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Isole di produzione, rotazioni e costruzione ‘informale’ della policompe tenza: il caso della Brembo

Nell’unità produttiva di Curno (Bergamo), che vede impegnati 400 addetti nell’assem- blaggio di sistemi frenanti per autoveicoli di media-alta gamma, è in atto un sistema or-

ganizzativo imperniato sui concetti di polivalenza e policompetenza1. Il sistema è

formato da isole sequenziali di produzione, composte da più postazioni di lavoro ognuna delle quali richiede un insieme di competenze che comprende non solo attività di esecuzione ma anche di diagnostica della qualità (individuare i difetti e le loro cause). L’attività di diagnostica è affrontata inizialmente dal lavoratore anche con la collabora- zione del collega più esperto della squadra. In questa interazione prendono quindi corpo due delle fasi del processo di produzione e diffusione di conoscenza teorizzato dagli stu- diosi giapponesi Nonaka e Takeuchi (in The Knowledge Creating Company), fasi note come ‘socializzazione’ e ‘interiorizzazione’ della conoscenza.

Il concetto di polivalenza è integrato da quello di policompetenza, definito come la ca- pacità del lavoratore di saper gestire l’intera operatività dell’impianto (effettuazione di cambio tipo, manutenzione di primo livello, accensione-spegnimento dell’impianto, modifica parametri, ecc.).

Tenendo conto della direzione del flusso di lavoro, l’inserimento di un nuovo lavoratore avviene nelle postazioni più a monte del processo, con un iniziale affiancamento da parte di un lavoratore esperto, facente parte della squadra, affinché il neo inserito si renda progressivamente autonomo rispetto alle competenze richieste.

La rotazione da monte a valle del lavoratore, all’interno dell’isola prima e fra isole poi, espone il lavoratore stesso a una continua attività di diagnostica dei difetti (anche quelli eventualmente sfuggiti alle postazioni a monte, avendo lo stesso accumulato già un ex- pertise su quelle postazioni) e di soluzione dei problemi che dilata e fa accrescere – in modo autopoietico – le sue abilità mentali e le sue competenze. Il controllo di qualità si esplicita quindi lungo il processo e non più alla sua fine come si è soliti fare nell’or- ganizzazione tradizionale con la tecnica del campionamento statistico.

Nei pressi dell’isola di produzione è disposto un pannello riportante i numeri di matri- cola dei lavoratori (e non i nomi, per questioni di privacy), affiancati da una figura a cerchio divisa in quattro spicchi, anneriti a seconda che il lavoratore sappia svolgere pienamente le proprie mansioni (conoscenza teorica e formazione), sappia assicurare la qualità, sappia assicurare la produttività e infine sappia anche insegnare ad altri lavora- tori. Non può non riconoscersi in ciò una filosofia progettuale secondo cui una corretta

1. Tali concetti sono in realtà presenti e operanti in tutti gli stabilimenti del gruppo e costituiscono uno degli strumenti del Brembo Production System (BPS).

Infine la polivalenza diventa una condizione indispensabile per una flessibilizzazione degli orari che tenga conto anche delle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma su questo aspetto ci sarà un approfondimento più avanti nel testo.

Occorre brevemente richiamare l’attenzione, infine, sul fatto che la costruzione della poli- valenza e policompetenza richiede un profondo ripensamento anche della mission del clas- sico UTM (Ufficio Tempi e Metodi) e dei suoi principi operativi, quali la minimizzazione del tempo richiesto per eseguire un’operazione, il livello minimo di skill necessario e infine il tempo minimo indispensabile per apprendere o per essere addestrati. Senza un’operazione di messa a sistema di questi aspetti, gli elementi di contraddizione rendono inefficiente l’operatività quotidiana che è costituita non solo di esecutività ma anche di auto-riflessività. Tutte le azioni sottostanti i tre aspetti sopra analizzati sono tra di loro collegate da una ricca rete di relazioni, e la conseguenza è che l’effetto dell’adozione di uno di questi fattori è mag- giore quando sono adottati contemporaneamente anche gli altri. Le imprese che li adottano solo parzialmente non soltanto non ottengono il sostanziale miglioramento di performance registrato invece da coloro che li impiegano in misura completa, ma potrebbero anche su- bire delle perdite in termini di performance. Le evidenze empiriche disponibili sull’industria italiana indicano che le adozioni di pratiche lavorative innovative non mancano, ma sono spesso implementate in forma non sistemica, un po’ a spizzichi e con pacchetti di varia am-

piezza e profondità, rispetto a ciò che si registra nei sistemi produttivi nostri competitor.

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e trasparente informazione riguardante l’ampiezza e la profondità delle competenze di ogni singolo componente la squadra rafforza la motivazione dei lavoratori.

Accanto a ogni isola è installato un box attrezzato dove la squadra, una decina di minuti prima del termine del lavoro, si riunisce per compilare delle schede (informatizzate) di valutazione diagnostica (difetti, problemi incontrati, soluzioni adottate) utilizzabili sia dai livelli superiori sia dalla squadra che subentra nel turno successivo. In questo modo si ma- terializza un’altra fase del processo di produzione della conoscenza teorizzato dai due stu- diosi giapponesi sopra citati, noto con il termine di codificazione (o “esteriorizzazione”) della conoscenza, che da fatto individuale diventa così fatto organizzativo. Il processo di apprendimento (informale) dei lavoratori è sostenuto, oltre che dalla job rotation, anche da periodi di formazione d’aula riguardanti materie sia tecniche sia cognitivo-relazionali. Il “Sistema Idee di Progresso”, o “Kaizen Ideas System” per l’estero (equivalente al si- stema dei suggerimenti dal basso), investe a tutto campo la base operativa e costituisce una delle leve più importanti per il coinvolgimento del personale e per il continuo eser- cizio di autoriflessività sulle pratiche attuate e quindi per il miglioramento continuo sia degli apprendimenti che delle performance.

La natura delle ICT: decentramento delle responsabilità ed estensione del coordinamento

L’introduzione di tecnologie ICT nella forma di sistemi di ERP (software di gestione azien- dale che integra in un’unica piattaforma tutti i processi di business – dalla produzione in- dustriale al marketing e alle vendite, dagli acquisti alla contabilità e alla gestione del magazzino, dalla logistica alla gestione degli investimenti, dai flussi di lavoro alla manu-

tenzione degli impianti e alla gestione delle risorse umane, e così via)14, e relative applica-

zioni quali il CRP (Capacity Requirement Planning), il CIM (Computer Integrated Manufacturing, con le integrazioni FMS-CAD/CAM), il MRP (Material Requirement Plan- ning) e il MRP-II (Manufacturing Resource Planning) hanno delle implicazioni notevoli in

termini sia di struttura dei costi15, sia di riorganizzazione dell’impresa e sia di riaddestra-

mento delle competenze necessarie per la loro efficiente implementazione (Robey et al., 2002). La questione più sottovalutata però è quella riguardante la nuova divisione del lavoro che queste tecnologie determinano. Se infatti, ad esempio, il CAD/CAM – operante in un am- biente ERP che riduce la comunicazione verticale e facilita quella orizzontale (la c.d. peer- to-peer communication) – consente di decentrare verso il basso della gerarchia la gestione e la soluzione dei problemi (effetto di empowerment), riducendo quindi la necessità di re- sponsabilità (e di costi) di livello superiore, il sistema informativo dell’ERP permette ai livelli superiori di ampliare l’estensione del controllo e del coordinamento (effetto di span of con- trol) e di concentrarsi maggiormente sulla performance. Tutto ciò si traduce – se corretta- mente applicato – in una redistribuzione del potere decisionale e in un abbattimento complessivo dei costi.

Nella misura in cui le imprese sono già posizionate organizzativamente lungo i canoni della lean production e della polivalenza/policompetenza, i costi di implementazione delle nuove tecnologie ICT si riducono in modo significativo. La complementarità che lega ICT e capi- tale organizzativo ha come conseguenza il fatto che, se le imprese investono nelle nuove tec- nologie ma non reingegnerizzano il disegno organizzativo (e non costruiscono la polivalenza e policompetenza: aspetto che vedremo fra poco), vanno incontro a rendimenti molto bassi, a ritorni non remunerativi (Bugamelli e Pagano, 2004).

La tradizionale obiezione secondo cui le tecnologie ERP e CIM sarebbero alla portata solo delle medio-grandi imprese non è più da tempo fondata. Anche le imprese di piccole e medie dimensioni possono e dovrebbero essere sempre più pronte a cogliere le opportunità

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14.La cruciale rilevanza di questo ‘complemento’ tecnologico rispetto all’organizzazione emerge dal fatto che le imprese che hanno ten-

tato di implementare le tecnologie ERP senza aver prima re-ingegnerizzato l’organizzazione secondo l’ottica dei processi sono andate incontro a modesti, se non deludenti, risultati. Devadoss e Pan (2007) stimano che il 60% delle implementazioni degli ERP falliscono e non certo per le caratteristiche della tecnologiche adottate quanto piuttosto – secondo Peppard e Ward (2005) – per questioni con- nesse alla reingegnerizzazione dei processi. Nella fase iniziale del cambiamento i disturbi e i rallentamenti all’attività produttiva sono notevoli, le difficoltà da superare sono rilevanti e la produttività spesso temporaneamente cala; i tempi di realizzazione dell’intero im- pianto ERP o i costi programmati tendono – nel 90% dei casi – a essere superati e i rendimenti si manifestano nel medio-lungo periodo (dai 3 ai 5 anni). Si vedano Brynjolfsson et al. (2002), Bloom et al. (2012) e Huang et al. (2009).

15.Con riferimento alle imprese manifatturiere americane, Brynjolffson et al. (2002) hanno stimato che il rapporto tra i costi dell’hardware

e del software e i costi totali dell’investimento (comprendenti anche quelli della consulenza, del tempo dei manager, delle riorganiz- zazioni e dell’addestramento della forza lavoro) è pari a 1 a 9.

offerte dalle innovazioni tecnologiche che rendono tutto più intelligente, semplice e veloce, a condizione che si comprendano le relazioni di complementarità in cui le nuove tecnolo-

gie si inseriscono16.

7.3 UNA GESTIONE INNOVATIVA DELLE PERSONE: LO SVILUPPO DELLE CAPABILITIES LAVORATIVE

Si è visto come la condizione di complementarità tra i vari aspetti organizzativi implichi che si possa affrontare un aspetto – in termini di maggior efficienza – solo in funzione degli altri. La stessa condizione vale anche nei confronti della gestione delle risorse umane. In via del tutto preliminare occorre ricordare che la ricerca internazionale ha documentato come, a distanza di un certo numero di anni, gli individui che hanno lavorato in ambienti caratterizzati dai fattori sopra richiamati mostrano tratti di personalità maggiormente pro-at- tivi, di maggior flessibilità, fiducia e ottimismo rispetto a coloro che hanno lavorato in am-

bienti organizzativamente più tradizionali17. Quindi il modo con cui è organizzato il lavoro

produce effetti significativi su alcuni tratti di personalità e costituisce un aspetto rilevante per la gestione delle risorse umane.

I grandi capitoli della gestione delle risorse umane riguardano i sistemi di ricompensa e in particolare la struttura degli incentivi, la formazione, la selezione e il governo degli orari. Vedremo nelle prossime pagine come questi – nell’ottica della complementarità – consen- tano di far compiere un passo ulteriore nella direzione di una spirale di performance azien-

dale distintiva18, a condizione che la flessibilità organizzativa interna all’impresa sia

accompagnata da un coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali.

La remunerazione: dalla complessità del job alle competenze del lavoratore

È noto come il nostro sistema istituzionale di regolazione dello scambio prestazione-sala- rio prediliga contrattualmente il riferimento alla complessità della posizione occupata, de- finita dal livello di inquadramento e relativa declaratoria (o mansionari), piuttosto che al livello delle competenze possedute ed espresse dal lavoratore. Nel primo approccio la re- munerazione non è altro che il riconoscimento del contributo apportato alla produzione; nel secondo – muovendo dall’idea che la relazione d’impiego non si conclude con la sotto- scrizione di un contratto (esigibile poi con il comando e il controllo), bensì inizia a partire dal contratto stesso – la remunerazione costituisce uno degli strumenti per motivare il lavo- ratore a mettere in atto quei comportamenti lavorativi ritenuti positivi per l’impresa.

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16.Per una rassegna aggiornata delle criticità connesse all’introduzione di tecnologie ICT e di sistemi ERP nelle imprese di varie dimen-

sioni si veda Shaul e Tauber (2013).

17.Si vedano, ad esempio, le verifiche longitudinali di Kohn e Schooler (1983 e 1990) effettuate a distanza di 10 anni. Si tenga conto che

l’anzianità aziendale media dei lavoratori a tempo indeterminato, nell’industria e nei servizi italiani, è attorno ai 10 anni (Leoni, 2012).

18.Usiamo qui il termine ‘spirale’ con riferimento al fatto che l’interazione condizionante dei vari fattori avviene a seguito di adozioni se-

quenziali e path-dependent, il che dà luogo a circoli virtuosi che tendono a conferire un andamento a spirale alla performance, la quale comunque risulta iscritta (locked) in una traiettoria che può avere livelli superiori o inferiori, a seconda della selezione e intensità delle variabili organizzative e di gestione delle risorse umane (Cristini et al., 2004).

La metrica del primo approccio (validata da entrambe le parti sociali sottoscriventi i Con- tratti Collettivi Nazionali del Lavoro, CCNL) mira ad attribuire a un lavoro uguale una retri- buzione uguale, riconoscendo a tale uguaglianza una triplice valenza: (i) quella di equivalenza dei compiti e delle responsabilità declinate nei diversi profili professionali che si collocano lungo un dato livello; (ii) quella di equità retributiva delle differenze tra i li- velli, giustificata dalle diverse complessità e responsabilità; (iii) quella di equità rispetto al mercato esterno del lavoro. L’impianto ha la pretesa di ricondurre a un aprioristico disegno – la divisione e l’organizzazione del lavoro – tutta la complessità delle attività lavorative, dei compiti e delle responsabilità presenti e operanti in un’organizzazione produttiva idealtipo (o impresa rappresentativa) di un dato settore. Quando questa “pretesa” appare eccessiva si ricorre a un’aziendalizzazione del CCNL con l’integrazione di superminimi pattuiti tra im- presa e lavoratore, oppure di voci retributive variabili concordate attraverso un contratto in- tegrativo aziendale, nell’ottica di un riconoscimento economico legato alla performance. Mansioni codificate e standardizzate, però, mal si conciliano con i cambiamenti organizza- tivi, i ridisegni delle postazioni di lavoro e i processi di empowerment delle risorse umane analizzati. Cambiamenti che richiedono competenze non solo per eseguire ma anche per ge- stire la variabilità, l’incertezza, la realizzazione in contesti instabili e non prevedibili; com- petenze che non sono date, ma da costruire – anche con incentivi economici – a partire dalla sottoscrizione del contratto d’impiego; risorse umane che si devono (e si possono) motivare verso un impegno ad apprendere e a integrarsi, con appropriate tecniche di gestione, appo- siti schemi remunerativi e incentivi monetari (il più possibile finalizzati e intensi) e non mo- netari (quali l’equità, la correttezza, la reciprocità, l’aderenza a nome sociali, ecc.).

L’ipotesi cruciale nel primo approccio è la “aspecificità” dello scambio in questione. Men- tre il secondo considera l’oggetto della transazione come una risorsa ”specifica”, che solo qualche volta è data in partenza, al momento dell’acquisizione, ma che in generale si viene gradualmente a costruire in seguito, e in modo contestuale (vale a dire, in situ), per effetto del suo impiego e dei conseguenti apprendimenti, fino a divenire una risorsa/competenza particolare non facilmente rimpiazzabile per l’impresa. Il corollario di questa concezione è che se la specificità della transazione è quindi fonte progressiva di valore economico per l’impresa, il valore dello scambio si proietta nel futuro, e gli conferisce un connotato evo- lutivo, di adattamento e di flessibilità nei contenuti attraverso la formazione on-the-job e l’apprendimento organizzativo. Da questo consegue che ciò che è rilevante non è tanto il costo del lavoro, ma – data l’inevitabile incompletezza del patto iniziale – il rendimento delle competenze e soprattutto il tasso di evoluzione delle stesse.

Dato il contesto istituzionale, rappresentato dal CCNL e dai ”minimi” retributivi, e la logica remunerativa che da esso discende (quella connessa alle caratteristiche intrinseche della po- sizione e non alle competenze della persona), la partita viene giocata dalle parti contraenti sui superminimi e/o premialità accessoria, nei confronti della quale sono però distinguibili

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due filosofie contrapposte, quella degli incentivi output-oriented e degli incentivi input-orien- ted, siano essi erogati sulla base di una negoziazione tra direzione aziendale e singolo lavo- ratore, oppure tra impresa e RSU/RSA.

Incentivi: profit/gain-sharing o sviluppo delle competenze? Verso un sistema misto

La logica orientata all’output fa riferimento a indicatori riconducibili alle categorie del pro- fit-sharing e del gain-sharing, in cui si lega il pagamento dell’incentivo alla realizzazione di uno o più obiettivi. Le due categorie si distinguono per il fatto che la prima utilizza parame- tri finanziari (quali la redditività, il MOL, e altri indicatori di bilancio), la seconda parametri reali (la produttività di un impianto, la difettosità, i tempi di consegna, ecc.). Pur accomunate da una logica di flessibilizzazione del costo del lavoro e di condivisione degli obiettivi, la ratio sottostante alla prima categoria è la suddivisione del rischio d’impresa con i lavoratori, men- tre quella della seconda è l’incentivazione dell’impegno lavorativo. In entrambi i casi i lavo- ratori ricevono una frazione degli incrementi della performance – che nella stragrande maggioranza dei casi è di natura collettiva – in base alla presenza assicurata nel luogo di la- voro, qualche volta ponderata per il livello di inquadramento professionale.

Questo meccanismo tutela l’impresa in quanto questa paga solo al verificarsi dell’evento po- sitivo, ma non sempre riesce a stabilire una chiara connessione tra impegno individuale e risultati aziendali o di reparto e questo solleva più di un dubbio sulla sua efficacia. I lavo- ratori e i loro rappresentanti possono anche essere più soddisfatti nel ricevere un bonus senza avere una valutazione diretta del loro impegno, ma da qui ai risultati il sentiero è in- certo, lungo e tortuoso.

Incentivi così concepiti non vengono verosimilmente percepiti ex-ante dal lavoratore come spinta a fare qualcosa di specifico, qualcosa che sta nelle sue potenzialità; la logica della ‘direzione per obiettivi’ (e della connessa performance-related pay) non è in grado né di far emergere questo stimolo, in quanto pone attenzione solo alla misurazione dell’output, né di risolvere il problema della misurazione dell’impegno del singolo lavoratore. Questa lo- gica tuttavia permea la contrattazione decentrata esistente oggi nel Paese (salvo eccezioni), che fra l’altro copre – stando agli ultimi dati di Banca d’Italia – solo circa il 21% dei lavo-

ratori dipendenti del settore privato dell’economia, occupati in imprese sopra i 20 addetti19.

La quota del salario erogato a livello decentrato è progressivamente cresciuta negli anni, fino a raggiungere un valore stimabile oggigiorno attorno al 18% del salario pro-capite com- plessivo, di cui però solo una minima parte costituisce la porzione veramente variabile. Il giudizio di inefficacia dell’impianto incentivante, formulato dalla più autorevole fonte di ricerca economica del Paese (Banca d’Italia, 2008: «I premi aziendali mostrano spesso una

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23.Queste imprese rappresentano oltre il 70% degli addetti nel settore dell’industria in senso stretto e quasi il 60% nel comparto dei ser-

scarsa differenziazione all’interno dell’impresa e sembrano poco correlati ai risultati»)20, do-

vrebbe indurre le imprese e i rappresentanti sindacali ad avviare un ripensamento delle in- centivazioni nei confronti di lavoratori non-manageriali nella direzione di schemi di tipo input-oriented, limitando gli incentivi output-oriented (i cosiddetti performance-related pay) nei confronti dei manager (middle e top) in quanto per queste categorie operano propria- mente tutte le condizioni dell’MBO (Drucker, 1954), vale a dire un legame tra obiettivi macro (possibilmente declinati in una prospettiva quantomeno di medio periodo), strumenti a di- sposizione (tecnologie, risorse umane e finanziarie, potere discrezionale) per poterli rag-

giungere e misurabilità degli obiettivi raggiunti21. L’impianto output-oriented applicato ai

lavoratori non-manageriali potrebbe, in teoria, essere ancora salvato a condizione che esista una serie stringente di specifiche proprietà organizzative, quali ad esempio: (i) un contesto coope- rativo fra i lavoratori coinvolti (che l’impianto stesso invece presume di creare e sviluppare); (ii) un controllo sociale reciproco fra i lavoratori, al fine di garantire vicendevolmente un compor- tamento favorevole; (iii) una dimensione piccola dell’unità organizzativa affinché il controllo re- ciproco, la preoccupazione per i risultati del gruppo e gli scambi di favori all’interno dello stesso possano essere efficaci; (iv) una ristretta varietà di comportamenti permessi ai lavoratori, che li- mita l’insieme di azioni a loro disposizione a eccezione dello sforzo; e infine (v) una forte omo- geneità professionale all’interno della linea gerarchica, affinché il controllo da parte dei superiori nei confronti dei subordinati sia da questi ultimi più verificabile, e quindi più accettabile. Se l’imprenditore e/o gli azionisti non sono interessati al semplice mantenimento di una per- formance, ma – in un mondo tecnologicamente in forte evoluzione e in mercati contraddi- stinti da marcata variabilità e imprevedibilità – anche, e soprattutto, a una prospettiva di crescita e sviluppo dell’impresa in cui hanno investito, allora il sistema degli incentivi (eco- nomici e non) coerente è quello che spinge non solo verso il miglior sfruttamento delle co- noscenze esistenti ma anche verso l’esplorazione di nuove opportunità, verso il