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C OSA SI PUÒ FARE PER CAMBIARE REGISTRO ?

3. SECONDE GENERAZIONI E SCUOLA ITALIANA: COME PROCEDE L’INTEGRAZIONE DEI FIGL

5.4 C OSA SI PUÒ FARE PER CAMBIARE REGISTRO ?

Mancano oggi misure volte a favorire la progressione sociale e professionale dell’immigrato istruito arrivato nel nostro paese e disposto a svolgere qualunque lavoro. Ci sono oggi tre ostacoli a questa progressione, che andrebbero rimossi al più presto:

• la difficoltà di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio e dei titoli professionali ac- quisiti all’estero;

• la necessità di un frequente rinnovo del permesso per lavoro, che impedisce all’immigrato di investire su tempi medio lunghi;

• l’impossibilità di accedere a molti concorsi pubblici.

Per rinnovare il permesso di soggiorno, l’immigrato deve dimostrare di aver maturato un reddito sufficiente nel periodo di validità del permesso in scadenza. Questo impedisce al la- voratore di staccarsi dal suo posto – poniamo – di badante per fare una seria ricerca di op- portunità alternative. L’impossibilità di accedere ai concorsi pubblici è chiaramente discriminatoria e confidiamo nel fatto che la giurisprudenza ponga fine a questa pratica, peraltro sempre più frequente nelle diverse regioni. Impedisce, ad esempio, ai medici stra- nieri di operare in Italia, nonostante l’invecchiamento della popolazione ci ponga di fronte a una crescente carenza di personale medico in molte specialità. E rappresenta un ostacolo alla progressione anche degli immigrati di seconda generazione, quelli su cui tipicamente si cementa l’integrazione delle minoranze etniche nei paesi di accoglienza. Invece di in- centivare i figli degli immigrati a integrarsi e a investire in istruzione, facciamo esattamente l’opposto. Dovremmo, invece, premiarli concedendo loro il permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo o addirittura la cittadinanza in caso di merito scolastico. Il principio deve essere quello di offrire il massimo sostegno agli studenti bravi, a qualunque livello. Per gli immigrati sarebbe un incentivo potente, a costo zero per le casse dello Stato, a investire in istruzione.

Il Governo Letta ha recentemente approvato un decreto legge che contribuisce ad alleviare l’enorme onere burocratico che grava sugli studenti stranieri che decidono di formarsi nel nostro paese. Grazie a tale provvedimento, i permessi di soggiorno per motivi di studio sa- ranno validi per l’intera durata del corso, non sarà dunque più necessario rinnovare il per- messo ogni anno.

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Il provvedimento rappresenta indubbiamente un passo nella direzione giusta, sono tuttavia auspicabili ulteriori semplificazioni. Il legislatore non dovrebbe infatti preoccuparsi esclu- sivamente di attrarre studenti in Italia, sarebbe bensì opportuno che si adoperasse anche al fine di incentivarli a rimanere nel nostro paese una volta formati tramite l’inserimento au- tomatico degli studenti all’interno di un percorso di cittadinanza. Un’altra possibile riforma che, senza gravare sulle finanze pubbliche, migliorerebbe l’efficienza del processo di sele- zione consiste nell’includere le università nella valutazione dei curricula degli studenti che intendono studiare in Italia; è infatti ragionevole supporre che il sistema accademico sia più adatto dei consolati a valutare i titoli di studio dei candidati.

Sono molti nel nostro paese a temere la competizione degli immigrati e a sentirsi minacciati dall’arrivo di lavoratori stranieri, che sono disposti a svolgere queste mansioni pur essendo più qualificati (e con maggiore esperienza) di loro. Ma il modo migliore di rispondere a queste sfide non è cercare inutilmente di chiudere le frontiere, bensì rendere ancora più vantaggioso l’investimento in istruzione degli italiani. È molto più utile cercare di rimuovere le tante barriere che si frappongono all’esercizio delle libere professioni in Italia che ridurre le quote di ingresso e rendere l’immigrazione più difficile per tutti, compresi gli immigrati con più alto livello di istruzione. Quello che succede tipicamente in paesi che storicamente hanno ricevuto grandi flussi di immigrati è che la manodopera autoctona reagisce inve- stendo di più in istruzione e sceglie mansioni con un più elevato contenuto di comunica- zione e interattività. Sono quelle mansioni rispetto alle quali gode di un forte vantaggio competitivo rispetto ai nuovi arrivati. È un vantaggio ancora più forte per gli italiani, dato che gli immigrati, nella stragrande maggioranza dei casi, non parlano già la nostra lingua quando arrivano da noi.

Un modo efficace per migliorare la percentuale di lavoratori con livello di istruzione terziaria consiste nell’introduzione di un permesso di soggiorno a punti. Grazie a questo sistema è possibile razionalizzare i criteri di accesso e agire sulla composizione delle qualifiche della popolazione immigrante adattandola alle esigenze della domanda per colmare eventuali buchi di offerta. Tutti i paesi hanno ormai adottato politiche selettive dell’immigrazione. Il sistema a punti si limita a renderle più esplicite dando anche un segnale forte verso coloro che pianificano di venire a lavorare da noi.

Anche il nostro paese ha introdotto negli ultimi anni una serie di programmi per attrarre ta- lenti, quei piccoli numeri di persone che sono in grado davvero di fare la differenza. Si tratta però di misure che si sono rivelate di scarsa efficacia perché non offrivano ai beneficiari al- cuna prospettiva di durata dell’impiego. E senza offrire un contratto a tempo indeterminato è molto difficile riuscire a convincere persone che hanno brillanti opportunità di carriera al- trove a spostarsi da noi.

Gli aiuti a favore del rientro di docenti e ricercatori scientifici residenti all’estero introdotti nel 2008 (art. 17 del D.L. n. 185/2008) erano ristretti a chi soddisfaceva i seguenti requisiti:

essere in possesso di titolo di studio universitario o equiparato; essere stato stabilmente re-

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sidente all’estero (cittadino straniero o italiano iscritto all’AIRE senza domicilio o residenza in Italia per più di 183 giorni); possedere documentata attività di ricerca per almeno due anni consecutivi presso università o centri di ricerca pubblici o privati. Si trattava, dunque, di una legge chiaramente indirizzata a favorire il rientro di talenti impegnati in attività di ricerca o con posizioni accademiche all’estero. È stata in parte utilizzata dalle università, ma non sembra avere avuto effetti apprezzabili, soprattutto perché non prevedeva alcuna immis- sione in ruolo per i beneficiari.

La “Legge Controesodo” (238) del 2010 ha posto in essere una serie di incentivi fiscali tem- poranei (abbattimento per tre anni del reddito imponibile crescente con il reddito dichiarato, con un limite massimo alla agevolazione fiscale di 200mila euro in tre anni) per indurre nostri connazionali a tornare in patria. I beneficiari delle agevolazioni dovevano soddisfare una serie di condizioni non sempre legate al merito e certamente non tali da identificare ne- cessariamente talenti. In particolare tra i requisiti: (i) avere meno di 40 anni; (ii) avere ma- turato, da laureati, esperienze lavorative all’estero, per la durata di almeno 24 mesi continuativi, oppure avere frequentato, ottenendo una laurea o una specializzazione post- laurea, un corso di studi all’estero per la durata di almeno 24 mesi continuativi. Inoltre, at- tribuisce il beneficio solo a chi viene assunto o decide di esercitare un’attività d’impresa o di lavoro autonomo in Italia. La legge è entrata pienamente in vigore solo nel 2012, dato il ritardo con cui sono stati varati i decreti attuativi. Non sembra avere avuto un effetto addi- zionale nel rientro di lavoratori italiani dall’estero. Nel 2012, l’unico anno in cui sono di- sponibili dati, sono rientrate circa 31.000 persone, in linea con gli anni precedenti; tra queste i beneficiari sono meno di 4.000. Oltre all’incertezza normativa e all’importo relativamente contenuto delle agevolazioni, uno dei fattori che ha limitato l’efficacia di questa misura è il fatto di non contare su finanziamenti strutturali e di basarsi invece su stringenti tetti di risorse pubbliche annuali, superati i quali il beneficio non sarebbe più stato erogato.

Un esempio che potremmo seguire per attrarre talenti, tenendo conto dei problemi generali dell’università italiana, è offerto dall’Agenzia per la ricerca istituita nel 2001 dal Governo della Catalogna (Catalan Institution for Research and Advanced Studies o ICREA). L’ICREA è stata creata per rispondere alla necessità di trovare nuove formule per assumere ricercatori e com- petere ad armi pari con altri sistemi di ricerca. L’obiettivo di ICREA è di assumere scienziati di alto livello, rafforzare la base scientifica esistente e aprire le università a nuove linee di ri- cerca. Lavora in stretta collaborazione con le università per integrare pienamente i suoi ricer-

catori nel sistema universitario e della ricerca2. Ogni anno, emette un bando per assumere i

migliori ricercatori (spagnoli o stranieri) che decidono di trasferirsi in una delle università della Catalogna (a volte con contratti a termine, a volte con posizioni permanenti). I profili richie- sti sono di eccellenza, docenti in grado di aprire nuove linee di ricerca o rafforzare in modo significativo quelle già presenti. Le candidature sono proposte dalle università, con l’obiettivo di lungo periodo di integrare stabilmente i nuovi docenti nelle proprie strutture.

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2. Un’altra esperienza interessante è il Canada Excellence Chairs: per ogni cattedra, l’università riceve un contributo (con tetto di 10 mi-

lioni di dollari canadesi su 7 anni e cofinanziamento al 100%). Le università possono contestualmente chiedere finanziamenti per in- frastrutture di ricerca, che coprano fino al 40% dei costi. Le cattedre richiedono presenza a tempo pieno in Canada.

In dodici anni di attività ICREA ha assunto quasi 300 docenti per lo più in provenienza da università straniere nelle diverse discipline, una massa critica che ha contribuito a rendere alcune di quelle università competitive nello scenario internazionale. Nonostante la crisi economica, il Governo della Catalogna sta cercando di difendere il programma con i denti perché si rende conto che si tratta di un investimento strategico. La chiave del successo è la massima pubblicità del bando e la massima trasparenza delle decisioni: le assunzioni sono decise da cinque commissioni di settore a cui partecipano scienziati di tutto il mondo e da cui sono esclusi docenti della Catalogna per evitare conflitti di interesse. I vincitori hanno un contratto permanente con ICREA, e lavorano presso università o centri di ricerca in Ca- talogna e devono prendere servizio entro l’anno accademico successivo (altrimenti deca- dono). Sono inoltre sottoposti a valutazione periodica, inizialmente dopo tre anni e successivamente ogni cinque anni da parte di valutatori esterni. Nel caso di valutazione po- sitiva, sono previsti incrementi salariali.

L’esperienza dell’ICREA potrebbe essere replicata in Italia creando un programma per il ri- torno dei cervelli, che si regga su di un’agenzia di piccole dimensioni. Dovrebbe essere composta da un direttore e da un comitato scientifico di alto profilo e senza conflitti di in- teresse, oltre a 4 o 5 persone di staff. Dovrebbe avere notevole flessibilità organizzativa, con la possibilità di sottoscrivere contratti di diritto privato e con certezza di budget nel lungo periodo. I costi sarebbero inizialmente contenuti, per via del numero relativamente limitato di posizioni inizialmente attivate, e crescenti nel tempo fino ad arrivare a regime attorno ai 100 milioni all’anno. Come si arriva a questa cifra?

Supponiamo che si vogliano finanziare 25 posizioni permanenti ogni anno e che ogni po- sizione abbia un costo medio di 150mila euro all’anno (il costo lordo di un docente ordi- nario è circa di 130mila euro). Ipotizzando un’età media di ingresso di 45 anni e la pensione a 65 anni, ogni contratto ha una durata media di 20 anni. A regime vi saranno quindi circa 500 docenti assunti dall’agenzia, con costo a regime di 75 milioni di euro. A questi vanno aggiunti i costi di eventuali altri programmi (esempio: junior grants, conferenze, ecc.), oltre a quelli del personale, per complessivi 25 milioni di euro. Si può pensare che le Regioni pos- sano aumentare la dotazione del fondo, attirando ricercatori nelle proprie università. Ov- viamente, anche i privati e le fondazioni possono essere invitati a contribuire.

Infine, è bene ricordare che i flussi di idee non necessariamente richiedono lo spostamento fisico delle persone. Grazie ai progressi nelle tecnologie della comunicazione, è possibile importare idee senza avere i cervelli fisicamente da noi, ma per farlo bisogna dare un se- gnale forte e chiaro ai cervelli italiani emigrati di grande attenzione nei loro confronti, farli sentire parte di un progetto di rilancio del Paese e dimostrare di avere un ambiente partico- larmente ricettivo – a partire del sistema universitario e della ricerca per arrivare a quello fi- nanziario – per trasformare le loro idee in innovazioni e riuscire a metterle in pratica.

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