che cos’altro, l’eccitazione della vita intellettuale, il vigore dell’industria moderna, e la giustizia e la prosperità, e mettiamoci anche lo splendore dell’arte. “Moderno” era un termine elettrizzante. Solo in Inghilterra, alcuni anni più tardi, sentii affievolirsi questo effetto e a un certo punto capovolgersi, tanto che alla fine “moderno” per me venne piuttosto a segnalare certi aspetti centrali del brutto, la volgarità, il vuoto pretenzioso399

398 DS, p. 27.

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Dall’estratto è evidente che il narratore adulto, alla luce del tempo trascorso e con il supporto della cultura inglese, può mettere in discussione le posizioni della propria generazione.

Meno ovvio però è che questa bipolarità interno-esterno si incarni nel testo con l’immissione di personaggi che sono portatori di un punto di vista esterno permettendo di illuminare l’identità, i valori e gli atteggiamenti paesani. Abbiamo già citato il caso di Katia che corregge il giudizio paesano su la Bella Italia [cfr., Cap. 3, par. 2.2] Nell’estratto seguente un personaggio straniero non capisce un’affermazione, la sua richiesta di spiegazioni permette di esplicitare l’ovvietà quotidiana, che proprio per la sua evidenza viene solitamente taciuta:

La prima volta che la Clara disse nel suo stile laconico che suo marito era di nuovo “andato via” da casa (era alcolizzato e ogni tanto scompariva per lunghi periodi) la Olga che è straniera la fraintese e domandava premurosa, Andato via… ma quando torna? e io udii la risposta più lunga del solito:

«Quando ch’el vien casa?... A mi vorla ch’el me disa chele robe lì? Mi el vole ca cusina… Mi nol me parla mia… Mi el me bate…»

La sua funzione di moglie non era conversare, ma cusinare - e prenderle. E il bloody prete le consigliava sopportazione cristiana, che per carità non le venisse il capriccio di inferire un altro colpo alla santità del bloody matrimonio. Non vedevano che stava morendo, letteralmente, di strazio. Aveva qualche anno meno di me, pareva mia nonna - provavo a farla ridere, una piccola parte della sua bocca si contraeva, come per una puntura, avveniva una piccola lussazione nel viso con gli occhi di pietra.

Aveva una bambina che le tenevano le suore e che amava nello stesso modo stoico e disperato con cui lavorava e viveva; andava ad aspettarla all’uscita per la passeggiata, aspettava in disparte, si stringeva nel paltoncino, aveva paura che la bambina si vergognasse400

Se è l’incomprensione linguistica di Olga la base da cui parte la spiegazione di Clara, tuttavia è la stessa estraneità del narratore all’orizzonte ideologico raffigurato a permettere la critica, sia della cultura ecclesiastica di tutela del sacramento matrimoniale, sia delle violenza di genere. Qui non c’è identificazione con un soggetto plurale, piuttosto un distanziamento: «non vedevano che stava morendo», può indicare il prete e il marito, oppure l’intero paese. L’ironia critica «per carità non le venisse il capriccio di inferire un altro colpo alla santità del bloody matrimonio» è velata di risentimento, dovuto alla partecipazione emotiva con il destino della donna: è uno dei momenti, relativamente pochi, in cui il consueto distanziamento ironico viene sospeso in favore di un giudizio

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morale. O meglio, si attua qui una di quelle interazioni di cui parla Meneghello, quella tra serietà e ironia. Il lettore di Meneghello si aspetterebbe che alle parole di Clara seguisse un tono leggero e divertito, invece qui il testo procede con un andamento serio, l’inaspettato giudizio morale è accettato dal lettore e risalta nelle sua forza proprio per l’essere immesso, o meglio, quasi infiltrato all’interno di un tessuto testuale segnato dal riso.

Un altro caso interessante di scontro tra domestico e straniero compare già nelle prime pagine di BS. La lassa narrativa è suddivisa in tre sezioni, che corrispondono a tre momenti narrativi: il passato in cui un povero fa vista al narratore; un passato molto più recente in cui compare un turista inglese amico del narratore; e un momento finale di confronto in cui si fanno interagire le due polarità.

[1] Un giorno a mezzogiorno arrivò il pitocco. Era seduta a tavola la famiglia, qualcuno dal sottoportico si affacciò a dire che c’era un amico mio che non voleva entrare, io uscii col tovagliolo in mano e al solo vederlo pensai: per fortuna! Il mio amico andò a sedersi in cortile sullo scalino della lissiara, al sole: i miei gentilmente insistettero per mandargli un piatto di minestra, entrai io stesso a prenderla e la portai fuori e stessi lì a fargli compagnia: mangiava con garbo seduto sullo scalino, non mi diceva nulla, mi sorrideva, sentivo un odore dolce e penetrante, di pidocchi, di sudore… Tenerlo qui; dedicargli il resto della mia vita…

[2] Spostando un momento il conta-fili: anni dopo arrivò un po’ così anche Bill, neozelandese, specialista dei libelli politici inglesi del Seicento, spettinato, discinto, con un enorme zaino… Ora tutto in paese era pace, spasso, Liliana, giostra in Prà… Lo portammo alle Due spade, un alloggio modesto, ma lui non voleva, voleva dormire nel suo sacco, in un angolo del cortile. Inutile dirgli che lì da noi non si usava, una volta avevamo Giacomo Golo, ma era una accattone di mestiere, un professionista… non capirebbero … Bill aveva non mi ricordo se 8000 lire per tutto il viaggio, o forse 80 mila, dalla valle del Tamigi alla Nuova Zelanda… Cercavo di spiegare ai miei: non fanno così per bisogno, ma per sport, si chiama trekking… Ripetevo a mio padre: «Te lo assicuro, è un professore della mia università» (in realtà era un semplice

lecturer, anzi un assistant lecturer, ma mi era parso meglio promuoverlo). «Un

professore?» Mio padre non riusciva a credere che lassù i professori dormissero per terra nei cortili…Mio zio Checco, vedendolo, era ammutolito: a suo tempo viaggiava anche lui un po’ rough, ma con decoro, la bombetta e i calzoni lunghi, questo era in mutande…

Lo avevo affidato un momento alla Liliana, alla sera lo ritrovai alle giostre in Prà, girava nei calci-in-culo con entusiasmo, li alternava con le barche, voleva pagarsi lui i giri, erano quelle le sue vere spese di viaggio. Gli lasciammo pagare solo un giro, la Liliana pareva che si divertisse, le altre

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ragazze ridevano contente: gli anglosassoni sono eccentrici, “neozelandese” suonava bene, tutti ridevano…

[3] Come torna struggente il pensiero del pitocco! Era in realtà un idiota: ma siccome non diceva quasi nulla e sorrideva, non era necessario prenderne atto. Lo avevo conosciuto a Lavarone, nel Sanatorio dei Partigiani, la nostra Davos. Nel mio entusiasmo di amore universale avevo voluto farmene un amico, trattarlo assolutamente da pari a pari: questo non si può, quando venne al paese a trovarmi improvvisamente percepii il vero, roba da matti, Dostoevskij… Certo non era per me, non dava senso, era un sacrilegio…

Il pitocco, finita la minestra, mi guardava come un animale innamorato del padrone401

L’arrivo di Bill con la sua diversità crea delle allegre incomprensioni in paese e in particolare per la famiglia Meneghello. Il confronto tra alterità passa soprattutto attraverso il dialogismo: l’uso della terminologia inglese per spiegare i costumi di Bill alla famiglia; gli indiretti liberi che rivelano un dialogo tra le parti («… non capirebbero…», sembra dire il narratore a Bill); a sua volta i pensieri dello zio Checco che pure ha viaggiato un po’ rough entrano nel discorso del narratore («questo era in mutande»); e allo stesso modo le impressioni divertite delle ragazze («gli anglosassoni sono eccentrici»). Il confronto tra interno ed esterno passa per alcune marche testuali: «lì da noi»; «lassù». Il sottofondo rivela l’attenzione ai cambiamenti del paese: «Ora tutto in paese era pace, spasso»; «una volta avevamo Giacomo Golo».

L’episodio di Bill e le funzioni del testo si comprendono meglio se collocate all’interno dei due capoversi in cui si racconta del pitocco. Fondamentale in questo caso è l’oscillazione dei tempi del racconto, avvertibile già dagli incipit di capoverso: «Un giorno a mezzogiorno arrivò il pitocco»; «Spostando un momento il conta-fili: anni dopo arrivò»; «Come torna struggente il pensiero del pitocco!». Si capisce che l’immissione nel testo di un opposto, di una diversità collocata all’interno di un andirivieni temporale, ha lo scopo di produrre un contrasto tra situazioni che le riverberi entrambe di nuova luce. Il pitocco è qui il rappresentante del mondo povero, inoltre egli offre l’occasione di rappresentare, per ellissi, le aspirazioni politiche (definite ironicamente «entusiasmo di amore universale») del narratore, e con lui dell’Italia post-resistenziale.

L’estratto si colloca nel primo capitolo di BS, in cui si alternano frammenti che raffigurano vari momenti della stagione del dopoguerra, tutti immersi nella confusione: tale era lo stato con cui si vivevano le cose al tempo, tale è la difficoltà di comprendere quel periodo. A posteriori i vari lacerti del dopoguerra compongono una costellazione che ha lo scopo di raffigurare l’atmosfera generale del

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tempo e i tentativi cognitivi del narratore; tutto espressa per ellissi e figuralità. Ciò è importante rispetto all’estratto in cui compaiono Bill e il pitocco perché ci permette di capire come funzioni l’interazione in Meneghello: un passato di povertà e di aspirazioni politiche messo al confronto a un periodo posteriore connotato per leggerezza. Il narratore, dal suo presente, mette in frizione il povero «idiota» con l’eccentrico viaggiatore, permettendo così di indagare la dialettica della modernità. Tutto ciò ci riporta a un altro tipo di iterazione, spesso sottesa, a tutte le frizioni meneghelliane: quella tra passato e presente. Prima però si osserverà l’uso dell’alterità animale.

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