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Capitolo 4. L’opinione degli esperti

4.2 Giornalismo

4.2.1 Giovanni Viafora

Giovanni Viafora dal 2008 lavora presso il Corriere del Veneto (gruppo Rcs), dal 2015 svolge le funzioni di vicecaporedattore.

Quali sono le sfide attuali che il mondo dell'informazione deve affrontare? Attualmente c’è una sfida enorme da affrontare. Con l’avanzare dei social network, e più in generale di Internet, si è imposta di fronte al mondo dell’editoria la questione legata al pagamento dell’informazione, alla remunerazione del lavoro del giornalista e dei prodotti editoriali. Anni fa è stato fatto l’errore di considerare Internet come una piattaforma nel quale l’informazione potesse circolare liberamente: una situazione che ha distorto tutto il sistema perché ormai su Internet ciascuno crede di poter usufruire dell’informazione in maniera libera e gratuita;

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inoltre, sono proliferate innumerevoli fonti di informazione più o meno credibili e corrette. In questo modo l’editoria e il giornalismo hanno perso il ruolo di filtro dell’informazione, e l’hanno praticamente regalato. Il punto è che l’informazione è un bene primario e fondamentale, ma il diritto a informare e a essere informati è fortemente a rischio. Il giornalismo non riesce più a imporre le proprie regole e a sopravvivere, perché purtroppo su Internet è tutto gratuito e la gente crede che l’informazione non costi. La grande sfida è tornare a mettere al centro l’informazione, a far sì che si capisca che l’informazione è un bene prioritario. L’informazione deve tornare ad essere un’attività remunerativa, perché se dovesse scomparire gli effetti a livello sociale e politico sarebbero devastanti.

Secondo lei i social network sono una minaccia o un'opportunità per il giornalismo? Credo che siano una grandissima opportunità; purtroppo, però, molto spesso le aziende editoriali hanno sottovalutato la portata del fenomeno dei social network. Essere presenti sui social network per i giornali, e per l’informazione in generale, è fondamentale; non bisogna avere il preconcetto e il pregiudizio che siano qualcosa di negativo. Inoltre, è vero anche il contrario, i social network sono importanti per i giornali come fonte di informazione. I social network rappresentano un’opportunità per due motivi: come capacità di esserci e di proporsi e come fonte di informazione.

Come vede il fatto che le aziende stanno diventando sempre più produttrici di contenuti, arrivando a definirsi come degli “editori”? Questo è un fenomeno interessante, è già da diversi anni che le aziende hanno capito che una semplice pubblicità pagata e messa su un giornale a caso ottiene un impatto relativo. Per le aziende, l’idea di comunicare direttamente un messaggio o una storia, è sempre stato un obiettivo, una volontà; si è sempre capito che il racconto, l’epopea e la narrazione avessero una forza assolutamente maggiore della pubblicità. Io la vedo molto naturale come cosa, a cui bisogna però prestare molta attenzione.

Cosa ne pensa del brand journalism? Il brand journalism si rifà all’idea che le aziende hanno capito che sia necessaria non solo la pubblicità fine a sé stessa, ma

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anche la narrazione; e chi meglio dei giornalisti può aiutare a svolgere questa operazione? Il brand journalism non è un male in senso assoluto, però è sempre bene tenere separate le due cose: un conto è il brand journalism e un conto è l’attività giornalistica in senso stretto, che deve essere tenuta distinta e separata in modo molto chiaro. È chiaro che l’azienda paga per avere dei riscontri propri: l’obiettivo dell’azienda non è l’informazione ma è quello di avvicinare la gente al marchio.

Secondo lei un giornalista che lavora per un'azienda può essere considerato un giornalista? Chi lavora per un’azienda può utilizzare gli strumenti e le capacità del giornalismo, però non è un giornalista in senso stretto, non può esserlo assolutamente. Cambia proprio l’obiettivo a cui si punta: io credo che l’obiettivo di un giornalista sia quello di portare la luce nei punti oscuri della società; un giornalista che lavora per un brand, invece, fa altro, non ha questo obiettivo. Io credo sia un “altro” lavoro.

Cosa ne pensa del native advertising? Crede che si possa definire una pratica etica? Secondo me è una forma etica fino a quando viene ben distinta: deve essere chiara, e messa bene in evidenza, la natura commerciale dell’operazione. Il punto è questo: se non si distingue non è etico, se si distingue è etico, e può essere anche una forma positiva di promozione e anche di giornalismo. Bisogna indicare chiaramente “chi c’è dietro”, una cosa che dovrebbe valere per tutto, anche per i giornali. I giornali non sempre indicano chiaramente chi è il proprietario, bisognerebbe essere onesti intellettualmente e far sapere al lettore chi è che paga e sovvenziona l’informazione. Tutto ciò che è trasparente, chiaro e lineare è etico; molto spesso i giornali nascondono forme di pubblicità in articoli redazionali, che confondono il lettore. Il native advertising è un operazione molto interessante che può portare anche un introito per i giornali. Il fatto curioso è che una volta le aziende facevano pubblicità sui giornali comprandosi un pezzo del giornale mettendoci dentro il loro marchio, adesso è il contrario, si utilizza l’esperienza del giornale per raccontare l’azienda.

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Edelman una delle agenzie di relazioni pubbliche più famose al mondo, ogni anno pubblica una ricerca intitolata Edelman Trust Barometer, che indaga la fiducia delle persone nei confronti della politica, dei media, delle aziende e delle ONG. Dalla ricerca risulta che la gente si fida di più delle informazioni fornite dalle aziende che dai media, secondo lei perché? Credo che sia un problema legato alla credibilità degli organi di informazione. In questi anni i giornali hanno perso moltissimo in termini di credibilità, un po’ perché hanno dimenticato le proprie regole e l’importanza del valore che hanno all’interno della società. Hanno perso un po’ anche orizzonte per via di Internet e dei social network, i giornali si sono messi a rincorrere quello che su Internet e sui social passava, in una caccia forsennata ad attrarre il lettore, tramite il clickbaiting e anche tramite un engagement ossessivo. Inoltre, c’è il problema della crisi di tutti gli organi intermedi, come i sindacati, i politici ma anche la Chiesa. Occorre recuperare credibilità, occorre far sì che il giornalismo venga visto di nuovo come un percorso fondamentale per il valore della notizia; questo però lo devono recuperare i giornali, seguendo le regole del giornalismo, che sono poche ma molto difficili da seguire.

In futuro si andrà sempre più verso la contaminazione tra giornalismo e

comunicazione pubblicitaria oppure resteranno ambiti separati? La

contaminazione continuerà sempre più, ma la cosa fondamentale è la chiarezza e la distinzione: il giornalismo è una cosa ben precisa, la pubblicità è un’altra cosa. Chi vuol fare il giornalista deve seguire le regole che ci sono; il giornalismo tornerà ad essere importante solo se tornerà a fare il cane da “guardia della democrazia”, portando la luce laddove la luce non c’è. La pubblicità, invece, deve fare un’altra cosa.

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