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L E POLITICHE SOCIALI E QUELLE MIGRATORIE

1. POPOLAZIONE E DEMOGRAFIA: VINCOLI E OPZION

1.4 L E POLITICHE SOCIALI E QUELLE MIGRATORIE

Per una ripresa delle nascite: autonomia dei giovani, lavoro per le donne

La bassissima natalità che caratterizza l’Italia (e non solo) genera profonde diseconomie esterne, e non è in linea con le aspettative delle coppie, le cui aspirazioni, come coerente- mente mostrano plurime indagini, implicherebbe un numero medio di figli intorno a due. L’attuale riproduttività, se invariata, nel lungo termine determinerebbe una crescita negativa dell’ordine dell’1% all’anno, e il dimezzarsi della popolazione nel giro di 70 anni. Nem- meno i più accaniti sostenitori della “decrescita” lo auspicano. Ma molti potrebbero con- dividere l’idea di un’Italia che mantenesse invariata la popolazione oggi raggiunta, con nascite e morti in equilibrio. Ma il conto è presto fatto: se questo fosse l’obiettivo da rag- giungere, occorrerebbe che tra gli anni Venti e gli anni Quaranta il flusso annuo di nascite si portasse sulle 700.000 unità annue, anziché le 450.000 che si avranno in quel periodo con fecondità costante ma popolazione in età riproduttiva decrescente (4 milioni in meno previsti nel prossimo ventennio). Certo il deficit può essere saldato da un’adeguata immi- grazione (dell’ordine di un quarto di milione all’anno) ma è dubbio che sia sostenibile, e au-

spicabile, che il ricambio della società sia affidato per oltre un terzo all’immigrazione6.

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6 9 12 15 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 65-69 70-74 75-79 UE-27 - Uomini UE-27 - Donne

Italia - Uomini Italia - Donne

Fonte: elaborazioni su dati Lutz e K.C. (2011).

Grafico 1.9b - … soprattutto se donne

(Numero medio di anni di studio per fasce di età, Italia e UE-27, 2050)

6. Il flusso di rinnovo, pari a 700.000 unità, sarebbe costituito da un numero di immigrati pari a 250.000 (36%) e un numero di nascite

Ottenere tante nascite in più non è impresa da poco. Lo sarebbe – si fa per dire – con in- centivi monetari potenti, che potrebbero per qualche anno far crescere il numero delle na- scite “accelerando” le decisioni delle coppie, indotte ad “anticipare” decisioni già prese, ma gli effetti positivi si estinguerebbero nel giro di pochi anni. Se questi incentivi dovessero es- sere permanenti, il loro costo sarebbe assai elevato (la politica del “capitale materno” della Russia di Putin vale circa 9.000 euro per ogni nascita oltre i primogeniti, e in Italia equi- varrebbe a oltre un punto di PIL) e probabilmente insostenibile in questa fase storica. Una politica di effettivo sostegno al costo dei figli sarebbe anch’essa molto costosa e adesso im- proponibile. Si valuta che il costo di un figlio si aggiri sul 20-30% del reddito familiare: ab- batterlo in modo significativo impegnerebbe risorse molto elevate – un 2% del PIL se, per esempio, si volesse abbattere del 10% il costo, per la famiglia, dell’allevamento dei minori. La bassa riproduttività è anche conseguenza della scarsa generosità del sistema di welfare per quanto riguarda i trasferimenti pubblici di sostegno alle famiglie e ai figli. Secondo le rilevazioni Eurostat (per il 2011) in Italia tali sostegni (includendo l’abitazione) sono pari a 4,8 euro ogni 100 trasferiti per finalità sociali (previdenza, assistenza, sanità), contro circa 10,1 nella media della UE-28, 10,8 in Francia, 13,3 in Germania, 12,2 nel Regno Unito, circa 13 nei paesi scandinavi. Espressi in termini pro-capite, si tratta di 346 all’anno in Ita- lia contro 948 in Francia, 1.172 in Germania, 871 nel Regno Unito, 1.200 circa nei paesi scandinavi. C’è una relazione diretta tra trasferimenti come sopra definiti e livello di fecon- dità: a trasferimenti più bassi (Italia e altri paesi mediterranei) corrisponde una fecondità assai più bassa della media europea; a trasferimenti più alti (Francia, paesi scandinavi) la fe- condità più alta del continente. Se si volessero adeguare, in Italia, i trasferimenti pubblici per famiglia e figli a quelli vigenti in paesi con più alta natalità (Francia e Scandinavia), occor- rerebbe uno spostamento di risorse pubbliche pari almeno a 2 punti di PIL.

Tuttavia, in mancanza di risorse pubbliche, occorre pensare che una ripresa della natalità e la riduzione del divario tra aspettative delle coppie in termini di riproduzione e numero di figli effettivamente messi al mondo passano essenzialmente per una rivoluzione sociale che anticipi la piena autonomia dei giovani e rafforzi le prerogative economiche delle donne. La lunghezza dei processi formativi, la lenta uscita dalla casa dei genitori, il tardivo impe- gno nel mercato del lavoro, il rinvio degli impegni di coppia e l’alta età alla nascita dei figli sono tutti aspetti di una “sindrome del ritardo” cresciuta negli anni Ottanta e Novanta, e ag- gravata dalla crisi recente. I giovani hanno perso prerogative, accumulano lentamente il loro capitale conoscitivo e lo impiegano in attività socialmente ed economicamente significative con grave ritardo. Essi acquisiscono un’indipendenza e un’autonomia decisionale effettiva – necessarie per prendere le decisioni riproduttive – nettamente più tardi rispetto ad altre so- cietà con pari grado di sviluppo. Riportare indietro le lancette dell’orologio dell’autonomia è necessario non solo per riavviare lo sviluppo, ma anche per una ripresa della natalità. Ci sarebbe poi un altro positivo effetto concorrente, consistente nell’abbassamento del costo prospettivo dei figli. Una società nella quale i figli diventano autonomi a 30 anni impone sulle spalle della famiglia oneri assai superiori rispetto a una società nella quale i giovani

sono autonomi a 20 o 25 anni. Anticipare l’autonomia delle giovani generazioni significa,

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dunque, diminuire il costo economico attualizzato di un neonato, e quel costo psicologico fatto di ansie e insicurezze sul futuro dei figli che concorre a deprimere la natalità. “Poten- ziare” i giovani significa anche “potenziare” i genitori, quelli attuali e quelli futuri, e allen- tare i vincoli imposti alle scelte riproduttive dal costo dei figli.

Metà dei giovani sono donne. Il discorso generale di “potenziamento” dei giovani vale, in particolar modo, per le donne. E questo “potenziamento” significa, soprattutto, più donne al lavoro, mirando a una apparentemente impossibile, o quanto meno acrobatica, quadra- tura del cerchio: alle donne si chiede di far più figli e al contempo di accrescere la loro pre- senza sul mercato del lavoro. Eppure questa necessaria quadratura è possibile, come dimostra l’esperienza dei paesi ricchi. Fino agli anni Ottanta, la relazione tra occupazione femminile e numero di figli era rigidamente negativa: la fecondità più alta era propria dei paesi dove le donne erano meno presenti nel mercato del lavoro. Più casalinghe, con più energie e più tempo dedicato ai figli e forse più inclini ai valori tradizionali, e quindi più figli. Nei paesi, invece, nei quali un’alta proporzione di donne era occupata, sottraendo tempo e forze alla famiglia, la natalità era più bassa, secondo logica e ragione. Ma a partire dagli anni Ottanta la relazione si è allentata fino a rovesciarsi: oggi sono i paesi a maggiore oc- cupazione femminile ad avere anche un numero maggiore di figli e quelli con occupazione debole (come l’Italia) ad avere la riproduttività più bassa (Grafici 1.10a e 1.10b). Dunque, almeno a livello macro, la quadratura sta avvenendo: lavoro e riproduzione non appaiono inconciliabili. Perché?

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Italia Svezia R = 0,16377 1,0 1,5 2,0 2,5 3,0 3,5 20 30 40 50 60 70 80

Figli per donna

Tasso di occupazione donne 25-54 Fonte: elaborazioni su dati OCSE.

Grafico 1.10a - In passato, più figli meno occupazione…

La spiegazione, come sempre avviene per fenomeni sociali complessi, non è senza condi- zioni, eccezioni e approssimazioni, ma segue un filo logico convincente. Le trasformazioni degli ultimi decenni hanno spinto la donna nel mercato del lavoro anzitutto perché il lavoro, e quindi l’autonomia economica che ne segue, è un mezzo fondamentale di indipendenza, valorizzazione e promozione della donna. È anche la migliore assicurazione contro l’insta- bilità familiare. In secondo luogo il lavoro della donna è componente essenziale dell’equi- librio economico familiare: in un crescente numero di famiglie, per larga parte del ciclo di vita, è necessario il concorso di più di una fonte di reddito. Le coppie decidono di mettere al mondo un figlio quando viene raggiunto un certo grado di sicurezza e di stabilità eco- nomica e queste richiedono l’esistenza di una doppia fonte di reddito. È questa la logica che lega il lavoro femminile alla riproduzione: nelle società contemporanee lavorare è condi- zione necessaria per fare un figlio, mentre non avere lavoro può essere motivo sufficiente per posporre o evitare una nascita, pur desiderata. Inoltre, nelle coppie dove la donna la- vora tende a diminuire l’asimmetria nella divisione dei ruoli legati al genere e cresce l’ap- porto dato dall’uomo all’allevamento dei figli. Argomento centrale, quello delle disparità di genere, la cui asimmetria può essere moderata con misure che incoraggiano l’assunzione di responsabilità da parte dei padri, il loro coinvolgimento nelle attività domestiche e di cura. In una prima fase, misure di questa natura hanno una valenza soprattutto simbolica, ma, considerando un arco temporale più lungo, possono contribuire a un effettivo muta- mento dei comportamenti.

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Italia Norvegia R = 0,28594 1,0 1,2 1,4 1,6 1,8 2,0 2,2 2,4 55 60 65 70 75 80 85

Figli per donna

Tasso di occupazione donne 25-54 Fonte: elaborazioni su dati OCSE.

Grafico 1.10b - … ma la relazione si è invertita

Il governo delle migrazioni, oltre la crisi

Dalle valutazioni più attendibili emergono e si rafforzano i segnali di un rallentamento, forse non transitorio, dell’intensità dei flussi d’ingresso che, nel primo decennio del secolo, hanno determinato l’eccezionale aumento – oltre tre milioni – dello stock migratorio. La riforma delle politiche migratorie rimane una priorità per il Paese, pur nella tregua attuale che forse annuncia un ciclo migratorio più maturo. È una tregua determinata da dolorose vicende economiche che può, e deve, essere utilizzata per introdurre nuove regole e per mettere a punto nuovi modelli organizzativi.

Se consideriamo i prossimi vent’anni, e pur scontando un rallentamento, è assai plausibile

che diversi milioni di migranti arriveranno nel nostro paese7. Molti per restarvi, altri desti-

nati a rientrare nei paesi di origine, altri ancora con alterni soggiorni in Italia e in patria. Le proiezioni delle Nazioni Unite prevedono – per il ventennio 2013-2033 – un saldo migra- torio pari a 3,5 milioni; per le previsioni ISTAT, per lo stesso periodo, il saldo sarebbe di circa 5 milioni. In ogni caso il flusso “lordo” (includendo coloro che poi ripartono) sarebbe assai più alto dei saldi netti sopra indicati. Migrazioni di questo ordine di grandezza – oc- corre ribadirlo – implicano un alto contributo numerico alla formazione del capitale umano del Paese, cui si aggiungono le nascite che i nuovi migranti avranno in territorio italiano (ri- cordiamo che nel 2012 le nascite da coppie con almeno un genitore straniero sono state circa un quinto del totale delle nascite). La crisi forse ha posto fine a un turbinoso quindi- cennio, durante il quale l’intero sistema di governo dell’immigrazione si è rivelato com- plessivamente inadeguato. L’impianto della Turco-Napolitano (1998) fu concepito quando gli immigrati arrivavano, ogni anno, a decine di migliaia, ma dieci anni dopo, con l’immi- grazione di un ordine di grandezza maggiore, e con le modifiche introdotte dalla Bossi-Fini (2003), tale impianto era divenuto decisamente obsoleto.

L’immigrazione in Italia è strutturale e tende a divenire un’immigrazione di insediamento e popolamento. Che in qualche misura pone rimedio alla debolezza demografica che, a sua volta, tende a trasformarsi in debolezza sociale. Nonostante la legge vigente abbia privile- giato un’immigrazione di breve periodo, legata alla durata dei contratti di lavoro, gli immi- grati di lunga residenza (con più di 5 anni di residenza legale) superano la metà degli stranieri regolari. Sono pezzi di società che da altri paesi si trapiantano nel nostro e che sono destinati a diventarne parte integrante. Che si sostituiscono ai vuoti che si determi- nano tra gli autoctoni, non solo per rimpiazzarli nel lavoro, ma per sostituirli nella com- plessa vita sociale. Il milione di rumeni giunti disordinatamente in Italia in pochi anni, si trasformeranno – nel volgere di non molti anni – in un pezzo di società italiana costituito non solo di centinaia di migliaia di badanti e muratori (e di elementi con conti in sospeso con la giustizia nella prima fase di migrazione) ma da studenti, artigiani, imprenditori, ope- rai, impiegati, professionisti, pensionati; bambini, donne e uomini. Seppure l’occasione ini-

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7. Non trattiamo qui il tema dei rifugiati, che dipende in larga parte dalle turbolenze internazionali, né dell’immigrazione stagionale, che

ziale dell’immigrazione è il lavoro, poi attorno al lavoratore o alla lavoratrice si ricostitui- sce un nucleo familiare: parenti ricongiunti che poi, a loro volta, cercano lavoro; figli che crescono, vanno a scuola e destinati (prima o poi) a diventare cittadini italiani. Stranieri che si ricompattano nella propria comunità di origine oppure – come è certamente preferibile – iniziano l’integrazione nella più vasta società dei cittadini, oppure che si situano in qual- che posizione intermedia. Insomma non solo immigrazione per lavoro, ma immigrazione di insediamento, di popolamento, di cittadinanza. Ma se questo è lo sbocco definitivo di ogni migrazione di massa, che magari ha superato un percorso tortuoso e irto di ostacoli perché la società di arrivo pretende che l’immigrato sia “temporaneo” o comunque non ne inco- raggia la stabilizzazione o il radicamento, allora ne risultano alcune chiare implicazioni per la politica. Fissiamo qui di seguito, dunque, alcuni punti fondamentali per il ridisegno della

politica migratoria8.

Primo - La politica migratoria deve essere molto articolata perché le motivazioni della mi- grazione, le condizioni del migrante, le particolarità del mercato del lavoro sono molteplici e non possono essere ridotte a un modello standard. Data l’eterogeneità dei migranti, un’adeguata disciplina degli ingressi deve prevedere un’ampia gamma di modalità in rela- zione alla natura dei flussi stessi: per lavoro, per ricongiungimento familiare, per motivi umanitari, per studio, per altri motivi.

Secondo - Riguardo agli specifici ingressi per lavoro nelle loro molteplici articolazioni, è ne- cessario riconoscere che la “richiesta” espressa dai datori di lavoro (imprese e famiglie) non può essere l’unico criterio per determinare l’ammontare dei flussi. Il volume della richiesta, pur essendo un essenziale indicatore, deve essere considerato nell’ambito di una valuta- zione d’insieme della dinamica del mercato del lavoro su scala nazionale, anche con ri- guardo al fenomeno della disoccupazione, che – pur in un mercato del lavoro ancora fortemente segmentato – colpisce sia i lavoratori italiani sia quelli stranieri. Gli elementi di programmazione introdotti dalla Turco-Napolitano, invece di essere rafforzati in funzione dell’esperienza, sono stati malamente gettati al vento, e i “decreti flussi” annuali convertiti in sanatorie di fatto degli irregolari già da tempo in Italia.

Terzo - Per quanto riguarda gli ingressi individuali, si è verificata l’assoluta inadeguatezza della chiamata nominativa di lavoratori residenti all’estero come modalità pressoché esclu- siva di reclutamento. Accanto a questa via d’ingresso, conviene reintrodurre il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro (su garanzia dello stesso migrante o di uno sponsor) even- tualmente assegnato con criteri che tengano anche conto dei profili dei richiedenti (non escluse, su base sperimentale, valutazioni a punteggio). In merito alle sponsorizzazioni, preso atto della criticità mostrate in passato, si suggerisce che vengano selezionate le isti-

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8. Non vengono affrontati altri temi pur assai rilevanti: le connessioni tra politica migratoria dell’Italia e le politiche europee; la gestione

dell’irregolarità; le politiche d’integrazione. I punti toccati in seguito hanno notevole rilevanza politica e sono sviluppati in Massimo Livi Bacci (2012). Tuttavia, gran parte delle indicazioni contenute nei punti seguenti, dal primo all’ottavo sono pienamente condivise in FIERI, ISMU e Neodemos (2013).

tuzioni e le organizzazioni abilitate, con attente valutazioni e monitoraggi, e che queste vengano adeguatamente responsabilizzate.

Quarto - Nel quadro della regolamentazione dei flussi d‘ingresso per lavoro, va sottolineata la necessità di stabilire agevoli modalità per la trasformazione dei permessi di studio in per- messi per ricerca di lavoro. Se questo avviene e se nel contempo si incentivano gli arrivi di stu- denti stranieri, si determinano fattori favorevoli al miglioramento del capitale umano del paese. A questo fine concorre anche lo sviluppo delle cosiddette “migrazioni circolari”, per lo più composte da migranti con alti livelli di formazione e di specializzazione, che rafforzano i col- legamenti vitali tra paesi e non depauperano i paesi di origine di preziose risorse umane. Que- sta modalità di immigrazione deve essere resa, oltreché possibile, anche conveniente sia per i lavoratori (ad esempio con la portabilità dei diritti pensionistici) che per i datori di lavoro. Quinto - Con riferimento all’opportunità di rafforzare le componenti della migrazione con buone capacità, professionalità e specializzazioni, possono essere introdotte, su base spe- rimentale e per alcune modalità d’ingresso, procedure di valutazione comparativa, mediante punteggi o altri criteri di sintesi.

Sesto - Caduta nel dimenticatoio la “programmazione triennale” dei flussi, prevista dalla Turco-Napolitano e conservata dalla Bossi-Fini, per qualche anno è sopravvissuto il decreto flussi annuale: un provvedimento solo formalmente in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri, ma di fatto predisposto dal Ministro dell’Interno. Anche il decreto flussi – divenuto col passar del tempo una sorta di sanatoria per irregolari già dimoranti in Italia – è stato so- stanzialmente abbandonato negli ultimi anni. Una riforma urgente consiste nel restituire au- torevolezza, efficacia e condivisione alla politica delle ammissioni e al tempo stesso nel sottrarla, per quanto possibile, a un uso politico partigiano. Va segnalata, a questo propo-

sito, l’ipotesi della creazione di un’Agenzia indipendente9, i cui membri siano designati

dalla Presidenza del Consiglio, approvati dalle Commissioni Parlamentari competenti a mag- gioranza qualificata e nominati dal Presidente della Repubblica. L’Agenzia – che si avvar- rebbe dell’apporto delle istituzioni di ricerca esistenti, delle parti sociali, delle competenti articolazioni dello Stato nonché delle Regioni e delle Autonomie locali – avrebbe il com- pito di proporre al Parlamento e al Governo le linee per la programmazione dei flussi, per la loro articolazione a seconda delle finalità dell’ingresso e della loro composizione. Al- l’Agenzia potrebbero anche affidarsi compiti di consulenza tecnico-giuridica al fine di pre- disporre gli strumenti per il governo del fenomeno, nonché compiti di monitoraggio e valutazione degli effetti delle azioni e delle politiche attuate.

Settimo - Va ulteriormente migliorata la condizione giuridica dei lungo residenti, ammet- tendoli, tra l’altro, all’elettorato attivo e passivo nelle consultazioni politiche locali. Ren- dendoli dunque pienamente partecipi alla vita sociale della collettività nella quale sono

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9. Le Agenzie indipendenti non godono, oggi, di diffuse simpatie. Tuttavia è essenziale che l’indirizzo delle politiche migratorie sia ela-

inseriti. Occorre poi sottrarre alla discrezionalità, rendendolo percorribile, il cammino che conduce alla cittadinanza, fissando con chiarezza i requisiti e i tempi. L’accesso alla citta- dinanza deve diventare l’esito normale – e non eccezionale – del percorso migratorio di chi è orientato a passare la propria vita, assieme ai propri figli, nel paese di adozione.

Ottavo - Infine – ma forse andava detto per primo – è prioritaria la saggia adozione dello jus soli per i nati in Italia da genitori stranieri o per i figli di stranieri nati all’estero ma formati e scolarizzati in Italia. Occorre naturalmente prevenire abusi o improprie forzature, per cui è necessario che uno o ambedue i genitori abbiano un minimo di “anzianità” di residenza le- gale effettiva. Ma si deve imporre chiaro il principio che chi nasce, cresce e vive nel nostro paese non deve soffrire di quel “discrimine” costituito dalla mancanza della cittadinanza. È prioritario per costruire una vera coesione sociale e per attenuare le disuguaglianze tra le nuove generazioni, che ai figli di stranieri sia tolta, almeno, la disuguaglianza giuridica.

1.5 CONCLUSIONI

La debole demografia del Paese è un problema: a livello macro crea diseconomie che si cu- mulano nel tempo. Il Paese rimpiccolisce e non solo rispetto al mondo, ma anche nei con- fronti dei partner europei; la produttività ne soffre; la mobilità diminuisce; l’innovazione trova maggiori ostacoli. Ma la debole demografia è un problema anche a livello micro: le famiglie mettono al mondo meno figli rispetto alle attese e alle loro preferenze, ma nel con- tempo le stesse famiglie sono caricate di maggiori oneri per la lentezza con cui i figli rag- giungono l’autonomia e gli ostacoli che incontrano sul loro percorso.