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COME GIUSTIZIA DEL CASO SINGOLO

L’EQUITÀ NEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

Antonella Mirabile

SOMMARIO:1. Premessa. 2. Il percorso storico dell’equità. 2.1. L’epièikeia

aristotelica. 2.2. L’aequitas romana e la tradizione inglese dell’equity a con- fronto. 3. I caratteri dell’equità. 4. L’equità e il diritto amministrativo. 5. L’importanza, talvolta, di non definire.

1. Premessa

Nella tecnica legislativa contemporanea si assiste a un uso smodato della definizione. Difatti, analizzando i moderni testi legislativi si può agevolmente notare come in essi, normalmente, almeno un articolo sia riservato alle definizioni.

Tuttavia, nonostante il legislatore si affanni a definire, talvolta anche in modo eccessivamente minuzioso, quotidianamente, nell’applicazione pratica del diritto, l’interprete è posto di fronte, da un lato, all’assenza di definizioni ovvero, dall’altro lato, all’eccessiva rigidità delle stesse.

Le ragioni di tale fenomeno vanno rinvenute nella natura stessa della legge: essa, in considerazione della generalità e dell’astrattezza che la caratterizzano, non può né prevedere né definire tutti i casi del reale.

A tal proposito, si deve rilevare come la stessa operazione definito- ria sia tendenzialmente un’operazione “politica” la quale se, da un lato, include, dall’altro, necessariamente, esclude una parte del reale.

Basti, al riguardo, considerare che etimologicamente il termine defi- nizione deriva dal verbo latino defìnire il quale, letteralmente, significa apporre un finis, vale a dire un termine, un confine, pertanto, con esso si suole indicare l’azione di determinare, limitare, circoscrivere.

Nel campo del giuridico si può affermare che la definizione sia quel- l’operazione che compie il diritto verbalizzato nel momento in cui sele- ziona gli ambiti del reale in cui intervenire e, al contempo, con una sor- ta di confine immaginario, limita ad essi il proprio campo di applica- zione, escludendo, allo stesso tempo, tutto ciò che si trova posto al di fuori del confine tracciato.

Si viene a creare, così, un vero e proprio conflitto tra ciò che la defi- nizione include e ciò che, inevitabilmente, ne viene escluso; in sostanza un conflitto tra norma e realtà.

Tale rapporto tra norma e realtà è significativamente espresso da Aristotele nell’Etica nicomachea1:

Quando la legge si esprime in termini astratti e nella realtà si verifica qualcosa a cui il Legislatore non ha pensato, allora è legittimo corregge- re l’omissione, colmarla, considerando come statuito ciò che il Legisla- tore stesso direbbe se fosse presente e ciò che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione.

E, dunque, «quanto corrisponde al concetto di giusto è migliore del modo letterale e formalistico di applicare la giustizia».

Egli individua, pertanto, quale mezzo di risoluzione del conflitto tra l’indeterminatezza della norma e la concretezza del reale null’altro se non l’applicazione equa della giustizia, del diritto.

Nondimeno, bisogna precisare, come ben rilevato da autorevole dot- trina2, che accanto al diritto “parlato” esiste anche un diritto “muto”,

1 Etica Nicomachea, libro V, 10. 2 R.S

ACCO, Il diritto muto, in Rivista di diritto civile, 1993, 689 e ss.; l’autore, in particolare, partendo dalle analisi etno-antropologiche, constata l’esistenza anche nelle società primordiali di una struttura giuridica fatta non di parole, quanto, piuttosto, di cerimonie, attuazione e fatti: «era giuridico ciò che veniva attuato; […] Il diritto era muto (si prescinde dalle grida che possono aver accompagnato le cerimonie e l’autotu- tela). Le fonti erano mute. Gli atti erano muti». Parallelamente anche il mondo contem- poraneo conosce «la fonte parlata (le norme scritte, splendide per contenuto e per for- ma, che elaborano il parlamento e il governo) e la fonte muta (consuetudine, usi, conte- nuto che l’interprete assegna ad espressioni vaghe e indeterminate quali “colpa”, “mala fede”). Conosce l’atto parlato (il negozio giuridico) e l’atto muto (l’atto semplice, o non negoziale, il fatto concludente)».

ossia quel diritto non scritto – come la consuetudine, gli usi, le regole interpretative e i crittotipi – il quale coesiste con esso.

Sicché è proprio nell’ambito del diritto non scritto e di quelle aree del reale non definite che si deve collocare l’equità e le sue regole.

Il concetto di equità, tuttavia, è, impossibile da definire, assumendo, di volta in volta, significati e sfumature diverse.

Nel lessico giuridico il termine «equità» viene comunemente utiliz- zato dagli interpreti, pur non sembrando essere attribuito allo stesso un significato univoco.

A tal proposito vi è stato chi ha affermato che «ci troviamo di fronte ad uno dei concetti più tormentati, e dai contorni più incerti, dell’espe- rienza giuridica, e pertanto di assai difficile definizione»3.

Compiendo, difatti, una rapida ricognizione dei significati attribuiti al termine equità si può notare come lo stesso sia utilizzato come sintesi verbale di ciò che è giusto, trattato come un contenitore che di volta in volta l’interprete riempie del significato maggiormente funzionale al suo scopo4.

Postulando l’impossibilità di definire in maniera univoca il concetto di equità, si può individuare più propriamente l’obiettivo prefissato in quello di riscoprire e rivalutare un concetto che, a causa della sua capa- cità di rinviare a regole esterne alla legge positivizzata, nel corso degli ultimi secoli è stato demonizzato ed esautorato.

È interessante, a tal proposito, notare come l’equità, «l’araba fenice che sempre risorge dalle proprie ceneri»5 desti ciclicamente – prevalen-

3 V.V

ARANO, Equità (Teoria generale), in Enc. Giur., vol. XII, Roma, 1989.

4 Si veda a tal proposito G.A

LPA, Manuale di Diritto Privato, VI ed., Padova, 2009, 61 e ss., il quale afferma che «la costruzione del significato [di equità] è strettamente correlata – si potrebbe dire funzionale – al ruolo che si vuol far sostenere all’equità», in particolare egli rinviene la ragione di questa inversione logica della definizione del con- cetto di equità nella non linearità dei processi logici del ragionamento giuridico «quan- do si tratti di fare impiego di formule, espressioni o concetti a contenuto indefinito e va- go, che richiedono necessariamente l’apporto additivo dell’interprete».

5 G.M

AGGIORE, L’equità e il suo valore nel diritto, in Riv. Int. Fil. Dir., 1923, 256 e ss.

temente in periodi di transizione e di crisi delle strutture sociali e giuri- diche – l’interesse degli interpreti6.

L’art. 41 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, nel sancire il diritto ad una buona amministrazione, ha previsto espres- samente il diritto di ogni persona ad un trattamento “equo”.

Proprio tale verbalizzazione ha destato, nuovamente, il dibattito, in particolare tra gli studiosi di diritto amministrativo, intorno al concetto di equità.

Sebbene il legislatore italiano non abbia mai positivizzato tale con- cetto – quantomeno con riferimento ai poteri del giudice e all’esercizio del potere da parte delle pubbliche amministrazioni7 –, l’equità, pur celata, sembra essere immanente al diritto, e, in maniera particolare, al diritto amministrativo nazionale.

La dottrina8 ha, allora, salutato con grande favore il richiamato in- tervento europeo, intervento che, sulla base delle tradizioni giuridiche comuni agli stati membri, ha trasposto in un testo scritto il principio di equità anche nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Bisogna rilevare, d’altra parte, che l’argomento non è nuovo al diritto ammini- strativo: fin dagli albori della scienza giuridica amministrativa9 ha co- stituito, ad intervalli più o meno regolari, argomento di dibattito.

Il giudice amministrativo, dal canto suo, da sempre utilizza il riferi- mento all’equità con varie accezioni e nell’ambito di aspetti molto dif- ferenti tra di loro. Utilizza, in particolare, tale concetto non solo con riferimento alla liquidazione delle spese processuali e per la quantifica-

6 Si veda, a tal proposito, S.R

ODOTÀ, Quale equità, in L’equità (Atti del Convegno

del Centro Nazionale di Prevenzione di Difesa Sociale, tenuto a Lecce 9-11 settembre

1973), Milano, 1975, 49 e ss.

7 Si deve, infatti, rilevare che nel codice civile vi sono molti riferimenti all’equità e

nel codice di procedura civile agli artt. 113 e 114 viene disciplinato il giudizio di equità.

8 Si fa qui riferimento a A.Z

ITO, «Il diritto ad una buona amministrazione» nella

Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea e nell’ordinamento interno, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2002, 25 e ss.; S.RICCI, La “buona amministrazione”: ordinamen-

to comunitario e ordinamento nazionale, Torino, 2005; L. PERFETTI, Diritto ad una

buona amministrazione, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2010, 818 e ss.

9 Si rinvia per la trattazione del tema dell’equità da parte della dottrina amministra-

zione del risarcimento del danno, ma anche per ampliare l’obbligo di provvedere della pubblica amministrazione.

Sebbene in una celebre prolusione camerte Vittorio Scialoja avesse affermato che l’equità si addice al solo legislatore e in alcun caso al giudice, quello amministrativo, fin dalla sua creazione, ha, pur non esternandolo, utilizzato criteri interpretativi di equità10.

Oggi è ancora più interessante parlare di equità e di giudice ammini- strativo in considerazione del fatto che anch’esso ha sentito la necessità di conformare apertamente l’esercizio del potere giurisdizionale alle regole proprie di tale principio11.

2. Il percorso storico dell’equità

Il cammino di chi si accinge a studiare l’equità dovrà, di necessità, attraversare le vicende storiche di tale concetto, da Aristotele12 fino ad arrivare ai giorni nostri, attraversando l’esperienza romana e quella an- glosassone.

Sarà, appunto, solo attraverso lo studio del passato che si potranno delineare i caratteri dell’equità che sono riusciti a superare la prova del tempo.

10 Si prenda ad esempio la creazione delle c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di

potere.

11 Il riferimento è alla ord. Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2015, n. 284 ed alla con-

seguente Ad. Plen, 13 aprile 2015, n. 4, trattate più approfonditamente nel prosieguo.

12 Per maggiore completezza, si deve fare riferimento a quell’opinione che critica

l’ellenocentrismo dell’indagine storiografica intorno al concetto di equità, rinvenendo, al contrario, le radici del termine e della concezione di aequitas non solo nell’ambito el- lenico-romano, bensì in ambito greco-orientale. Il riferimento è in particolare a O. BUC- CI, Il principio di equità nella storia del diritto, Napoli, 2000.

Scettico riguardo l’utilizzo di Aristotele come punto di partenza nelle trattazioni in tema di equità è anche F.CALASSO, Equità (Premessa storica), in Enc. Dir., XV, Mila- no, 1966, 65 e ss.

2.1. L’epièikeia aristotelica

Lo studio dell’equità trova il suo fondamento, quantomeno nella ri- costruzione classica, nella filosofia greca e, in particolare, nell’Etica

Nicomachea e nella Retorica di Aristotele13.

Nel libro V dell’Etica Nicomachea, dopo aver affrontato il tema del- la giustizia e del diritto, lo Stagirita tratta il tema dell’equità in rapporto alla giustizia14.

In particolare, il filosofo sostiene che «l’equo e sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale», «corret- tivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità».

Il carattere universale della legge e di ogni definizione nella stessa contenuta costituisce una regola che di fronte alla multiformità del reale deve necessariamente patire delle eccezioni. Tali eccezioni si realizza- no, appunto, con l’uso dell’equità che, come il regolo di Lesbo «si adat- ta alla configurazione della pietra e non rimane rigido».

In ragione di ciò, Aristotele definisce anche l’uomo equo: «è equo infatti chi è incline a scegliere e a fare effettivamente cose di questo genere, e chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della leg- ge».

In sostanza, dunque, nel caso in cui vi siano lacune ovvero la defini- zione data dalla legge non risponda nella maniera adeguata alla confi- gurazione del reale è demandato al giudice il compito di «correggere l’omissione e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione».

Nella Retorica15 il concetto di equità viene, poi, approfondito par- tendo dalla considerazione che l’equità è quella forma di giustizia che va al di là della legge scritta – conclusione alla quale il filosofo era già

13 Vi è anche chi fa riferimento all’accenno contenuto nei Magna Moralia, libro II,

capitolo I, tuttavia, questa non è opera da attribuire direttamente ad Aristotele, bensì una compilazione da parte delle dottrine aristoteliche risalente al III o II sec. a.C. Si veda in tal proposito O.BUCCI,op. cit., 14.

14 Etica Nicomachea, libro V, 10 (1137 a-1137 b). 15 Retorica, libro I, XIII (1374 a-1374 b).

giunto nell’Etica – tale superamento della legge scritta può avvenire sia per volontà del legislatore, sia senza di essa.

Il primo caso, che si può definire come equità integrativa, non è al- tro che un rafforzamento di quanto già affermato nello scritto preceden- te, poiché tale tipologia di equità è insita nel carattere generale della norma, in questo caso il legislatore è obbligato ad utilizzare una formu- la generale che non vale universalmente ma per la maggioranza dei ca- si.

Il secondo caso – che individua la c.d. equità suppletiva o sostituti- va –, al contrario, rappresenta un approfondimento ed evoluzione della ricostruzione precedente.

Viene prevista, difatti, l’applicazione dell’equità per il caso in cui «sfugga loro [ai legislatori] qualcosa».

Arriva, quindi, alla conclusione che «essere equi significa essere in- dulgenti verso i casi umani, cioè badare non alla legge, ma al legislato- re, e non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore» e inoltre che «preferire un arbitrato piuttosto che una lite in tribunale; infatti l’ar- bitro bada all’equità, il giudice alla legge; e l’arbitrato è stato inventato proprio per questo, per dare forza all’equità».

È indicativo come già in Aristotele sia delineata e condensata, con un’attualità che ha del disarmante, la problematica dell’equità16. Preme rilevare, a tal proposito, come l’epièikeia aristotelica sia strettamente ed intimamente connessa alla giustizia17 e come il ricorso all’equità ri-

16 Si veda a tal proposito G.B

ROGGINI, Aspetti storici e comparativistici, in L’equità

(Atti del Convegno del Centro Nazionale di Prevenzione di Difesa Sociale, tenuto a

Lecce 9-11 settembre 1973), Milano, 1975, 19. Egli ritiene che già nei testi aristotelici sia condensata tutta la problematica dell’equità: «in primo luogo l’antinomia diritto ed equità, in secondo luogo la visione dell’equità come strumento di interpretazione della norma, in terzo luogo il nesso corrente fra equità e potere discrezionale del giudice che si caratterizza, per così dire, nel contrasto fra arbitrium e iudicium».

17 V.F

ROSINI, Nozione di equità, in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 71 a tal proposito afferma che «Aristotile mostra di voler dare dell’equità una interpretazione propriamen- te “giuridica”, e non già astrattamente etica (come pure è stata non di rado intesa l’equi- tà). Si può dire che, in definitiva, egli distingua le leggi scritte dalle leggi non scritte, e che riconosca il principio di valutazione giuridica, che è proprio delle seconde, nel prin- cipio della “equità”, che compendia per lui anche quelli della natura dei fatti, dei prin- cipi generali del diritto, e di altri ancora, cui possa farsi ricorso, per integrare le lacune

manga «il ricorso ad una fonte giuridica e non fuga verso elementi di giudizio eterogiuridici»18.

Ecco, dunque, delineate quelle che saranno le linee guida dello svi- luppo successivo del concetto di equità, riassunto nella espressione, non propria di Aristotele ma degli studiosi di epoca successiva, «giustizia del caso singolo».

2.2. L’aequitas romana e la tradizione inglese dell’equity a confronto

Le esperienze storiche che hanno in maniera più proficua e sistema- tica dato vita all’equità sono quella romana e quella inglese19.

Verranno trattate congiuntamente per ragioni non solo di sinteticità, ma anche, e soprattutto, al fine di coglierne in maniera più proficua le linee di sviluppo.

In entrambe le esperienze, il ricorso all’equità ha, invero, costituito l’emergere di esigenze di tutela laddove, a causa della sclerotizzazione e rigidità dell’ordinamento giuridico, vuoi dello ius civile, vuoi della

common law, tale tutela veniva a mancare.

Nel diritto romano20, in particolare, l’espansione dei rapporti com- merciali tra romani e stranieri, prima, e l’espandersi dell’impero, poi,

di un ordinamento giuridico. L’equità è dunque per Aristotile il metodo di applicazione della legge non scritta».

18 G.B

ROGGINI,op. cit.

19 Si rimanda per un più approfondito esame delle singole esperienze alle trattazioni spe-

cifiche in argomento ed in particolare, per quanto concerne il diritto romano W.W. BUCK- LAND, Equity in Roman Law, Cambridge, 1911; A.GUARINO, Equità (Diritto romano), in Nss. D. I., VI, Torino, 1960, 619 e ss.; per quanto concerne il diritto inglese si veda- no a titolo esemplificativo J. BRUNYATE (a cura di), F.W.MAITLAND, Equity. A Course

of Lectures, Cambridge, 1936; M.RHEINSTEIN,Common law – Equity, in Enc. Dir., VII, Milano, 1960.

20 Vale la pena qui solo accennare, ad esempio, al fatto che il concetto di aequitas

ha permeato di sé tutta l’esperienza giuridica romana, pur non trovando una definizione nelle fonti bensì assumendo una ampia gamma di significati, tanto da fare affermare «la nozione di aequitas è tra le più essenziali per la comprensione del diritto romano nel suo sviluppo storico, ma è al contempo tra le più evanescenti e incerte e contradditorie che le fonti romane ci offrono». A.GUARINO, op. cit.

mise in risalto la necessità di offrire tutela anche a chi non era cives, quindi anche a chi non era tutelato secondo i canoni dello jus civile.

Tale esigenza condusse all’istituzione nel 242 a.c. del praetor peregrinus, il quale, non vincolato dallo jus civile né dalla ferraginosità delle legis

actiones, facendo ricorso ai concetti di aequum bonum e di bona fides,

creò un nuovo corpo di norme più moderne e adeguate ai cambiamenti sociali.

Successivamente, dal momento che anche i cives richiedevano stru- menti giuridici più agili, venne estesa la procedura formulare, tipica del

praetor peregrinus, anche a quello urbano il quale, durante la crisi della

repubblica, si assunse «apertamente l’iniziativa di tradurre in atto, nella risoluzione delle liti a lui sottoposte, le istanze di rinnovamento avanza- te dalla coscienza sociale»21, dando così vita a quello che in epoca clas- sica verrà denominato jus honorarium.

In tal modo la contrapposizione tra jus e aequitas veniva ad espri- mersi in due sistemi di regole, quella dello jus civile e quella dello jus

honorarium, sistemi che non si contrapponevano, bensì si completava-

no a vicenda22.

Nell’esperienza inglese, dal suo canto, la giurisdizione di equity as- sume rilievo nel momento di massima chiusura della common law.

Il sistema delle Corti regie era caratterizzato fin dalle origini da una notevole rigidità procedurale, tuttavia, tra il 1258 e il 1285 (Provisions

of Oxford e Statute of Westminister II) venne bloccato lo sviluppo della

lista dei writs23 e, conseguentemente, della possibilità per i soggetti di

21 A.G

UARINO, op. cit.

22 V.V

ARANO, op. cit., 3, afferma «il rapporto fra jus civile e jus honorarium fu un caratteristico rapporto di coesistenza, piuttosto che di antitesi, favorito dalla concentra- zione della giurisdizione nel praetor: in sostanza, lo jus honorarium derogava, ma non si sostituiva al jus civile, evolveva anzi da quest’ultimo, che nella considerazione dei romani restava pur sempre il vero diritto “adiuvanti vel supplendi vel corrigendi … gratia”, secondo la celebre definizione che ce ne ha lasciato Papiniano».

23 Nel diritto medievale inglese la domanda attorea doveva essere sostenuta da un

writs il quale rappresentava «null’altro che un ordine di comparizione tipizzato, idoneo

a fornire tutela ad un numero circoscritto di situazioni, già in potenza, giuridicamente tutelabili e, pertanto, predefinite». N.MONTICELLI, Equità ed Equity a confronto: espe-

ricevere una tutela adeguata. Il Cancelliere, difatti, non poteva fare altro che manipolare i writs esistenti.

A ciò si accompagnarono ulteriori fattori che impedivano alle corti di common law di fornire un rimedio adeguato, tra le altre cose, ad esempio, si resero più difficoltose le regole tecniche in materia di alle- gazioni e di prova.

In questo contesto, si creò la prassi di cercare giustizia nel sovrano,

fountain of justice, laddove le Corti di common law in sostanza la nega-

vano24.

Le petition rivolte al sovrano passavano per il vaglio del Lord

Chancellor, consigliere del re e, normalmente, appartenente all’ordine

ecclesiastico25, il quale in breve tempo diede vita alla giurisdizione di

Equity.

Tale giurisdizione si fondava su di una giustizia discrezionale ed ef-