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Certamente tra le piante più considerate a livello gastronomico rientrano alcuni turioni, ossia i getti giovani di certi arbusti, i quali crescono in primavera, generalmente tra aprile e maggio e che, a seconda della pianta madre, possono essere cucinati in svariate maniere. Alcuni sono tradizionalmente più noti ed utilizzati, altri sono meno avvalorati, perché più rari e difficoltosi da trovare o perché accompagnati da una più ambigua nomea, come i vidisòn e le pesse66, i quali derivano da piante che allo stato adulto sono essenzialmente tossiche.

I bruscàndoi sono i turioni del luppolo, Humulus lupulus, un’erbacea perenne che cresce prevalentemente ai margini del bosco, dunque nel Montello, nelle siepi e nei luoghi incolti. Uno degli informatori, Paolo, mi spiega la valenza di questa pianta, tanto radicata nella coscienza alimentare fin dal passato, perché rientra tra quelle erbe

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B. LORENZON, A piè descalsi. El saver dei noni; cit. p. 105.

65 C. S

PARVOLI, Ricettario trevigiano. Memorie di cucina e tradizioni di una comunità; cit. p. 23.

primaverili che in tempi di fame rimpolpavano le magre diete dei contadini: “Mah, i bruscàndoi se fa da magnàr. Però l’aveva una importanza, in pianura soprattutto, parchè l’era una delle prime erbe che se podéva magnàr dopo l’inverno, in primavera.” Come altri

prodotti locali, dunque, compare

provvidenzialmente all’inzio della bella stagione, quando le già sparute scorte invernali sono agli sgoccioli, e le coltivazioni ancora non danno i loro frutti. Sembrano essere impiegati in varie ricette, spesso con una cottura preliminare di base comune a molte. In proposito intervisto Giuliana:

Invesse i bruscàndoi te pol farli, soffritto coa cipolla, lavadi e taiadi a tochetìn, te pol far, pa far la frittata, pa riempìr le omelette, te pol far el pasticcio, però el pasticcio te consiglie sempre de farlo co un po’ de altre erbe, parché el tende un po’sull’amarotico, el bruscàndol. (…) O risotto o chee robe là. E se no tei lessa, definitivamente, te i lessa del tut e te i magna pa far lessi, insaeàta, da magnàr co i ovi. Se te fa e crespelle te mete nas’ciànta de cipolla soffritto, e dopo te ghe mete un po’ de ricotta in meso, ah.

Un prodotto affine sono i rust o rustigòt, un altro esempio di giovani getti raccolti per vari utilizzi, a mo’ di asparago, e che rispondono, sostanzialmente, ai turioni del pungitopo, il

Ruscus aculeatus, della famiglia delle Liliaceae. I rust, a quanto mi si dice, sono

impiegati in meno pietanze rispetto ai bruscàndoi, a confronto dei quali risultano essere più duri e più amari: “I: Però più o meno te fa e stesse robe? G: No tant, co i rust.”.

Certamente possono essere utilizzati per fare il risotto:

G: Eh, eora co sti qua mi te dise, mi ho fate l risotto, eora i ho lessadi un pochi de minuti, ho mes via la so acqua, ho risciaquadi, sti qua, in maniera de ciaparli pa e man par taiarli a tochetìn, ho fat a cipolla, parchè, eora, col gusto dea cipolla dolce e questi che i è amari, i se sposa ben.

I: Te ha fate el soffritto co a cipolla?

G: Sì, e i se sposa ben, no? Parchè questi i é amari, e a cipolla l’é dolce e la se abina ben. E ho cusinadi, ho assadi ndar un pochetìn, e dopo ghe ho mes dentro el riso, e la so acqua che vee mes via.

I: Quindi te ghe mete sale e pepe?

Ai bruscàndoi, vista la differente consistenza rispetto ai rust, anche nel risotto è riservata una diversa modalità di cottura: non richiedono, infatti, una lessatura preliminare come gli altri, la quale, anzi, potrebbe danneggiarli, ammorbidendoli eccessivamente; sarà, dunque, sufficiente dedicare loro il tempo di cottura necessario a cucinare il riso, al quale verranno incorporati ancora crudi:

I: Ma se te ha da far co i bruscàndoi te fa a stessa procedura?

G: No. Mi, invesse, i bruscàndoi fae direttamente, a crudo. I lave par ben e i mete a crudo.

I: Ah, ok. No te i fa lessàr, prima?

G: No, ah. Te podarie far anca cussita ma me par mi che, no so, i perde el gusto. Mi i lesse se i fae co i ovi lessi, ah. El risotto invesse i me ha insegnà cusita, coi rust.

Sia gli uni che gli altri possono essere semplicemente lessati e conditi a piacere, trattati come dei normali asparagi, e come loro saranno serviti, come tradizione vuole, in accompagnamento a delle uova sode. Secondo Giuliana, un trucco per ammorbidire e addolcire ulteriormente i rust, in previsione del loro impiego in cucina, sarebbe quello di lasciarli a bagno in un po’ d’acqua per tutta la notte precedente al loro utilizzo: “Te i mete a bagno su na cìcara67 de acqua, tant cusìta, che lori i assorbe l’acqua, cussì intanto i se adolcise, come, ciapando l’acqua.”

A quanto lei mi riferisce un modo per conservare questi prodotti è quello di metterli sott’olio:

G: E dopo mi ghen ho mes anca soto oio. Scotadi, acqua e aceto.. I: Ah, ecco, ti come eo che te fa?

G: Varda, mi li ho fati anni fa. Par mi te fa bóiar acqua e aceto, aceto bianco, quel pae verdure. Te i scota un pochi de minuti…

I: E quant aceto metetu?

G: De soito, come che fae coi peperoncini, magari te pol metar, no so, tre bicèr de acqua e do de aceto. E un po’ de sal. E dopo te i mete soto oio. Sì, te i scoea e te i assa raffredàr come… co i è fredi te i mete dentro sul vaso e te i mete soto oio, questi. Basta, mi no so altri modi pa farli.

Questo tipo di preparazione, che è adatto a questi turioni non lo è, invece, per i

bruscàndoi, ancora a causa della loro composizione: più morbidi e delicati si

rovinerebbero se bolliti e tenuti a mollo nell’olio: “Sì, parché i se presta. Invesse el bruscandol, ti, co te l’ha scotà l’é fiap. Invese sto qua l’é duro.”

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Anche gliAruncus dioicus, comunemente detti Barba

di capra, sono un prodotto simile e assieme ai due sopra rientra tra i turioni più noti ed apprezzati; a detta di un informatore, però, recentemente risultano essere piuttosto infrequenti e questo fatto sarebbe da imputare alla razzìa fatta senza criterio dai “cercatori” negli ultimi anni, parere, questo, che sembra incontrare consensi: “Quei là, poreti, i è drio marturedarli. No ghe n’é gnanca pì.”

Questi getti giovani, come sostiene un abitante nervesano del Montello, “‘so par Bavaria i li ciama i sussuri”. Per la verità sussuri è il nome dialettale che più ricorre, confermato da parte di informatori che provengono da tutto il comune (Bavaria, Bidasio, Sovilla, Nervesa). Altri termini dialettali coi quali sono designati sono èrba

canona e sparasine, oltre ad spàrago selvarego, altro epiteto col quale sono indicati da

alcuni, ma che non tutti gli informatori convengono nell’associare a loro piuttosto che ad altri tipi di turioni. Per quanto mi viene riferito questo tipo di getti viene consumato prevalentemente lessato, fungendo da contorno ad altre portate:

I: Ma se te ha da far i sussuri, come i fatu? Se fea el risotto anca co quei? G: No, se i magnea lessi.

Il Tamaro, Tamarus communis, è una pianta rampicante del sottobosco, le cui bacche “di sapore acre e irritante (…) sono tossiche per l’uomo”68

; anche i suoi turioni, invece, sono commestibili e vengono indicati con l’appellativo dialettale di pesse, che si rifà al sostantivo singolare pessa, con il quale in dialetto veneto si vuole

indicare il moccio, il muco69. Questo accostamento, apparentemente poco stimolante, non è casuale ma richiama il carattere viscido al tatto di questi prodotti: “No, la pessa la è come bruscàndol, però l’e liscio. El gambo l’é liscio. I ghe ciama pessa parché l’é un po’ slìpido, atu capì?”. Secondo Rodolfo, oltre a derivare da una pianta tossica, sono particolarmente amari e per questo necessitano di qualche accorgimento particolare prima di essere utilizzati in cucina:

68 AA.VV., Cercatutto. Frutti selvatici, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1975; cit. p. 130. 69 E. B

Bisogna tor su i geti primaverii parché dopo el deventa tossico, l’é na pianta tossica. A fa e baete, dopo, rosse, e l’é na pianta che a va su, torno chealtre, tipo torno e cassie, torno altre piante; a se torciliea su e a setembre a fa i fruti, che le e baete verdi all’inissio e dopo e vien rosse, a settembre. E l’é na pianta tossica, di per sé. (…) Però i e molto amari. Eora bisogna cusinarli ben, logico, no? No i va crudi, cusinai. E dopo i ghe vorie cosai, assai su l’acqua corente, cioè un fià pa cavar via l’amaro, insoma… no l’amaro, chel fià de amaro; parchè no se gheo cava!

Esiste ancora un’altra varietà di getti giovani a volte adoperati in alimentazione, anch’essi provenienti da una pianta sostanzialmente tossica, allo stato adulto: si tratta dei Clematis

vitalba, i vidisòn. Leggo, infatti: “ATTENZIONE

la pianta, in fase avanzata di crescita, è velenosa. Anche i getti giovani vanno consumati con moderazione.”70

Da parte degli informatori mi pare che ci sia meno propensione a ingerire questi ultimi due tipi di turioni, proprio forse per le possibili implicazioni nocive della pianta che li genera. Giuliana mi rivela di aver assaggiato i vidisòn: “Ho magnadi, i è amari. Te i trova sul Montèl. I e come i bruscàndoi però i é lisci, no i é peosi.” Un fatto curioso è che a questo prodotto naturale il poeta Andrea Zanzotto ha voluto dedicare un suo componimento, che ha presentato nella raccolta “Sovraimpressioni”71

in una duplice veste: quella dialettale, che titola “Parchè che no posse dirghe vidison”72

e una in lingua italiana, che prende appunto il titolo di “Perchè non posso chiamarli vidison”73:

Le vitalbe sono

come ostinate e cattive, le vitalbe non sono

che per farne fascine e faville. Per questo i fiori ‘vitalba’ mi tocca chiamare, e basta. Non so cos'abbiano a che fare

loro, soffiati in vetri di ben altra casta.

70 F. D

A BROI, Il prato è servito, Nervesa, Tipografia Livotto, 2009; cit. p. 37.

71

A. ZANZOTTO, Sovraimpressioni, Milano, Mondadori, 20012.

72 Ivi, p. 114. 73 Ivi, p. 115.

Le vitalbe soffocano e si aggrovigliano come serpi e bisce e capelli pazzi che gridano, non lascian posto a niente che non sia loro per boschi e torre, nel buio e nei colori. Almeno in tre lingue frenarla

e scongiurarla questa pianta si deve (senza sperare di riuscirle a farcela) Travellr's Joj, Clematis, Waldrebe.

Le vitalbe appaiono anche in un’altra poesia di questa pubblicazione, ossia nel componimento “Manes, ribellioni, vitalbe”74

e del resto il poeta aveva dedicato alla selva montelliana un’intera raccolta, “Galateo in bosco”75, “ambientata nella collina trevigiana Montello alla quale Zanzotto è così affezionato.”76

Come si è visto, dunque, alcuni di questi germogli sono più utilizzati in cucina, altri meno; se alcuni rientrano da sempre nell’alimentazione tipica del luogo, ad essersi affinato, invece, è l’impiego in ricette più elaborate, a volte sperimentali. Fino alla metà del secolo scorso, infatti, come si è già detto, queste piante erano inserite nella cornice di un’economia di sussistenza, in un contesto di risorse limitate, dove la prerogativa essenziale non era che il cibo fosse gustoso e tantomeno presentato in maniera appetibile: “Se c’è un leit-motiv, nell’affresco dipinto in questo viaggio nella memoria, è il rapporto utilitaristico, e non certo edonistico, che avevano le nostre genti con il cibo”77

; in questa circostanza i giovani getti, come il resto, venivano cucinati nella maniera più semplice possibile, nella fattispecie lessati; parlo con un’informatrice del periodo antecedente alla seconda guerra mondiale: “I: E i bruscàndoi e i aspàragi? Come se i magnea? M: Lessi, con olio. Buoni, sempre stati.” Nella stagione successiva, il raggiungimento di nuove soglie di benessere si riflette anche nell’ambito culinario e la cucina essenziale, di sussistenza, basata su criteri di semplicità ed economia che aveva caratterizzato la stagione rurale e contadina, si evolve in un’arte culinaria più ricercata, che può permettersi di sbizzarrirsi e cercare nuovi sapori ed accostamenti. Giuliana, per esempio, mi parla di una ricetta che vede un abbinamento di bruscàndoi e gamberetti, non certo comune, almeno fino a qualche decennio fa:

74

Ivi, p. 63.

75 A. Z

ANZOTTO, Galateo in bosco, Milano, Mondadori, 19793.

76 L. M

ARCONATO, Sovraimpressioni su Sovraimpressioni. Analisi testuale del libro Sovraimpressioni di

Andrea Zanzotto, issuu.com/lucamarconato/docs/sovrimpressioni_su_sovrimpressioni; (Consultato ad

aprile 2012); cit. p.8.

77 C. S

E dopo mi, invesse, i bruscàndoi, vee trovà na ricetta, ma quee l’é nove, de farli, mi ghe n’é anca messi in congeatór, scotadi appena appena e messi in congeatór, co te i tira fora te i fa lessi, oppure te i fa in padea co i gamberetti e un po’ de panna. Ma, pense, no a è na ricetta tradissionae. So che na volta l’ho fata, l’é vegnesta bona.