• Non ci sono risultati.

GESTIONE E SVILUPPO DELLE RISORSE UMANE PER COSTRUIRE IL SUCCESSO DELL’IMPRESA

Simulazione delle competenze in Italia con strutture industriali e forma tive alternative

7. GESTIONE E SVILUPPO DELLE RISORSE UMANE PER COSTRUIRE IL SUCCESSO DELL’IMPRESA

Riccardo Leoni

Le modalità di gestione e sviluppo delle risorse umane sono importanti per la produttività del lavoro e quindi per la performance delle imprese. In particolare esiste un rapporto di stretta «complementarità» tra le competenze delle risorse umane, i modelli organizzativi in cui operano e le tecnologie che le imprese utilizzano. Ne consegue che sarebbe sbagliato isolare la questione della produttività del lavoro non tenendo conto di questa complemen- tarità. Essa permette di identificare formule organizzative coerenti tra i vari fattori produttivi in gioco e di pervenire a un risultato secondo cui, aumentando l’impiego di un fattore pro- duttivo, aumentano i benefici dell’applicazione (a livelli maggiori) di altri fattori comple- mentari. Ad esempio, aumentare solo gli investimenti in nuove tecnologie può dar luogo a scarsi effetti sulla produttività dell’impresa; se invece questi investimenti sono accompa- gnati da cambiamenti complementari sia nella struttura organizzativa sia nei sistemi di ge- stione delle risorse umane, allora si possono realizzare aumenti significativi di produttività. Si parla di «possibilità» in quanto non c’è solo una questione di complementarità tra le va- riabili in gioco, ma anche di «dosaggio» delle variabili stesse (il “troppo tanto” ma anche il troppo poco possono essere inefficienti), il che conferisce una forte valenza “chimica” allo studio della performance dell’impresa.

L’analisi prende in considerazione dapprima i disegni organizzativi, rispetto a due configu- razioni: quella tradizionale, basata sulle funzioni e sui posti di lavoro, e quella della World- Class Management (WCM), imperniata sui processi e sui ruoli lavorativi. Si considera poi la natura delle nuove tecnologie e le sue «esigenze» nei confronti dei disegni organizzativi e delle competenze dei lavoratori. L’analisi principale si sofferma sulle diverse modalità di gestione delle risorse umane, nella prospettiva della costruzione di una flessibilità interna dell’impresa attraverso la polivalenza e la policompetenza. Le variabili trattate sono quelle della remunerazione (del job o del ruolo), degli incentivi (performance o apprendimento di nuove competenze), della formazione e della selezione, e infine della flessibilità degli orari di lavoro. Il saggio si conclude con uno sguardo alla diffusione delle moderne e performanti caratteristiche nelle organizzazioni produttive italiane rispetto a quelle dei maggiori com- petitor, e con alcune indicazioni di politica economica.

Riccardo Leoni, Università degli Studi di Bergamo.

Si desidera ringraziare Luca Paolazzi, Mauro Sylos Labini e Fabrizio Traù per aver letto e commentato precedenti versioni del presente saggio, senza che ciò implichi un coinvolgimento in qualche responsabilità per quanto qui scritto.

7.1 INTRODUZIONE

Non è possibile affrontare il tema della gestione e sviluppo delle risorse umane e della loro performance (la c.d. produttività del lavoro) senza considerare anche il contesto organiz- zativo e tecnologico in cui esse sono inserite e operano.

Tanto per incominciare, le informazioni statistiche disponibili indicano che tra imprese ap- parentemente simili e in grado di stare sul mercato esiste in realtà una forte e persistente ete- rogeneità, misurata in termini sia di produttività sia di redditività. Sulla base dei dati dell’ISTAT attinenti a settori definiti in modo molto ristretto (e quindi con una buona omo- geneità merceologica dei prodotti fabbricati), la produttività nelle imprese manifatturiere con oltre 20 addetti mostra una dispersione molto ampia: il 10% delle imprese migliori ha una produttività che è di circa due volte e mezzo quella del 10% delle imprese peggiori (Dosi et al., 2012); il che vuol dire che, a parità di dimensione, le imprese più efficienti rie- scono a produrre due volte e mezzo quelle meno efficienti. Tale misura, per la verità, non

è molto diversa da quella che si registra nell’industria manifatturiera americana1, nella quale

ci si aspetterebbe – sulla base di quanto viene comunemente insegnato – un minor grado di disomogeneità. La diversità sta nel fatto che non solo i valori della media e della mediana della nostra distribuzione sono marcatamente più bassi ma soprattutto che la forma della di- stribuzione italiana presenta un addensamento (skewness) segnatamente a sinistra, con una lunga coda di valori a destra, mentre la distribuzione americana mostra un addensamento più spostato a destra. In ogni caso sembra non esservi dubbio che le imprese più produttive abbiano una probabilità maggiore di sopravvivere rispetto a quelle con produttività più bassa: nel caso americano le stime indicano che quelle che si collocano al di sotto del 20° percentile nella distribuzione della produttività fuoriescono dal mercato nel giro di cinque anni; per l’Italia non abbiamo informazioni così puntuali, ma non sembrano esserci motivi per ritenere che siano molto diverse.

La spiegazione dell’eterogeneità delle imprese viene spesso ricercata sui confini verticali e orizzontali delle imprese, sulle strategie di mercato e di differenziazione dei prodotti, sulla geometria delle relazioni a rete e sulla lentezza dei mercati nel selezionare le imprese più

efficienti, oppure sui livelli del capitale umano impiegato2, nella convinzione di trovare in

questi aspetti la chiave di volta delle divergenti performance3, mentre raramente ci si pre-

occupa di studiare l’organizzazione «interna» dell’impresa, la gestione delle sue risorse umane e l’impatto di queste due variabili sulla performance. Perciò è importante concen- trarci sul contributo che può fornire la gestione delle risorse umane alla performance d’im- presa: effettuando uno scavo per comprendere se esistano semplicemente problemi di ottimizzazione nell’uso delle risorse esistenti in un’organizzazione tradizionalmente orien-

7. GES

TIO

NE E S

V

IL

UPPO DELLE RISORSE U

M

AN

E PER C

O

ST

RUIRE IL SUC

CESSO DELL’IMPRES

A

1. Il rapporto in media è di 2 a 1; si veda Syverson (2004).

2. Fox e Smeets (2011) portano a termine una stima su dati danesi da cui emerge però che, tenendo conto della qualità del capitale

umano (misurato dal livello di istruzione, dal genere, dall’esperienza accumulata nel mercato del lavoro e dall’anzianità d’industria), la misura della dispersione si riduce di poco, da un minimo dell’11% a un massimo del 18%, a seconda delle condizioni imposte nelle simulazioni.

tata al controllo e al comando gerarchico, o piuttosto se sia necessaria una vera e propria progettazione – attraverso nuove routine, comportamenti organizzativi, incentivi monetari

e non monetari – della costruzione di capabilities interne4e di sentieri di sviluppo delle ri-

sorse umane quali strumenti per affrontare un contesto economico impregnato sempre più

di incertezze, di continue innovazioni e di imprevedibili mutamenti5.

La risposta a cui si perverrà, e che possiamo già qui anticipare, va decisamente nella seconda direzione; ne vedremo comunque nel corso dell’analisi le argomentazioni a sostegno e, in sede di conclusione, le implicazioni di policy.

In via del tutto preliminare si potrebbe argomentare che l’introduzione dell’euro e l’affac- ciarsi delle imprese sui mercati internazionali avrebbero dovuto generare una spinta verso un’accentuata ristrutturazione delle imprese stesse. Questo sembra essere effettivamente av- venuto negli anni precedenti all’attuale crisi, ma occorre osservare che la riorganizzazione in questione ha riguardato essenzialmente, da un lato, la costruzione di reti e l’esternaliz- zazione di fasi produttive e, dall’altro, la parte finale della catena del valore, come la ri- cerca di nuovi mercati e la creazione di marchi, nonché l’ammodernamento delle tecniche

di marketing, della logistica e delle reti di vendita6, e non il fatto produttivo in sé. Que-

st’ultimo aspetto ha a che fare con caratteristiche interne specifiche che, incidentalmente, risultano essere molto inerziali nel tempo, quali ad esempio la divisione dei compiti e delle responsabilità, oppure la conoscenza necessaria per l’attività di problem-solving, cui con- seguono differenti e specifiche abilità nel fare le cose, nel produrre la qualità, nel generare nuove soluzioni, in altre parole nel determinare la produttività. Le imprese più dinamiche e produttive (che sono poi quelle che si collocano sulla destra della distribuzione sopra ri- chiamata) si curano non solo dell’apprendimento ma anche del trasferimento di capabilities tra i lavoratori, e in una forma tale per cui rimangano contenute nell’organizzazione, di-

ventino cioè un fatto organizzativo che non si disperda con la fuoruscita dei talenti7. Occorre

ricordare che le capabilities non sono solo il riflesso degli apprendimenti individuali e col- lettivi, ma anche di strumenti, tecnologie e assetti organizzativi generati da una serie di spe- cifiche scelte che hanno determinato e ri-determinano, quotidianamente, la decisione di produrre in un certo modo una serie di prodotti e servizi.

Porre la questione della performance in rapporto alle risorse umane e alle pratiche da que- ste attuate rischia di focalizzare l’attenzione solo sui lavoratori quale ‘leva’ che i manager o l’imprenditore hanno potenzialmente a disposizione per influenzare la produttività, rele- gando nell’ombra la questione della qualità del top e middle management. È verosimile che

7. GES

TIO

NE E S

V

IL

UPPO DELLE RISORSE U

M

AN

E PER C

O

ST

RUIRE IL SUC

CESSO DELL’IMPRES

A

4. Il termine capabilities, di origine anglosassone, non ha un equivalente nella lingua italiana. Il termine sta a indicare ciò che si po-

trebbe essere capaci di fare, una sorta di potenziale per lo sviluppo o per l’impiego, ma richiama anche la necessità di prestare atten- zione alle condizioni e al contesto che rendono possibile l’emergere e il concreto manifestarsi di queste potenzialità.

5. In questo senso il presente contributo può essere letto, ad esempio, come un complemento al già citato lavoro di Arrighetti e Traù

(2013), che, pur focalizzandosi sullo studio dei rapporti tra impresa e mercati a monte e a valle, parte dall’investimento nel processo di apprendimento e di produzione di conoscenza da parte delle imprese, senza però addentrarsi per l’appunto nel ruolo che eserci- tano le specifiche architetture organizzative e le diverse modalità di gestione delle risorse umane.

6. Si veda in questo senso Brandolini e Bugamelli (2009).

nelle pratiche in essere si rifletta la qualità dei manager, ma non è detto: nelle loro azioni questi ultimi possono incontrare vincoli e resistenze derivanti dal middle management, dai rappresentanti dei lavoratori e dai lavoratori medesimi, oppure le pratiche in essere possono costituire il risultato di sollecitazioni e pressioni esercitate da uno o più di questi soggetti, nel loro intento di salvaguardare posizioni di lavoro e redditi che in realtà solo l’innova- zione può promettere. Se così, le pratiche in essere possono dunque fornire un’immagine distorta verso il basso (nel primo caso) o verso l’alto (nel secondo caso) della qualità del ma- nagement. Tutto ciò suggerirebbe che si dedicasse una specifica attenzione anche alla qua- lità di questa variabile (identità, caratteristiche intrinseche del soggetto, pratiche messe in atto, stili di management praticati, allocazione del suo tempo). Purtroppo dati in questa di- rezione sono più difficili da raccogliere e reperire e quindi è auspicabile che nel prossimo futuro questo vuoto informativo venga colmato per poter consentire alla ricerca di svolgere un’analisi più completa dell’impresa.

7.2 I PREREQUISITI ORGANIZZATIVI E TECNOLOGICI PER UNA GESTIONE INNOVATIVA DELLE RI-