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I. 2 7 Stato attuale della questione

II. 1 I L GIUDIZIO DI G ROZIO

Il giudizio di Grozio

Abbiamo visto come Noel Malcolm, messo davanti alla necessità di discutere l'attribuzione del Colloquium Heptaplomeres dal punto di vista linguistico, si sia tratto d'impaccio rimandando il lettore al giudizio di Ugo Grozio. Quest'ultimo, in quanto fine intenditore di stile latino (a noted latin stylist) sarebbe particolarmente attendibile, e il parere da lui espresso dovrebbe perciò essere sufficiente per fugare ogni dubbio sul carattere genuinamente bodiniano del dialogo, almeno sotto l'aspetto formale115. Malcolm fa bene a giudicare Grozio particolarmente degno di fede in questo ambito: è chiaro che chi coniuga una pratica attiva del latino col rigore filologico acquista un particolare fiuto in materia di lingua e stile116. Poiché però ci proponiamo di studiare il Colloquium

Heptaplomeres in un'ottica linguistica e letteraria, è opportuno che esaminiamo

la questione più a fondo, sottoponendo il giudizio di Grozio ad un'analisi particolareggiata, che ne metta in luce tutte le implicazioni e le confronti con quanto emerge dallo studio stilistico dell'opera.

Nel febbraio del 1622 Grozio era ad Amsterdam, e in una lettera a Giovanni Cordesio117, una sua conoscenza di Parigi, scrive Bodini opus supremum estne ut

116 Sul rapporto tra pratica attiva della lingua Latina e padronanza passiva della stessa cfr.

J. Leonhardt, Latein: Geschichte einer Weltsprache, München 2009 pp. 283-292.

lucem speret118? Grozio si era ritrasferito in patria nell'autunno dell'anno

precedente, ma nel giro di pochi mesi era stato nuovamente costretto ad abbandonarla, e aveva deciso di stabilirsi in Germania. Da lì nel 1634 prega Cordesio di inviargli a Francoforte, attraverso il libraio Cramoisy, una copia del

Colloquium Heptaplomeres. In quel momento Grozio stava infatti raccogliendo

materiale per il De veritate religionis Christianae e voleva passare al vaglio le tesi di chi combatteva o comunque criticava il cristianesimo. Grozio ricevette il manoscritto da Cramoisy nell'autunno del 1634, e poco tempo dopo inviò a Cordesio una lettera in cui esponeva le proprie impressioni:

Bodinum in illo ad me misso opere agnovi, qualem existimavi semper, hominem rerum quam verborum studiosiorem, Latinitate utentem haud plene nitida, metricarum legum pueriliter imperitum, Graecis literis vix imbutum, Hebraicorum morum ac sententiarum satis gnarum, non ex interiore linguae illius cognitione, sed ex amicitia quam coluit cum doctissimis Hebraeorum.119

"Nell'opera che mi hai mandato ho riconosciuto Bodin, e corrisponde all'idea che ho sempre avuto di lui". Quali sono gli aspetti deli Colloquium in cui Grozio ravvisa lo stile di Bodin? Sono cinque: li elenco qui sotto, riservandomi di discuterli singolarmente nelle pagine che seguono.

Bodinum agnovi:

1) hominem rerum quam verborum studiosiorem 2) Latinitate utentem haud plene nitida

3) metricarum legum pueriliter imperitum 4) Graecis litteris vix imbutum

118Hugonis Grotii Epistolae quotquot reperiri potuerunt, Amsterdam 1687, p. 106b. 119 Ibid. p. 127a.

5) Hebraicorum morum ac sententiarum satis gnarum, non ex interiore linguae illius cognitione, sed ex amicitia quam coluit cum doctissimis Hebraeorum.

Vediamo dunque di analizzare questi cinque punti. Per comodità, assumo in via sperimentale che il Colloquium Heptaplomeres sia opera di Bodin, in modo da poter verificare in che misura ciascun passaggio di questo giudizio si attagli al dialogo in relazione alle opere la cui paternità è indiscussa.

Prima di addentrarci nella discussione dei singoli passaggi, dobbiamo ricordare che i giudizî di stile espressi da un autore latino su un altro, specialmente in epoca umanistica e postumanistica, devono essere considerati nel loro contesto, in quanto essi riflettono - molto di più di quanto non accada nelle lingue moderne - la formazione, le idee e i pregiudizi linguistici di chi li esprime. Lo stesso giudizio pronunciato da un Erasmo (poniamo liber lepidus,

sed parum Latinus) può assumere un significato del tutto diverso se lo

immaginiamo in bocca a Bembo o a Sadoleto. Se prendiamo per esempio il secondo punto, Latinitas haud plene nitida ci accorgiamo che questa affermazione è abbastanza difficile da comprendere, in quanto contiene un traslato - e bisogna verificare in che senso è impiegato -e una negazione, che può essere intesa come oggettiva o eufemistica. Mi sembra perciò che questa frase possa designare:

a) un latino poco corretto ma fluido (se parum nitidus è eufemismo per

inemendatus)

b) un latino corretto ma poco fluido (se parum nitidus nasconde un

dissolutus, horridus, inelegans)

c) un latino corretto e fluido, ma che manca di ornatus. (nei manuali di retorica nitidus è sinonimo di ornatus)

d) un latino corretto, fluido e ornato, ma non abbastanza "puro" (se il

nitor rimanda alla sinceritas del latino ciceroniano).

La questione da affrontare preliminarmente è quindi la seguente: che modello di latino seguiva Grozio, a che autori si rifaceva, quali erano i suoi maestri?

A Leida Grozio era stato allievo di Giuseppe Giusto Scaligero, e al suo insegnamento rimase a lungo fedele: è verosimile che l'austero ciceronianesimo del maestro, il suo ideale di oratio pura, casta, Romana - riflesso della sua indole cupa e virile piuttosto che di pedanteria o di edonismo stilistico alla Bembo- abbiano avuto una certa influenza sul giovane Grozio, che infatti sviluppò col passare degli anni il gusto per una prosa sobria e pulita; l'altro modello di pensiero e di stile che Grozio seguì per tutta la sua vita fu Erasmo, col suo latino libero e arioso. I frutti più maturi dell'arte di Grozio prosatore li possiamo osservare nel De iure belli ac pacis (edito nel 1625) la cui prosa limpida fluisce per oltre ottocento pagine senza inceppamenti. Anche se la prosa di quest'opera tende più al rigore scaligeriano che alla fresca scioltezza del latino di Erasmo, Grozio non eccedette mai nel suo ideale classicistico. Le sue prime opere (p.es.

Parallelon Rerumpublicarum, Mare liberum) accolgono scientemente molti

vocaboli tecnici e per nulla aurei, e nello stesso De iure belli ac pacis ci sono molti punti in cui egli si distacca volontariamente dal latino ciceroniano, e questo non solo dove ciò è richiesto dalla tecnicità dei temi affrontati120, ma anche in passaggi dove sarebbe stato possibile ricorrere al sinonimo classico121. Questo quindi è un primo aspetto che va fissato: Grozio è un prosatore di impronta

120 Come in I 1, 3: Ad iuris autem naturalis intellectum notandum est quaedam dici eius iuris non

proprie, sed ut scholae loqui amant reductive; ibid I 1, 2 iura realia... alia personalia.

121 Considerando solo i prolegomena, troviamo termini per nulla aurei come tractatio nel

decisamente classicistica, ben lontano però dalla pedanteria del ciceronianesimo di stretta osservanza.

Il secondo aspetto da mettere in chiaro prima di passare all'esame del giudizio di Grozio riguarda le sue doti poetiche. Grozio era particolarmente versato nella composizione di poesia Latina: già in tenera età raggiunse un altissimo grado di competenza, se non altro tecnica, nell'uso dei metri più varî. Ben presto egli si procurò la fama di bambino prodigio122: a undici anni era già all'altezza di comporre epitalamî formalmente impeccabili. Grozio coltivò quest'arte fino in età avanzata, quando riuscì nell'impresa in cui molti prima di lui avevano gettato la spugna123: tradusse l'intero corpo dell'Anthologia Graeca in versi Latini.

Partendo da questa prospettiva, ci risulta più facile affrontare il punto tre (Bodinum... metricarum legum pueriliter imperitum).

Se leggiamo attentamente gli scampoli poetici contenuti nel Colloquium, è facile ravvisare degli errori metrici.

Consideriamo per esempio gli esametri che Salomone dice di aver composto mentre era rapito dal divino afflato:

O quis erit sceleris purus? quis crimine liber Ante Deum? cui sol obscuro squallet amictu! Mundities illi tanta est, ac tantus in ore Majestatis honos, ut ei nitidissima quaeque

Aligerum facies tabe polluta notetur. O ter sancte parens!

122 A questo proposito cfr. di Eyffinger, Grotius poeta, Den Haag 1981 p. 72 e Arthur

Eyffinger, Hugo Grotius: poet and man of letters, in "The world of Hugo Grotius, proceedings of the

international colloquium organized by the Grotius comitee of the royal nederlands academy of arts and sciences", Rotterdam 6-9 April 1983, pp. 83-95, Amsterdam 1984.

o non violabile numen Aeternae mentis, cujus tam augusta potestas!124

Qui balza subito agli occhi l'avverbio ei che, a parte il fatto di essere una parola del tutto impoetica (in poesia classica non si trova mai), è scandita in maniera scorretta: affinché il verso funzioni, deve essere letto come composto da due sillabe, di cui la prima breve e la seconda lunga, il che secondo la metrica latina non è ammissibile. Segue, nel verso successivo, un altro errore:

tabe dovrebbe avere la a breve, ma viene trattata come lunga.

I faleci pronunciati da Ottavio contro la dottrina del peccato originale sono pure alquanto singolari:

OCTAVIUS: Me quidem istius opinionis indignitate et peccati ficta propagatione commotum, divina mens nescio quomodo afflavit, ut flebiles Phaleucos flebili querimonia Christianorum effunderem:

Humani generis querelas Coelestis pater audiit gravate Excusantis originem malorum, Quod primi vapulet parentis ergo, Quodsi nunc redivivus a sepulcris Surgat, sic proba diluet nepotum: Tandem absistite criminatione Inani violare dignitatem

Meam, qui generis parens et auctor Humani meliore stirpe cretus Filios docui viam salutis, Virtutes docui scientiasque Doctrinam quoque liberaliorem, Quam primus didici Deo docente: Quod defleximus a via magistri

Pellecti illecebris cupiditatum, Istud fragilitatis est fatemur, Sunt haec lecta suaviora poma Non ab arbore delectationis. Sed a sensibus eruditiores

Facti, ad poma libidinum fovenda Nec non ad Veneres cupidinesque, Deserta meditatione mentis,

Quae tamen moribunda languisset, Nisi tunc revocaret a magistro Ad verum decus ideae supremae Ut coelestia cogitatione

Quasi pabula veriora mentis Ducerem. Hoc sapientiae latentis Arcanum exhibet arborum figura. Hic me cultus amoris ac timoris Divini cumulavit ac beavit. Hinc cadaverum usibus carentem In altissima templa collocavit. O incredibilem stuporem eorum, Qui tot Iliadas sibi malorum et Contigisse suis calumniantur, Quod fructus vetiti sapore linguam Oblectarimus et palata gustu. Nec patris facinus nocet nepoti, Nec parentibus acta liberorum, Quo minus pariant sibi salutes Divinisque opibus fruantur ipsi. Fraude quisque sua, furore quisque Suo plectimur, ac bono beamur125.

Se il phaleucus per phalecius o phaleceus è spiegabile come un errore di copiatura, qui colpisce la frequenza di versi con le prime due sillabe brevi.

Queste infatti, benché ammesse teoricamente da questo verso, sono rarissime nella poesia Latina (si trovano in percentuali assai basse in Catullo e Marziale), e alle orecchie di un intenditore esse dovevano suonare come gli esametri con clausola spondaica: ammissibili, ma solo come eccezione. Bodin invece sembra assumere che falecii col primo piede uu_ (moribunda languisset, Nisi tunc

revocaret a magistro; quasi pabula veriora mentis) o u_ _ (Inani violare dignitatem; Meam, qui generis parens et auctor; Sed a sensibus eruditiores, suo plectimur ac bono beamur) o _u _ (Filios docui viam salutis, divini cumulavit ac beavit, hinc cadaverum usibus carentem; qui tot Iliadas malorum et...; nec parentibus acta liberorum/quo minus pariant sibi salutes; divinisque suis opibus fruantur ipsi/fraude quisque sua...) siano

una forma del tutto regolare, in ciò dimostrandosi nuovamente metricarum

legum pueriliter imperitus. Qui ad offendere il raffinato orecchio di Grozio

doveva essere anche quel "ad poma libidinum fovenda/necnon ad Veneres

cupidinesque", in cui la citazione catulliana, collocata del tutto fuori contesto,

deve avergli dato l'idea di uno sgradevole rappezzo.

Non fa dunque meraviglia che Grozio, il bambino θαυµάσιος che a undici anni componeva epitalamî per i regnanti europei sorridesse davanti a dei versi claudicanti, costellati di errori così palesi da balzare facilmente agli occhi anche di un lettore d'oggi, dotato anche solo di una conoscenza superficiale della prosodia e della metrica latina. Resta comunque un problema: in che senso questi errori di versificazione risultavano "tipicamente bodiniani"? In che senso, cioè, Grozio può dire a questo proposito Bodinum agnovi qualem semper

existimavi? Viene quindi naturale pensare che Grozio alludesse all'unica

impresa poetica di Bodin: la traduzione in latino dei Cynegetica di Oppiano. Epperò nei quattro libri De venatione Bodin non incorre in errori così grossolani, forse per il fatto che in gioventù, quando compose il carme (pubblicato nel 1530), gli studî di poesia Latina dovevano essere per lui cosa

ben più fresca. Ad ogni modo, anche in quest'opera si ravvisano delle ingenuità che non devono essere sfuggite al raffinato orecchio di Grozio. Per il verso iniziale:

Nunc tibi fortunate cano, orbis nobile culmen

Questo verso, di per sé non errato, presenta però una sinalefe molto dura (cano orbis) che la buona norma prevederebbe di evitare quantomeno nel verso d'apertura.

A pagina otto del de venatione troviamo una cesura tra il terzo e il quarto piede:

Morte frequenter adorti | sunt aprosque feroces

Tali cesure, com'è noto, dividono l'esametro in due emistichi e non sono quindi ammissibili in questo tipo di verso. A pagina 30, troviamo invece una sillaba breve che non s'allunga per posizione davanti al nesso sibilante-labiale:

Dentibus admoveant, tantisper flamina spirant.

Si tratta di un diversivo tipico della poesia latina arcaica, accuratamente evitato nella versificazione classica (salvo pochissimi casi), specialmente nell'ultimo piede.

Uno studio più approfondito porterà forse alla luce altre sviste metriche di Bodin, che possono aver contribuito a formare in Grozio l'idea di uno scrittore latino legum metricarum pueriliter imperitus. Ad ogni modo, i nei che rintracciamo nella versificazione del De venatione non sono nemmeno paragonabili agli errori, palesi e frequenti, che troviamo nel Colloquium Heptaplomeres. Perciò, ai

fini dell'attribuzione, su questo punto il giudizio di Grozio deve essere accettato con riserve126.

Passiamo ora al quarto punto del nostro elenco: litteris Graecis vix imbutum, una frase che, in questo contesto, può riferirsi alla conoscenza sia della lingua stessa che della letteratura Greca. Fino a che punto Bodin conoscesse la lingua Greca non è facilmente verificabile: quasi tutti gli autori Greci ch'egli cita nei suoi scritti erano disponibili al tempo anche in traduzioni Latine, e le sporadiche citazioni dal Greco che troviamo nelle sue opere non ci permettono di farci un'idea del livello di competenza cui l'angevino era pervenuto. È comunque verosimile, considerando l'avanzamento degli studî Greci nella Francia del XVI secolo (i docti Galli erano arrivati a strappare il primato in questo campo agli Itali), che Bodin avesse una conoscenza della lingua Greca non del tutto superficiale. Se qui Grozio intende dire, come credo, che Bodin avesse scarsa familiarità con le bonae litterae Greche, il giudizio è più facilmente spiegabile. Se confrontiamo le opere del giurista di Delft con quelle dell'Angevino, vedremo che le citazioni greche sono frequentissime nei testi del primo, sporadiche in quelli del secondo. Sfogliando le oltre ottocento pagine del

De iure belli ac pacis, ci imbattiamo ad ogni piè sospinto in citazioni in Greco,

spesso molto estese: ne emerge l'immagine di uno studioso dalla memoria fenomenale, le cui letture spaziano in ogni settore della letteratura Greca. Grozio riporta spesso interi scampoli tratti dai poemi epici e da tragedie - traducendole egli stesso in versi latini- che impiega per illustrare le questioni giuridiche, morali, teologiche che affronta di volta in volta. Bodin, al contrario, ricorre raramente a citazioni in lingua: in genere non riporta mai più di una o

126 Secondo Lloyd (Jean Bodin: This Pre-eminent Man of France, Oxford 2017 pp. 36-37), la

critica di Grozio alla scarsa perizia di Bodin in materia di poesia dovrebbe essere intesa, almeno nei Cynegetica, in riferimento alla traduzione eccessivamente libera, che rivelerebbe un'incapacità di tradurre dal Greco rispettando l'ordine dei versi e dell'esposizione.

due parole, e solo se ciò è strettamente funzionale alla trattazione. Nondimeno, nella Methodus egli mostra di aver letto approfonditamente molti storici Greci, esprimendo giudizî assai precisi anche su scrittori poco noti (come Ctesia o Berosso)127. Nel Colloquium le citazioni di autori Greci sono più frequenti, ma si tratta perlopiù di storici, di scrittori ebrei o di padri della Chiesa; i poeti vengono chiamati in causa poco o punto. Probabilmente è questa mancanza di un'erudizione enciclopedica che spinge Grozio a parlare di Bodin come di uno scrittore litteris Graecis vix imbutus. Grozio, che nell'affrontare il tema dello ius

sepulturae128 esordisce citando Dione Crisostomo, snocciolando a distanza di

poche righe brani tratti da Filone, da Giuseppe Flavio, da Sofocle e Euripide, deve aver trovato strano che Bodin, nel discutere temi assai affini, non fosse in grado di fare ricorso alla stessa mole di riferimenti letterarî. È altresì probabile che Grozio, poeta raffinatissimo che in quegli anni attendeva alla traduzione Latina dell'intera Anthologia Graeca, abbia trovato abbastanza ridicolo il carme in onore di Cristo, che nel libro sesto129 Coroneo vuol far passare per opera sua e che è invece una copia di un brano dell'appendice della stessa raccolta, cui Bodin apporta solo qualche cambiamento poco felice130. Ad ogni modo è bene

127 Cfr. Meth. cap. IV de recto historicorum delectu. 128 cap. XIX pp. 446-460.

129 Coll. Hept. p. 295.

sottolineare che Bodin conosceva il Greco abbastanza bene per poter approntare una traduzione autonoma dei Cynegetica di Oppiano. Dunque anche su questo punto abbiamo cercato di spiegare le ragioni del giudizio di Grozio; anche questo però, ai fini dell'attribuzione, è un elemento ben lontano dall'essere probante, dal momento che qui l'eccezione è l'ottima conoscenza del Greco da parte di Grozio, mentre il tipo di dottrina di Bodin non è affatto tale da destare sorpresa, ma è comune alla maggior parte degli autori a lui contemporanei. È possibile inoltre che sull'idea che Grozio si formò di Bodin come di un uomo alieno dalla sapienza Attica abbiano influito i diversi passaggi in cui l'Angevino proietta sugli ateniesi l'immagine romana del graeculus ozioso e fallace131, facendo altrove intendere che ai futili sofismi dei Greci sono di gran lunga

Coll. Hept. p. 359 Χριστὲ θεοῦ τέκνον, τέρεν ἄνθος, ἀένναε µίστα, Κόσµων ἀµφιδρόµων ἐποχούµενε κοίρανε νώτοις Αἰθερίοις, ἀλκῆς ἵνα σοι σθένος ἐστηρίκται, Πάντ ̓ ἐπιδερκοµένῳ καὶ ἀκούοντ ̓ οὔασι καλοῖς. Σὴ γὰρ ὑπὲρ κόσµον τε καὶ οὐρανὸν ἀστεροέντα, Χριστ ̓, ὑπερεκτανύται πολλὴ αἰώνιος ἀλκή, Ἧι ὑπερηωρήσας ὀρίνων φωτὶ σεαυτὸν, 
Ἀενάοις ὀχετοῖσι τιθήνεις νοῦν ἀπέραντον, 
Ὅς ῥα κύεις τόδε πᾶν, τεχνώµενος ἄφθιτον ὕλην, Ἧς γένεσις δεδόκηται, ὄτι σφε τύποισιν ἐδήσας‧ Ἔκ σου ἀπορρεύσαντ ̓ ἁγίων γεννήµατ ̓ ἀνάκτων, Οἳ σε µὲν ἀµφίστασι, κρατίστ ̓, ἔκ σου γεγαῶτες Πεµπόµενοι τῇ καὶ τῇ ὑπ ̓ ἀγγελίησιν, ἕκαστα Πρεσβυγενεῖ διάγουσι νόῳ καὶ κάρτεϊ τῷ σῷ. 
Πρὸς δέ τι καὶ τρίτον ἄλλο γένος ποίησας ἀνάκτων, Οἳ σ ̓ ἄδουσι κατ ̓ ἦµαρ, ἀεὶ µνήσκοντες ἀοιδῆς, Ὅς θανάτῳ ζωὴν, βέλτιστε, βροτοῖσιν ἔδωκας.

Anthologiae Graecae appendix. Oraculum 261 Ἀθανάτων ἄρρητε πατήρ, αἰώνιε, µύστα, κόσµων ἀµφιδρόµων ἐποχούµενε δέσποτα νώτοις αἰθερίοις, ἀλκῆς ἵνα σοι µένος ἐστήρικται πάντ’ ἐπιδερκοµένῳ καὶ ἀκούοντ’ οὔασι καλοῖς, κλῦθι τεῶν παίδων, οὓς ἤροσας αὐτὸς ἐν ὥραις. Σὴ γὰρ ὑπὲρ κόσµον τε καὶ οὐρανὸν ἀστερόεντα χρυσῆ ὑπέρκειται πολλὴ αἰώνιος ἀλκή, ἧς ὑπερῃώρησαι ὀρίνων φωτὶ σεαυτόν, ἀενάοις ὀχετοῖσι τιθηνῶν νοῦν ἀτάλαντον, ὅς ῥα κυεῖ τόδε πᾶν, τεκνούµενος ἄφθιτον ὕλην, ἧς γένεσις δεδόκηται, ὅτε σφε τύποισιν ἔδησας. Ἔνθεν ἐπεισρείουσι γοναὶ ἁγίων µὲν ἀνάκτων ἀµφί σε, παντόκρατορ, βασιλεύτατε καὶ µόνε θνητῶν ἀθανάτων τε πάτερ µακάρων· αἱ δ’ εἰσὶν ἄτερθεν, ἐκ σέο µὲν γεγαυῖαι, ὑπ’ ἀγγελίῃσι δ’ ἕκαστα πρεσβυγενεῖ διάγουσι νόῳ καὶ κάρτεϊ τῷ σῷ. Πρὸς δ’ ἔτι καὶ τρίτον ἄλλο γένος ποιήσας ἀνάκτων, οἵ ῥ’ ἑκὰς ἦµαρ ἄγουσιν ἀνυµνείοντες ἀοιδαῖς οἵ ῥ’ ἑκὰς ἦµαρ ἄγουσιν ἀνυµνείοντες ἀοιδαῖς βουλόµενόν σ’ ἐθέλοντες, ἀοιδιάουσι δ’ ἐσῶδε. Τύνη δ’ ἐσσὶ πατὴρ καὶ µητέρος ἀγλαὸν εἶδος καὶ τεκέων τέρεν ἄνθος, ἐν εἴδεσιν εἶδος ὑπάρχων καὶ ψυχὴ καὶ πνεῦµα καὶ ἁρµονίη καὶ ἀριθµός.

Sulla fortuna moderna del testo in età moderna, cfr. C.O. Tommasi, La preghiera delle

Salamandre: Porfirio, Gabalis, Lévi e Landolfi. Per la fortuna di Theos § Erbse=I 24 Beatrice, in Seng-

Gasparro (edd.) "Theologische Orakel in der Spätantike", Heidelberg 2016, pp. 351-371.

preferibili la severità Romana o l'autorità delle ben più antiche scritture ebraiche132.

Poiché il discorso è caduto sulla visione giudeocentrica della storia, vale la pena di affrontare il quinto punto che abbiamo individuato nella nostra disamina. Bodin sarebbe, secondo Grozio, Hebraicorum morum ac sententiarum

satis gnarus, non ex interiore linguae illius cognitione, sed ex amicitia quam coluit cum doctissimis Hebraeorum: gli riconosce insomma una qualche competenza in

merito alla sapienza ebraica (costumi e γνῶµαι) conseguita però non attraverso una conoscenza approfondita della lingua, ma grazie ai rapporti che intessé con gli studiosi ebrei. Il rapporto di Bodin con la cultura ebraica costituisce una delle questioni più dibattute del suo pensiero, per il quale rimando alla bibliografia specifica133; in ogni caso la giudeofilia dell'Angevino è palese sin dalla Methodus (nonostante le citazione in ebraico siano appena due o tre). Il

Colloquium Heptaplomeres pullula di parole e citazioni in lingua ebraica (escono

perlopiù dalla bocca di Coroneo, di Toralba e, chiaramente, di Salomone), ma si tratta sempre di una parola o di sententiolae, proposte dai sapienti a fini filologici o esegetici: per questo, se sono abbastanza usuali già nei primi libri, si fanno sempre più frequenti a mano a mano che i personaggi si addentrano nella discussione sulle profezie cristologiche. In generale, sembra abbastanza vero ciò che afferma Grozio: si tratta di citazioni abbastanza vulgate, accessibili anche senza una conoscenza della lingua ebraica che si spingesse molto oltre la

132 Ad ogni modo occorre ricordare che Bodin, nella Démonomanie (ed.1580), p. 221

infierisce contro Wier per un errore di greco commesso da quest'ultimo.

133 Per la questione del rapporto tra Bodin e giudaismo cfr. In generale sul rapporto tra

Bodin e l'ebraismo, vedi P. Rose, Bodin and the Great God of Nature. The Moral and Religious

Universe of a Judaiser, Geneva 1980. M.C. Horowitz Judaism in Jean Bodin, in "Sixteenth Century

Journal", 1982, pp. 109-113. M.C. Horowitz, Bodin's Religion Reconsideres: The Marrano as Role

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