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Gigantomachia Liberazione di Prometeo Fatica VIII: le cavalle di Diomede

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[Apoll.] II 7.1 pone la partecipazione di Eracle alla Gigantomachia al ritorno dalla spedizione contro Laomedonte (Diod. IV 32 e 49), dopo il saccheggio di Cos (identica successione dei fatti in Hes. fr. 43a 55 ss. M-W). Sui Giganti, cfr. già Od. VII 59, 206; X 120 (esseri semidivini, al pari di Feaci, Ciclopi e Lestrigoni: vd. Paus. VIII 29.2). Omero non conosce il mito della Gigantomachia (così Schol. in Od. VII 59), attestato da Hes. fr. 43a 65 M-W; Xenophanes 21 B 1 21 D-K; Pind. Nem. I 67 s. Autori successivi si riferiscono spesso alla leggenda, anche se alcuni non sembrano distinguere fra Giganti e Titani, anch’essi figli di Urano e Gea, e sovrappongono il mito della Gigantomachia a quello della Titanomachia (i Giganti sono confusi con i Titani ad es. in Hor. Carm. III 4.42 ss.: per lo scambio non raro presso gli antichi, cfr. VIAN 1952, 169-174). Secondo [Apoll.] I 6.1-2, adirata per la sorte subita dai Titani, Gea partorì a Urano i Giganti, smisurati e terribili, con una grande chioma e una lunga barba, e con i piedi ricoperti da squame di serpente. Nati a Flegra o, secondo altri, a Pallene, attaccarono gli dèi con massi e querce infiammate (per Flegra, Pallene e le varie localizzazioni della Gigantomachia, cfr. nota a IV 21.7). Un oracolo diceva che nessuno dei Giganti poteva perire per mano di un dio: sarebbero morti solo se con gli dèi si fosse alleato un mortale. Saputo questo, Gea si mise alla ricerca di un’erba magica per impedire che i Giganti fossero uccisi da un uomo. Ma Zeus con uno stratagemma tagliò per primo quell’erba, quindi mandò Atena a chiamare Eracle. Segue la descrizione di una serie di duelli fra dèi e Giganti, che vengono uccisi uno dopo l’altro. Alcuni di loro vengono sepolti sotto isole (vulcaniche) o annientati da Zeus col fulmine. Per l’appunto, fenomeni vulcanici e sismici, oltreché il ritrovamento di ossa fossili di grandi animali preistorici, sembrano aver dato origine a leggende di questo tipo (FRAZER-GUIDORIZZI 1995, 196; vd. AMIOTTI 2003). Sul mito, ancora fondamentale VIAN 1952; vd. anche VALENZA MELE 1979, 24 ss.; VIAN 1985. Dal forte potenziale metaforico, la Gigantomachia fu utilizzata per rappresentare sul piano simbolico lo scontro fra civiltà e barbarie, con importanti risvolti a livello politico. E’ un tema molto popolare nella pittura vascolare e nella scultura. Fra gli edifici più celebri che recavano

fregi scolpiti, frontoni o metope con raffigurazioni del mito, il Tesoro dei Sifni e il tempio di Apollo a Delfi, il Partenone, l’altare di Pergamo: MOORE 1977; CROISSANT 1993; SCHWAB 1996; WHITAKER 2005; MASSA-PAIRAULT 2007.

Quanto ai Giganti, Diodoro li ricorda, oltre che a Pallene (IV 15.1; V 71.4) e nella pianura Flegrea o Cumana (IV 21.5; V 71.4), anche a Creta (V 71.2-3) e a Rodi (V 55.5). Inoltre, a III 70.6 afferma che Gea, irata perché Atena aveva ucciso sua figlia Egida, mandò all’attacco i Giganti, quelli che più tardi saranno uccisi da Zeus e dagli altri dèi. A IV 21.5, prob. sulla scorta di Timeo, ne fa degli “uomini estremamente forti, divenuti celebri per il disprezzo della legge”

( ).

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Figli di Gea secondo Hes. Theog. 185, nati dal sangue che cadde sulla terra dopo l’evirazione di Urano (vd. poi ad es. E. Herc. 178 s., Schol. in Lyc. 63, ecc.); per , cfr. ad es.

Batrachomyomachia 7 ; S. Tr. 1058 s. ; E. Cyc. 5, Ion 987 (la Gigantomachia è definita

); Lykophr. 127 ; ecc. Per una spiegazione

razionalizzante dell’appellativo, Diod. IV 21.7 (“i miti raccontano che i Giganti erano figli della Terra in ragione delle loro straordinarie dimensioni fisiche”).

15.2

Prometeo, figlio del Titano Iapeto (Diod. V 67 2; cfr. [Apoll.] I 2.3; designato col patronimico

Iapetionides già da Hes. Theog. 528, ma non sempre, poi, la sua genealogia è coerente), aveva

rubato il fuoco agli dèi e l’aveva portato agli uomini in un gambo di narthex (vd. nota a IV 4.6-7); era considerato un benefattore del genere umano e proprio in quanto euerghetes Eracle lo salva ( ). Per la sua liberazione, cfr. ad es. Hes. Theog. 527-529; A. Prom. 871-873; Herodor. FGrHist 31 F 30; Hyg. Fab. 144; Paus. V 11.6. Al mito era dedicata una tragedia eschilea, il Prometeo liberato, di cui sopravvivono scarsi frammenti (frr. 190-204 Radt). In [Apoll.] II 5.11 Eracle libera Prometeo nel corso della Fatica relativa alle mele delle Esperidi (XI in [Apoll.], XII in Diodoro, cfr. IV 26.2 – 27; sui problemi esegetici e testuali che il passo dello Pseudo-Apollodoro comporta, vd. SCARPI 1996, 519 s.). In cambio della propria salvezza, il Titano avrebbe fornito all’eroe dei consigli su come impadronirsi delle mele (Pherecyd. FGrHist 3 F 17: gli avrebbe detto di non andare lui stesso a prendere le mele, ma di mandare Atlante dopo essersi sostituito a lui nel sorreggere la volta celeste). Diodoro non narra per esteso la storia di Prometeo, ma di due episodi offre altrove un’interpretazione razionalizzante: a V 67.2 del furto del fuoco (in realtà Prometeo avrebbe scoperto i materiali con cui accenderlo) e a I 19.1-3 dell’uccisione dell’aquila (la leggenda secondo cui Eracle eliminò l’aquila che mangiava il fegato di Prometeo deriverebbe dalla trasposizione mitica dell’impresa compiuta dall’eroe allorché riportò dentro gli argini il fiume

Aetos - così per la sua violenza era stato chiamato il Nilo - che aveva inondato la zona

dell’Egitto di cui Prometeo era sovrintendente; un racconto analogo è dato da Agroitas,

FGrHist 762 F 4).

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La rupe cui Diodoro fu incatenato era di solito localizzata nel Caucaso (cfr. Diod. XVII 83.1).

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L’aquila sarebbe nata da Echidna e Tifone secondo [Apoll.] loc. cit.

] Per questa Fatica, cfr. ad es. Pind. fr. 169a S-M (papiro di Ossirinco molto lacunoso: CASTAGNA 1971; LLOYD-JONES 1972; cfr. KURTZ 1975); E. Alc. 481-506, Herc. 380-388; Sen. Ag. 842-847; Hyg. Fab. 30.9; [Apoll.] II 5.8; Ael. NA XV 25; Quint. Smyrn. VI 245-248. Nel resoconto dello Pseudo-Apollodoro, Diomede di Tracia (terra tradizionalmente connessa con i cavalli: basti ricordare che i Traci sono detti “allevatori di cavalli” già in Il. XIII 4, XIV 227), figlio di Ares e re dei Bistoni (cfr. E. Alc. 498; re dei Ciconi presso la palude Bistonide secondo Pind. loc. cit.), possedeva delle cavalle antropofaghe (il loro numero non è precisato, ma E. Alc. 483 parla di un carro tirato da quattro cavalli; quattro di solito se ne contano nelle raffigurazioni di età romana, LIMC, V 1, s. v. Herakles, 69 e 71; Igino ne indica i nomi: Podar<g>us Lampon Xanthus Dinus); quando Eracle se ne impadronisce, i Bistoni accorrono in armi; l’eroe affida le cavalle ad Abdero, figlio di Ermes, locrese di Opunte e suo amasio, che però viene da loro sbranato; allora Eracle, sbaragliati i Bistoni e ucciso Diomede, fonda la città di Abdera presso la tomba dell’amasio (per la tradizione che associa l’impresa alla fondazione della colonia, cfr. Hellan. FGrHist 4 F 105; Strab. VII frr. 43, 46; Philostr. Imag. II 25; vd. inoltre Pseudo-Scymnus 666-670).

Diodoro racconta che Eracle getta in pasto alle bestie il loro stesso padrone

( ), rendendole docili dopo aver soddisfatto in tal modo il

loro bisogno di cibo. In questa occasione, l’Eracle diodoreo sembra agire all’insegna della violenza più spietata, ma la sua ferocia è volta comunque alla soppressione di componenti “anomiche”, quali la barbarie di Diomede e la bestialità delle cavalle antropofaghe, inconciliabili con la legge della cultura che egli viene affermando. Eracle s’identifica, in ultima analisi, col nomos inteso come “norma culturale”, laddove Diomede è per Diodoro

colui che aveva insegnato alle cavalle a violare il nomos ( ).

Per il ruolo del cavallo in questa e in altre imprese di Eracle, cfr. BADER 1998; la Fatica adombrerebbe la fase storica dell’addomesticamento di questo animale secondo BADER 1985, 18, 58 ss.

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In Diodoro, quindi, Eracle consegna le cavalle a Euristeo che le dedica a Era. Secondo lo Pseudo-Apollodoro, invece, Euristeo le lascia libere: esse raggiungono il monte Olimpo dove muoiono sbranate dalle fiere. Secondo Igino, i cavalli vengono uccisi, come Diomede, da Eracle con l’aiuto di Abdero (Diomedem Thraciae regem et equos quattuor eius, qui carne

humana uescebantur, cum Abdero famulo interfecit; cfr. Ov. Met. IX 196; Quint. Smyrn. VI

247 s.). Li possiede Chromis figlio di Ercole in Stat. Theb. VI 346-349.

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La razza delle cavalle di Diomede, consacrate a Era da Euristeo, permane fino ai tempi di Alessandro il Macedone. E’ uno di quei collegamenti fra realtà e leggenda cui Diodoro ricorre nell’intento di storicizzare il mito, cfr. Introduzione.

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Cfr. Diod. IV 40-56.