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Giuseppe Limone

Nel documento ISLL Papers Vol. 4 / 2011 (pagine 51-99)

Domenico Corradini H. Broussard

Raffaello Sanzio, Sibille e angeli, 1514 Roma, Chiesa di Santa Maria della Pace

Perché filosofo, Giuseppe Limone è poeta e prosatore poetico. E perché poeta e prosatore poetico, Giuseppe Limoneè filosofo.

Se non c’è vera filosofia che non abbia un contenuto poetico, non c’è vera poesia che non abbia un contenuto filosofico. Filosofare poetando e poetare filosofando. Non c’è altro rimedio per evitare le antiche sponde di quella metafisica che sull’«essere» costruendo i suoi concetti li costruisce con freddo calcolo e dalla realtà li allontana per timore che la realtà li contamini e da «universali» li trasformi in «generali» e da «generali» in «particolari»: e non sa che l’«eterno» non sta senza il «transeunte» e il «transeunte» non sta senza l’«eterno», e non sa che senza il «transeunte» l’«eterno» è vuoto e senza l’«eterno» il «transeunte» è cieco. Né c’è altro rimedio per evitare le antiche sponde di quella lirica pura che sulle rime e le assonanze e le allitterazioni costruendo i suoi versi li costruisce sillaba dopo sillaba e fonema dopo fonema come semplici sussurri dell’anima o come sensazioni impressionistiche a cui difetta l’efflorescenza del sentimento, un batter di ciglia e niente più, un grido solitario e niente più, un colpo di tosse e niente più, un fotogramma e niente più, niente più di un

appunto consegnato alle pagine di un diario intimo, uno dei tanti che all’effimero quotidiano si affidano, e vi si affidano nel senso etimologico della parola ephémeros, febbre improvvisa e violenta che un solo giorno dura e poi scompare non lasciando traccia alcuna.

Il filosofare di Limone, volto a rivendicare la centralità della «persona» nella dimensione dell’ontoaxía in cui l’ego prima riconosce l’alter e poi si riconosce e prima pone l’alter e poi pone se stessoe nell’alter prima riconosce la «dignità» che poi si riconosce nel tam quam che ciascuno di noi libera dalle catene di ogni servaggio, si snoda e si annoda secondo pause musicali che l’indicibile dicono, e ora lo dicono con «andante privo di moto» alla Bach e ora con «andante con moto» alla Schubert e ora con «adagio» all’Albinoni e ora con «impeto» alla Liszt. Il poetare di Limone, volto a rivendicare la presenza del Tutto nell’«io» e la presenza dell’«io» nel Tutto in una visione che non è panteistica alla Spinoza o alla Schelling e così non annulla la differenza tra il Tutto e l’«io» ed è invece pancieloantropica e il cielo stellato colloca nell’uomo e l’uomo nel cielo stellato, ha sempre un tessuto narratologico, una fabula o più fabulae che s’intrecciano, e nell’intrecciarsi ciascuna fabula ha una sua autonomia e però in sé non si chiude e in sé non si accastella e fuori di sé si proietta come l’onda sonora del mare che nel tramare e tremare delle onde congiunte si perde e si ritrova.

Tremenda lontananza da Platone e Aristotele e Agostino e Tommaso, che il mondo divisero in due spicchi con una sciabolata capace di dissaldare i gusci delle ostriche e gli spuntoni di roccia dalla roccia, e sul mondo diviso in due spicchi paghi si assisero: là l’alto e qua il basso, là la salvezza e qua la perdizione, là la rosa nel suo lussureggiare e qua le spine e i cardi e le erbe selvatiche.

Tremenda lontananza dall’ermetismo di Ungaretti e Quasimodo e Montale, che da Pascoli venendo per più rami cantarono le loro esperienze esistenziali nel lampo della parola che breve guizza e nel suo breve guizzo arde e si consuma e torna ad ardere in versi morsicati sulle labbra: rosse labbra ferite, rosseggiare di feritoie strette al di fuori e larghe dentro, strette per ripararsi dagli avversi colpi e larghe per appoggiarvi archi e balestre e scoccare frecce puntute nelle coscienze assopite a causa del troppo lungo sonno di pietra su un qualche Olimpo nevoso.

Ascende Limone per aspri sentieri di scoscese montagne. Al cosmo ascende, la forza di gravità con ostinazione combattendo. E là ascende perché prima è disceso nelle regioni e nelle ragioni del dolore, negli abissi del dolore è disceso, del suo e dell’altrui dolore, e l’altrui dolore è diventato in questa discesa il suo dolore. L’«io» ha sofferto per le sofferenze del «tu», ed è la forma più nobile e intensa di sofferenza, l’«io» si è genuflesso paziente come una bestia da soma e la sua schiena ha offerto al carico da trasportare lungo fiumare prosciugate, ed è la forma più nobile e intensa del compatire, l’«io» è giunto dalle fiumare prosciugate alle bocche dell’acqua sorgiva e insieme al «tu» l’ha bevuta, ed è la forma più nobile e intensa del congioire. L’anábasis non è senza la katábasis, il Monte Carmelo non è senza il Mediterraneo. E venite e venite sul Monte Carmelo, lasciate le vostre tavole imbandite per il dio Baal e il dio Asera, venite e vi mostrerò sugli altari l’acqua che dalle brocche cade e purifica e a nuova vita chiama vite che sembravano morte, venite e vi mostrerò il dio di

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Abramo e Isacco e Giacobbe: così il profeta Elia ai quattrocentocinquanta profeti di Baal e ai quattrocento profeti di Asera. E vennero sul Monte Carmelo i quattrocentocinquanta profeti di Baal e i quattrocento profeti di Asera. Ed Elia li sconfisse e nei torrenti a valle li scaraventò scannandoli. E andiamo e andiamo sul Monte Carmelo in compagnia di Limone. Ci dirà che dobbiamo sostare a mezza costa e da lì guardare i sassi e le stelle e l’oceano delle infinite possibilità, e di quelle che si sono realizzate e di quelle che non si sono realizzate e di quelle che è probabile si realizzeranno. Ci dirà che sostando a mezza costa abbiamo la speranza di arrivare in cima e scopriamo in noi la dignità che sola ci autorizza ad arrivare in cima. E non ci scaraventerà nei torrenti a valle scannandoci, perché lui accoglie l’altro come hospes e non lo respinge come hostis e perciò non lo scaraventa e non lo scanna.

Tra finito e infinito abita l’uomo finché dura, e dura troppo poco come troppo poco dura la luna che non riluttante si specchia negli estuari e nei fiumi e nei ruscelli e nelle pozzanghere. Già il suo nome proprio lo definisce. E le cose, dai cucchiaini da caffè con cui il Prufrock di Eliot misurava la sua vita al bicchiere in cui Franco Costabile poneva la sua rosa, lo circondano con l’oremus terreno dei loro nomi convenzionali, e lo circondano nel senso che gli stanno attorno e lo limitano: semper mihi fuit cordi hic collis solus, e il colle è un colle, et saepes haec quae extremi coeli late aufert visum, e la siepe è una siepe, e l’«ultimo orizzonte» è un orizzonte, e il «guardo» è uno sguardo. Ma di là dal finito, e anzi sul fondamento del finito, s’innalza l’infinito come le guglie di una cattedrale gotica, frali ali di pugnali: spatia infinita silentiaque summa. E in quegli «interminati spazi» e in quei «sovrumani silenzi» non c’è accadimento che non sia possibile. E possibile è anche l’impossibile perché l’impossibile di oggi è il possibile di ieri e di domani. La verità storica non sta solo negli eventa, nei fatti che fiorirono e morirono e solidi furono finché furono. Sta in pari grado negli inventa, nei fatti che non fiorirono e morirono e liquidi rimasero dinanzi alla soglia che non attraversarono, dietro la porta che non aprirono, prima dei corridoi che non presero. Un Giano bifronte è la storia: ha il volto degli eventa e il volto degli inventa. E non hanno meno realtà gli inventa degli eventa. Sì, suave fit in hoc mare demergi. E però il naufragare nel mare delle infinite possibilità non è il perire schiantati dalla noia o dal tedio, dal non saper che fare o dalla convinzione che non ci sia niente da fare. È il vivere osando, è l’osare navigando alla maniera del Gran Turco antikemalista e antifascista e antinazista e antifranchista Nazim Hikmet, five fingers make a fist, alla maniera con cui si naviga nelle sue Lettere dal carcere a Munevver, nella Prigione di Bursa (Anatolia) mille942 : «Il più bello dei mari | è quello che non navigammo» (vv. 1-2).

Basta un «non» inserito da un correttore di bozze, oh Raimundo Silva oh Saramago, per cambiare la storia. Nella Lisbona assediata del mille147, dal Nord provenendo e verso la Terra Santa galoppando, i Crociati soccorsero il re dom Alfonso Enriques nella sua battaglia per la riconquista del Portogallo. Questa è storia. Storia ufficiale, canonica. Ma il correttore di bozze, oh Raimundo Silva oh

Saramago, scrisse «i Crociati non soccorsero il re dom Alfonso Enriques». E pure questa è storia. Storia non ufficiale, non canonica.

Nell’Inghilterra del Seicento, oh Thomas More oh Raphael Hythlodaeus, non c’era libertà di pensiero e di espressione del pensiero né c’era tolleranza religiosa né pace sociale. Questa è storia. Storia ufficiale, canonica. Nell’isola di Utopia, ottimo luogo, eu-tópos, luogo che non esiste ancora, ou-tópos, c’è libertà di pensiero e di espressione del pensiero e c’è tolleranza religiosa e pace sociale. E pure questa è storia. Storia non ufficiale, non canonica. È storia in fieri, è progettualità di una storia che in Inghilterra, oh Thomas More oh Raphael Hythlodaeus, avanzerà spedita nel secolo successivo.

E dunque la storia, Limone docet, è tanto la storia di ciò che è accaduto quanto la storia di ciò che non è accaduto mai o con ritardo è accaduto. Non l’accadere importa ma la possibilità dell’accadere. E la possibilità dell’accadere è sine fine et sine finibus.

L’ón e il me ón insieme si danno. E si danno a chi sa aprirsi al ricordo e alla speranza, a chi tra alte pareti di roccia intravede una fessura di luce: spiraglio di passato e di futuro.

Nel passato ciascuno di noi non fu solo per quello che fu all’apparenza e per quello che fece e per quello che disse. Non fu solo ente essente in un tunc inghiottito dal tempo con la cronometrica precisione dell’istante che all’istante precedente succede e al successivo cede. Nel passato ciascuno di noi fu anche per quello che non fu nella sostanza e per quello che non fece e per quello che non disse, per quello che non fu all’apparenza e avrebbe potuto essere e per quello che non fece e avrebbe potuto fare e per quello che non disse e avrebbe potuto dire. Fu anche ente volente di là dal voluto ed ente ponente di là dal posto, in un tunc che appartiene all’immaginale e non alle ore e ai mesi e agli anni e ai secoli. Fu nei sogni non realizzati, nelle res gerendae non giunte a res gestantes e a res gestae: quando i sogni si realizzano non sono più sogni, e da qui il bisogno di continuare a sognare, e quando le res gerendae giungono a res gestantes e a res gestae non sono più res gerendae, e da qui il bisogno di continuare nei sogni a gerere res non iam gestae finché non ci rapirà l’ultimo sonno. Con La Tempesta di Shakespeare: «[…] Noi siamo fatti della stessa materia | di cui sono fatti i sogni | e la nostra piccola vita | è circondata da un sonno» (atto IV, scena I e unica, vv. 156-158).

Nel futuro ciascuno di noi non sarà solo per quello che sarà all’apparenza e per quello che farà e per quello che dirà. Non sarà solo ente dovente essente in un postea che nel tempo si proietta con la cronometrica precisione dell’istante che all’istante precedente succede e al successivo cede. Nel futuro ciascuno di noi sarà anche per quello che non sarà nella sostanza e per quello che non farà e per quello che non dirà, per quello che non sarà all’apparenza e potrebbe essere e per quello che non farà e potrebbe fare e per quello che non dirà e potrebbe dire. Sarà anche ente dovente essente volere di là da quello che vorrà ed ente dovente essente porre di là da quello che porrà, in un postea che appartiene all’immaginale e non alle ore e ai mesi e agli anni e ai secoli. Sarà nei sogni non realizzati, nelle res gerendae non giunte a res gestantes e a res gestae, e continuerà a sognare e continuerà a gerere res non iam gestae.

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Ecco allora i due princìpi fondamentali da cui Limone muove: il «principio rimembranza», come espresso da Leopardi nello Zibaldone, «forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei», e il «principio speranza», come espresso da Ernst Bloch che rispetto al «principio angoscia» di Heidegger compie una volata lunga e lo trapassa e lo sorpassa, «alla base del faro non c’è luce».

E accanto a questi due princìpi, un terzo: il «principio dignità». Che nella specchiera dell’ontoaxía, in cui la «persona» si riflette e fuori di sé si riflette e nel rapporto con gli altri si riflette e non in sé e per sé si riflette, ha le sue radici nel Cristianesimo: «Non c’è più né giudeo né gentile, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né maschio né femmina» (Ga 3 28). È un credente, Limone. Nel dio di Abramo e Isacco e Giacobbe crede con fede non ostentata. E non a caso uno dei suoi autori, alla Vico intesi, è Mounier per il suo «personalismo comunitario» e per la sua «regola d’igiene preliminare» alla ricerca del vero: «bisogna rinunciare a tutto quello che impedisce al nostro spirito di trovarsi in stato di pura recettività faccia a faccia col vero». Ma Limone, lo sappia o non lo sappia, non è questo un problema, pure la scuola di Hegel ha frequentato. E io con lui. Con la sola differenza che io ho completato i miei studi, agli sgoccioli ora per tardanza d’età, con Marx, e lui, di me più giovane e alacre, con i classici dello spiritualismo cattolico. Alla scuola di Hegel, dello Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto: «Appartiene alla cultura, al pensare come coscienza del singolo nella forma dell’universalità, che io venga appreso come persona universale, ove tutti sono identici. L’uomo ha valore così, perché è uomo, non perché è ebreo, cattolico, protestante, tedesco, italiano ecc. Questa coscienza, per la quale il pensiero ha valore, è d’importanza infinita, – soltanto allora è manchevole, quando essa per es. come cosmopolitismo si fissa nel contrapporsi alla concreta vita dello stato» (§ 209, ann.). E alla scuola di Marx, del Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844: «La proprietà privata ci ha fatto talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando […] esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo etc., in breve utilizzato. […] Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere. A questa assoluta povertà doveva ridursi l’ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza» (III ms. [Proprietà privata e comunismo], [VI]).

Tanto Hegel che Marx, lo voglia o non lo voglia Limone, nemmeno questo è un problema, si addicono al suo «principio dignità». Ciascuno di noi nasce e cresce e muore, e non sceglie di nascere e crescere e morire se non interrompe il suo crescere e non anticipa il suo morire suicidandosi. Da qui la parità biologica, non l’uguaglianza, nell’ontico. E ciascuno di noi, nascendo e crescendo e morendo e anche interrompendo il suo crescere e anticipando il suo morire suicidandosi, ha valore e merita incondizionato rispetto. Da qui la parità etica, non l’uguaglianza, nell’axía. L’ente essente e dovente e volente e ponente, che ciascuno di noi è stato ed è e sarà, non è senza il valore. E il valore non è senza

l’ente essente e dovente e volente e ponente, che ciascuno di noi è stato ed è e sarà. Se così non fosse, ci sarebbe il niente. E il niente non è rappresentabile né nel concetto né nel sentimento. Né nella numerazione posizionale decimale: dove il numero zero è pur sempre un numero, un numero naturale nella sequenza dei numeri interi non negativi, un insieme vuoto e però un insieme, o un sottoinsieme proprio e finito che è parte di un insieme infinito, come dire che «0» è compreso in « ».

In questo modo ragionando, si comprende perché Limone escluda dal suo filosofare poetando e dal suo poetare filosofando l’Anánke che a cominciare da Omero ed Esiodo e per secoli e secoli simboleggiò la forza regolatrice, bronzea forza con regole bronzee, di tutti gli accadimenti naturali ed umani, dal moto degli astri e dalle fortune dei bocci in rose esplosi ai disastri e alle sfortune che colpiscono gli uomini e a volte li umiliano e li atterrano e altre volte li glorificano e li rendono martiri ed eroi. E come dar torto a Limone? Quelle scienze che un tempo si dicevano esatte, oh Copernico oh Galilei, quelle scienze da cui un tempo i filosofi trassero la convinzione che ogni cosa è l’effetto di una causa ed è causa essa stessa di una diversa causa e di un diverso effetto, causa ed effetto per grandezze matematiche misurabili, la loro baldanza hanno perso già con Hume e si sono genuflesse il mea culpa recitando dopo la teoria della relatività e la meccanica quantistica e la scissione dell’atomo, oh Einstein oh Heisenberg oh ragazzi di via Panisperna, e l’universo si è così messo a danzare sul filo del probabile e del plausibile e dell’incerto. E probabile e plausibile e incerta, quanto a suoi esiti, è anche l’azione dell’uomo che nell’azzardo dell’esistenza lancia il dado, alea iacta est, ma a differenza di Cesare non sa se vincerà o soccomberà. Perché non c’è causa per necessità stabilita e non c’è effetto per necessità stabilito, e c’è il fortuito ad attenderci dietro l’angolo della strada che spensierati percorriamo e la percorriamo sicuri, oh vanagloria, che dietro l’angolo della strada ritroveremo come ieri il rivendugliolo di stracci e il negoziante di pietre preziose e il barbiere ciarliero e la contessa seduta al bar col suo tè affumicato e i suoi crostini di burro e salmone. E perché non c’è un destino preconfezionato o un disegno provvidenzialistico ed escatologico o una mano invisibile che indomita ci guida alle «magnifiche sorti e progressive», oh Mamiani oh Leopardi, e solo ci sono mani che altre mani cercano e mani che ad altre mani si danno. E perché infine, non se l’abbia a male Limone, neppure del dio di Abramo e Isacco e Giacobbe è predicabile l’esistenza o la non esistenza, o è in simultanea sequenza predicabile tanto la sua esistenza quanto la sua non esistenza.

Il Rob di Limone non si sveglia forse un giorno nel paese dei mille re? E i mille re non rappresentano forse le possibilità infinite o l’infinito delle possibilità? Se si è possibilisti, ogni determinismo e ogni causa efficiens e ogni causa sui respingendo, lo si sia sino in fondo. Il possibilismo, poiché ha la forza del suffisso -ismo e per questo suffisso è teoria, non conosce mezze strade o scorciatoie o nascondigli o chiostri di certose e minareti. E allora si sia possibilisti anche al riguardo della trascendenza. Lo spirito critico contro lo spirito dogmatico. Il politeismo delle visioni del mondo contro il monoteismo di un’unica visione del mondo. L’umile prospettivismo della ragion dialogica contro il superbo assolutismo dell’intelletto non dialogico. La contraddizione contro il

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sillogismo. Le idee nebulose e vaghe contro le idee chiare e distinte. Il noumeno contro il fenomeno. L’esprit de finesse contro l’esprit de géométrie. E alla pari, senza comparativi di maggioranza e minoranza nella forma canonica del magis quam e del minus quam e senza graduate gerarchie di sorta, e l’etiamsi Deus non daretur di Grozio e l’ita ut Deus daretur intrinseco nell’als ob di Kant.

Non è una mattanza né un mattatoio né un teatro dell’assurdo, la storia. Le reti della storia non catturano tonni e pescispada e salmoni e caviali per farne cibi prelibati sulle mense dei signori dalla camicia ben stirata con colletto inamidato. I tonni e i pescispada e i salmoni e i caviali catturati dalla rete della storia in questa rete restano e in questa rete muoiono e da questa rete risorgono alla vita se un cantore li canta. Sui palcoscenici della storia non si muovono sans façon attori e comparse. E attori

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