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mette a repentaglio la propria vita; in questo senso Antigone è giudicata ánous anche dagli anziani (vv 381-384)

Nel documento ISLL Papers Vol. 4 / 2011 (pagine 30-34)

e dalla sorella (v. 99).

21 Cfr. i luoghi in cui ricorre il termine, vv. 74, 303, 415, 461, 625, 681, 729, 1078.

22 Si ricordi che anche il Coro viene convocato da Creonte con un kérygma e non con un invito come vorrebbe la legge.

23 Cfr. in particolare il confronto tra Antigone e il Coro dopo la condanna (cfr. vv. 806-883): “essere pii è sì una lodevole cosa, ma il potere (di colui) al quale il potere sta a cuore in nessun modo è da trasgredire” (vv. 871- 873). Neanche Emone avrà la capacità di convincere il padre a tornare sulle sue posizioni, dicendogli che tutta la gente (démou pháthis) è contro di lui, che la comunità è per Antigone (cfr. vv. 732-775): “Em. nessuna città appartiene ad un sol uomo – Cr. Non si suol dire che la città è di chi la comanda?” (vv. 733-734).

24 Dopo aver parlato con Tiresia, Creonte si convince e si fa consigliare dal Coro su come tornare indietro. Gli viene ordinato di liberare Antigone. A malincuore egli soccombe argomentando sulla anánke che non permette di contrastare il destino e conclude: “credo che la migliore cosa sia passare la vita rispettando i nómoi stabiliti” (vv. 1113-1114).

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l’intenzione di mandare in esilio il tiranno. Tutto ciò secondo la legge comune che, mentre accoglie anche il cadavere del fratello nemico, allontana l’uomo corrotto dal potere non degno di ospitalità né di amicizia. In questo senso il Coro è chiarissimo: “[...] scopritore mirabile di ingegnose risorse, ora al bene ora al male si incammina: sconvolgendo le leggi del suo paese e la díke confermata col giuramento degli dei, egli giunge ai vertici della città: uomo senza patria per orgoglio vive con chiunque – il che non è bello. Chi fa ciò non divenga mio ospite né mio amico” (vv. 364-375). Dal contrapporsi tragico di legge e diritto discende, dunque, un’altra chiave dell’ospitalità: essa appartiene alla legge, non al diritto imposto. Appartiene alla comunità che allontana Creonte, come l’uomo dell’eccesso, un ápolis che non ha alcun legame, e non potrebbe diventare ospite. E ancora: l’ospitalità non può trovare le sue chiavi in quel diritto che rispecchia un’unica logica e cronologia. Sofocle distingue tra ospite e amico, proprio in virtù della natura ambigua dell’ospite, che è insita nel suo essere fratello e potenziale nemico. Non si tratta soltanto dell’estraneità dello straniero, di “colui che viene da fuori”, l’ospite incarna esattamente l’altro assoluto cui si riferisce Derrida25, quell’altro che è

il consanguineo nel caso di Polinice, ma che in sostanza permea l’uomo in sé e nel suo rapportarsi con il mondo. La legge della comunità obbliga ad accogliere l’ospite senza riserve. Si tratta proprio di quell’ospitalità “assoluta” di cui si diceva poc’anzi, che il diritto non riesce a contenere e mediare perché esso ha una sola logica e un codice capace di distinguere unicamente tra amico e nemico.

Questa forma di ospitalità “esige che io apra la mia dimora e che la offra non soltanto allo straniero (provvisto di un cognome, di uno statuto sociale di straniero, ecc.), ma l’altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che gli dia luogo, che lo lasci venire, che lo lasci arrivare e aver luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità (l’entrata in un patto) e neppure il suo nome”26,

dandogli tempo.

All’obbligo di ospitare, comunitario, corrisponde l’aspettativa di essere ospitato da chi proviene da un’altra comunità. Chi migra si aspetta sempre di essere accolto. Tuttavia, il diritto, pur introiettando l’ospitalità comunitaria, per necessità e sua necessarietà la ritratta, riducendola ad un permesso di soggiorno a termine; difende il territorio senza comprendere la natura dei suoi confini; impone l’accordo, che fallisce perché non può esistere una mediazione efficace tra impari; si illude di limitare i rischi, le incertezze, inventando categorie improbabili che cumulano i paradossi della vita

25 J. Derrida, Questione dello straniero: venuto da fuori, in J. Derrida e A. Dufourmantelle, Sull’ospitalità, cit., pp. 39-81. Vedi anche l’idea di altro di É. Lévinas per come è stata riletta da L. Bagolini, Poesia e giustizia.

Diritto e tempo, Giuffrè, Milano 1998, pp. 43-59. Qui il “volto dell’Altro” è una manifestazione della tendenza all’infinito, inteso come oltrepassamento: “L’Infinito in se stesso è l’assolutamente Altro rispetto a me, e a me può rivelarsi misteriosamente attraverso lo sguardo di un Altro”, cfr. ivi, p. 57.

26 Cfr. ancora J. Derrida, Questione dello straniero: venuto da fuori, cit., p. 53. Nella stessa direzione R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998, per il quale la legge “è il darsi originario in cui il diverso entra e si mantiene in relazione con l’altro da sé”, cfr. ivi, p. 64. Un bell’esempio di questa forma di ospitalità è visibile nei poemi omerici, soprattutto nell’Odissea. Soltanto dopo che siano stati accolti e ristorati, nelle comunità descritte da Omero, gli ospiti sono invitati a presentarsi riferendo della loro identità e appartenenza.

reale. Gli ospiti: tutti noi, ne veniamo investiti, ammutoliti. E non sappiamo che fare, cosa dirci; per strada, nelle piazze, diventiamo muti, impauriti, imbarazzati, perché l’unica ragione è diventata quella della sopravvivenza e non della convivenza, della crescita per tutti. Finché si sopravvive non si sceglie la tensione al futuro, non si sceglie per la vita, non si fabbrica il tempo. Il diritto resta, in ogni caso, lo strumento che abbiamo per accordarci, bisogna solo imparare a renderlo sempre più duttile e flessibile, avendo in mente che in realtà, proprio per tutti i discorsi che contiene, può essere trattato nel senso del molteplice, piuttosto che dell’univoco. Spesso il successo dipende soltanto da combinazioni fortunate. L’accordatura non è mai facile, si raggiunge in modo perfetto per alcuni momenti, poi si allenta durante le performances, ma si può riprendere. L’importante è prestare ascolto, esercitando il proprio orecchio, affinando la propria sensibilità ai suoni più diversi. E non smettere di suonare. La storia del diritto non è mai conclusa, si consegna di volta in volta alla prudenza, alla razionalità, alla forza dei soggetti in campo, alla tecnica normativa, all’esperienza dei giudici; nel nostro caso, sempre di più, al dialogo tra ospiti e alle possibilità della mediazione27.

3. Il tempo delle ragioni

Parlare di ospitalità equivale, dunque, a ragionare in termini di molteplicità. Vale a dire a cogliere l’affollamento che ci investe, che finisce con l’abitare ognuno di noi e ci accomuna, non come frammentarietà, ma come ricchezza. In questo senso, non bisogna temere la complessità con tutto il suo carico di paradossi e di contraddizioni, ma prenderne atto e viverci, come attori e spettatori, ben sapendo che l’armonia intima della vita ammette anche le dissonanze. Il pensiero della complessità che ha coinvolto il diritto negli ultimi anni è quello che maggiormente ci interessa in questa sede. Gli esiti che esso ha fornito vanno da ipotesi di operazioni automatiche di riduzione – compiute dai sistemi e dal sistema normativo in particolare, a ipotesi di funzioni di trattamento – che sono in parte dipendenti dall’intenzionalità di soggetti agenti che si servono strumentalmente del diritto, senza che nessuno neghi, dalle due posizioni opposte come da quelle che si collocano tra queste, la constatazione che il sistema giuridico non risolve in nessun caso la complessità, ma paradossalmente la introietta, come imprevedibilità, incertezza28. A ciò si risponde, tuttavia, in termini di “rischio”, di “scandalo

27 Sull’idea di “reciprocità positiva” in riferimento alle possibilità di mediazione del diritto, si rimanda a E. Resta, Uguaglianza e differenza nel sistema diritto, in M. Bessone (ed.), L’attività del giudice. Mediazione degli

interessi e controllo delle attività, Giappichelli, Torino 1997, pp. 3-45; cfr. anche dello stesso, Il paradosso dei

limiti superabili, in P. Barcellona (a cura di), Nuove frontiere del diritto, cit., p. 48.

28 Quello che si è definito come “pensiero della complessità” si riferisce all’opera di Luhmann in merito alla teoria del diritto e dei suoi interpreti e critici. Di N. Luhmann v. in particolare Illuminismo sociologico, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 82 ss., e Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 95, 148-149, 172. Tra i suoi critici italiani e in particolare sul problema dell’intenzionalità, ma anche per le diverse definizioni di sistema giuridico, cfr. V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto – I. Azione giuridica e sistema normativo, Laterza,

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logico”, fermi sulla linea di un pensiero verticale che sa spostarsi solo tra razionale e irrazionale29. E le

altre categorie che entrano in gioco come la “ragionevolezza”, che si richiama a una sorta di buon senso prudenziale, non sono sufficienti a cambiare quella razionalità unica rispetto alla quale in molti si propongono in modo più o meno elastico. Come ricorda Maffesoli, “la lezione delle cose, per quanto relativista, non implica affatto l’abdicare della mente. Si tratta più semplicemente di una sfida alla quale si deve rispondere. […] In altri termini, è opportuno elaborare un sapere […] capace anche di integrare il caos o per lo meno di accordargli lo spazio che ad esso spetta. Un sapere che sappia, per quanto paradossale possa sembrare, disegnare la topografia dell’incertezza e del rischio, quella del disordine e della vitalità, quella del tragico e del non-razionale. Elementi, tutti, incontrollabili, imprevedibili, ma non per questo meno umani. Elementi che, a diversi livelli, partecipano alle storie individuali e collettive”30. Si tratta di un pensiero che, aderendo il più possibile all’oggetto, possa

divenire realmente molteplice proprio perché è in grado di esserne determinato. È necessario che il pensiero moderno, prima oggettivo, poi riflessivo, diventi ora reversibile, aggiunge Baudrillard, sottolineando il dilemma dell’analisi di una società frattale, aleatoria, “dominata dalla relazione di incertezza”, che richiede l’elaborazione di un sapere altrettanto indeterministico, disponibile a una “incertezza radicale e definitiva”31. Esiste una propensione delle cose, una saggezza che lascia l’iniziativa al mondo, conscia di quanto sia meglio lasciare operare la “propensione” iscritta in quella realtà di cui noi stessi siamo parte (attori e spettatori) che non manca di essere efficace32. Mondo della

vita, tensione, manifestazione e accoglienza: l’ospitalità assoluta raccoglie tutti questi termini incerti, queste altre forme dell’intelligenza che devono essere recuperate. La saggezza della vita non è nella selezione, ma nell’ospitalità. In questo senso, il diritto deve tornare a capire di essere una delle strutture della realtà, e in quanto tale permeato da tutte le dimensioni di essa, per conquistare un senso non più selettivo ma ospitale. Per questo l’arte, l’estetica: possibili vie in grado di restituire forme attraverso cui leggere l’esistenza nella sua complessità originaria e ontologica33. E non è un semplice

vezzo da classificare come un postmodernismo modaiolo. Kelsen, che nel 1905 dà alla luce un libro sulla teoria dello stato in Dante Alighieri34, è un esempio illustre, ma affatto isolato tra quanti studiosi

Roma-Bari 1997, spec. pp. 213-224. Sui paradossi del diritto è diventato un classico il testo di M. van de Kerchove, F. Ost, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Giuffrè, Milano 1995; v. anche di F. Ost, “Pensare la complessità”, Sociologia del diritto, 1, 1997, pp. 7 ss.; L. Pannarale, La bottiglia di Leyda. Il giurista e i suoi

paradossi, Giappichelli, Torino 1996; A.G. Conte, Pragmatica d’un paradosso. Epimenide deontico, in A. Filipponio (ed.), Ricerche praxeologiche, Asiatica, Bari 2001.

29 V. ancora N. Luhmann, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1996. 30 M. Maffesoli, Elogio della ragione sensibile, Seam, Formello 2000, p. 15-16. 31 J. Baudrillard, Lo scambio impossibile, Asterios, Trieste 2000.

32 F. Jullien, Elogio dell’insapore. A partire dal pensiero e dall’estetica cinese, Cortina, Milano 1999. 33 Si veda D. Corradini Broussard, “Filosofare poetando”, Giornale di metafisica, XVII, 1995, pp. 121-132. 34 H. Kelsen, La teoria dello stato in Dante, Boni, Bologna 1974. Si tratta, come ricorda Frosini nell’introduzione all’edizione italiana, del primo libro di Kelsen, rielaborazione della sua tesi di laurea. Per quel che ci riguarda in questa sede, varrà la pena sottolineare che seppure lo studio kelseniano si incentri sull’analisi

del diritto hanno fatto ricorso ad opere artistiche per cogliere in modo più intimo la natura dei concetti che li interessavano. Non si può, quindi, fare a meno di rilevare quanto meno l’interesse e il riscontro che si sono avuti rispetto a questo approccio35.

I pochi lavori che si richiamano esplicitamente a un pensiero estetico del diritto si riferiscono alla possibilità di leggere “l’irruzione del fatto nel sistema giuridico”, vale a dire quella realtà molteplice e diversificata che reca con sé più ragioni36. Esso accoglie queste forme che si manifestano

senza mediazioni, recuperando parte di quella complessità che “scandalizza” la ragione logica, anche quando appare sedimentata nelle forme dei codici37. In altre parole, analizzare le forme giuridiche

(testi, riti e scenografie procedurali) al pari di opere artistiche può condurre a decifrare molteplici espressioni dell’esistenza che il diritto introietta. Non meno interessante, come si accennava, l’indicazione di ulteriori percorsi, che portano al rinvenimento dell’universo normativo per come è descritto nella produzione artistica. In questa inversione di prospettiva, il diritto viene inteso non tanto come opera in sé, ma come componente culturale della realtà da cui trae origine e da cui dipendono tutte le forme che può assumere. Proprio perché non devono occuparsi di selezionare e mettere in scena la realtà, ma più semplicemente la presentano anche per come immediatamente si pone, le opere letterarie, pittoriche, cinematografiche38 sono in grado di restituire la sostanza del diritto per quello che è, intriso di violenza e protezione, di diversità e uguaglianza, di senso del limite e universalità, di concretezza e astrattezza. Dal nostro punto di vista, il pensiero ospitale corrisponde al pensiero estetico: accogliente, poliedrico e proprio di quel tempo che è teso alla vita del mondo, disposto all’incertezza radicale che proviene dall’altro assoluto. Né assomiglia al pensiero che Maffesoli definisce “dionisiaco”39, perché esso non si oppone a quello “apollineo” che invece accoglie, seppure

indebolendolo. Il pensiero estetico del diritto non nega l’intelligenza della logica, la recepisce e vi giustappone delle altre, pensando a un’armonia più complessa: è un invito a usare più vie per

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