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IUS EST REALIS ET PERSONALIS HOMINIS AD HOMINEM PROPORTIO»

DANTE E LA DEFINIZIONE DI DIRITTO IN MONARCHIA II, V, 1.

Giovanni Zaniol

«La prima volontà, ch’è da sé buona, da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. Cotanto è giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sé la tira, ma essa, radïando, lui cagiona» Pd XIX, 86-90

SOMMARIO:1. Introduzione. Dante e la cultura giuridica tra XIII e XIV se-

colo. 2. La definizione del diritto nel II Libro della Monarchia. 3. Il dibattito sulla definizione del diritto dai giuristi preaccursiani ai Commentatori. 4. Conclusione.

1. Introduzione. Dante e la cultura giuridica tra XIII e XIV secolo

Con la stesura del trattato intitolato Monarchia, Dante Alighieri, riunendo, esaminando (non poche volte in chiave critica) e rielaborando un ampio patrimonio di fonti scritturali, dottrinali e giuridiche, si fa partecipe del dibattito giuspubblicistico del suo tempo relativo al potere dell’Impero ed alla legittimazione di questo, alla forma più consona per permettere al genere umano di raggiungere i propri fini su questa terra ed ai rapporti tra il potere temporale e l’autorità spirituale.

Il trattato dantesco (pubblicato per la prima volta soltanto nel 1559 per i tipi dell’Oporinus, a Basilea) fu presto recepito dalla civilistica del primo Trecento (valga per tutti l’esempio del grande Bartolo da Sasso- ferrato, che lo cita espressamente in uno dei suoi Commentari) e per molto tempo circolò a stretto contatto con testi di dottrina squisitamente

giuridica. Anche i rapporti del poeta e uomo politico fiorentino con il mondo dei giuristi dovettero essere molto stretti: stando ai più accurati studi biografici su Dante1, egli soggiornò per motivi di studio a Bolo- gna in compagnia di amici che, oltre che uomini di lettere ed autori di componimenti poetici a tutti ben noti, furono anche giuristi. Dante stu- diò, infatti, con Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e soprattutto con una personalità di primissimo piano nella scienza giuridica di quel tempo come Cino da Pistoia, capostipite di una gloriosa tradizione di scienza giuridica ed iniziatore della Scuola del Commento2. Probabilmente il fiorentino compì nello specifico studi notarili (e dunque assai affini a quelli giuridici); se, quindi, “giurista” vero e proprio Dante non fu, nondimeno egli fu un profondo e fine conoscitore del diritto3. L’ele- mento giuridico e dottrinale (in primis la tradizione romanistica) fece sicuramente parte della sua formazione ed ebbe un posto di primaria importanza in tutta la sua produzione accanto ovviamente ai precetti della Sacra Scrittura e ad una moltitudine di auctoritates quali Aristote- le, Boezio, Seneca, Tommaso d’Aquino e Cicerone.

La Monarchia fu composta, secondo i più recenti e puntuali studi ora confluiti in una nuova edizione dell’opera4 (che ha finalmente valo-

1 Cfr. l’eccezionalmente documentato ed appassionante racconto della vita del fio-

rentino: M.SANTAGATA,Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, 2012.

2 Si tengano presenti, tuttavia, le osservazioni sviluppate nella più recente scheda

biografica dedicata al giurista e poeta pistoiese: P.MAFFEI,Cino Sinibuldi da Pistoia, in

Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. BIROCCHI, E. CORTESE,A.MATTONE,N.MILETTI, I, Bologna, 2013, 543-546.

3 Gli interrogativi a proposito di Dante e della possibilità di attribuirgli la qualifica

di “giurista” furono assai vivi soprattutto tra la fine del XIX secolo ed i primi decenni del XX (cfr.F.CANCELLI,Diritto romano in Dante, in Enciclopedia Dantesca, II, Ro- ma, 1970, 472-479, in particolare le indicazioni bibliografiche). Oggi pare più opportu- no approfondire, in senso più generale, la cultura giuridica del fiorentino attraverso un più attento esame delle fonti cui egli può aver fatto riferimento ed una maggiore atten- zione ai legami con la scientia iuris del suo tempo: in questa direzione muove, ad esempio, il contributo di C.DI FONZO,Dante e la tradizione giuridica, Roma, 2016. La vecchia questione del “Dante giurista”, tuttavia, è stata riproposta anche in tempi recen- ti: cfr. D.BIANCHINI JESURUM,Dante giurista? Sondaggi nella Divina Commedia, Tori- no, 2014, sorprendentemente incline a prestare fede a contributi datati ed infidi.

4 D

ANTE ALIGHIERI,Monarchia. Edizione commentata a cura di D.QUAGLIONI, Mi- lano, 2015. L’edizione è stata pubblicata anche in DANTE ALIGHIERI,Opere, edizione

rizzato il vasto patrimonio di fonti dottrinali e – soprattutto – giuridiche cui il fiorentino poté attingere), nel 1313, in un momento di fortissima tensione nelle relazioni tra il potere secolare e la più alta autorità spiri- tuale. Nata al di fuori degli ambienti delle universitates, la Monarchia dantesca partecipa, comunque sia, dei caratteri propri delle opere che vedevano la luce all’interno di questi ambienti: le stesse tre questioni affrontate in ciascuno dei libri del trattato, del resto, non sono comple- tamente originali, ma erano state già formulate dalla pubblicistica del secolo XIII e dei primi anni del XIV5. Dante, quindi, era pienamente coinvolto nel dibattito della cultura del suo tempo, era in un certo senso immerso nella cultura giuridica della prima metà del XIV secolo.

Gli anni cruciali in cui Dante medita e stende il suo trattato di dot- trina sono appunto quelli della discesa in Italia di Arrigo VII (che, ben- ché mai espressamente nominata, è il “momento spirituale”6, in cui il trattato trova la sua origine), al cui programma politico di restaurazione del potere imperiale e del suo prestigio la Monarchia sembra fare im- plicito richiamo. Ne è prova, ad esempio, la reiterata evocazione della pace che percorre tutto il trattato dantesco ed in particolare il Libro I, in cui Dante intende dimostrare la necessarietà dell’Impero e di un monar- ca a tutela del buon ordine del mondo7. Anche l’Enciclica emanata in occasione dell’incoronazione di Arrigo VII fa chiaro riferimento al- l’unità nella pace, che si concreta nella soggezione di tutti gli uomini ad un solo monarca. Il medesimo documento evoca pure le vicende di con- quista del popolo romano e ricorda come, ad esso, fu per volontà divina attribuito l’Impero su tutti i regni e tutte le nazioni:

Et quamvis huiusmodi principatus prioribus seculis in diversis fuerit nationibus quasi com gentibus a suo factore oberrantibus errans, novissime tamen appropinquante plenitudine temporis, quando idem

diretta da M.SANTAGATA, vol. II (Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe) a cura di G. FIORAVANTI,C.GIUNTA,D.QUAGLIONI,C.VILLA,G.ALBANESE, Milano, 2014.

5 Cfr. il commento alla Monarchia di B.N

ARDI in DANTE ALIGHIERI,Opere minori, Tomo II, a cura di P.V.MENGALDO,B.NARDI,A.FRUGONI,G.BRUGNOLI,E.CECCHINI, F.MAZZONI,Milano-Napoli, 1979, 286-287.

6 Cfr. l’introduzione di D.Q

UAGLIONI a D.ALIGHIERI,Monarchia, cit., in particolare alle XXXVI-XXVII.

Deus et dominus noster inenarrabili dignationis sue munificencia homo fieri voluit, ut hominem per culpe lapsus perditum et per obrupta deviaque viciorum labentem ad loca virtutum irrigua et eterne beatitudinis pascua virentia revocaret, dictum imperium transiit ad Romanos provide Dei disponente clemencia, quod illuc preiret imperialis excellencie thronus, ubi futura erat sacerdotalis et apostolica sedes, ac in eodem loco pontificis et imperatoris auctoritas refulgeret illius vicariam representans imaginem, qui pro nobis ex intemerato virginis utero natus sacerdos ipse sacerdocium eternum instituit ac tamquam rex regum et dominus dominorum ad culminis sui fastigium omnia trahens sub sue ditionis imperio universa subgessit8.

Molti documenti prodotti dalla cancelleria imperiale in quegli stessi anni, inoltre, somigliano molto al trattato dantesco e portano ad ipotiz- zare che Dante vi abbia lavorato attivamente, partecipando alla stesura (o quanto meno ispirando la redazione) di tali atti legislativi.

2. La definizione del diritto nel II Libro della Monarchia

Il Libro II del trattato dantesco è dedicato alla giustificazione, su ba- se storica e teologica (così come giuridica, si vorrebbe aggiungere) del- la prevalenza del popolo romano come potenza pacificatrice ed ordina- trice del mondo intero. Dante intende dimostrare che questo popolo ha rivendicato a sé, a pieno diritto (conformemente, cioè, ad una volontà superiore, e non attraverso la violenza e la prevaricazione), l’Impero su tutti gli altri regni, prevalendo per giudizio divino sui popoli che gareg- giavano per il dominio del mondo.

Il popolo romano, quindi, era stato ritenuto da Dio stesso il più de- gno di sperimentare concretamente nella storia quell’unità di comando descritta da Dante nel Libro I facendo ricorso ad argomentazioni filoso- fiche e logico-formali e già precedentemente tratteggiata nel Convivio9

8 Litterae encyclicae Imperatoris (29 giugno 1312), in MGH, Legum Sectio IV,

Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, n. 801, 801-804; si veda anche

l’introduzione di D.QUAGLIONI a DANTE ALIGHIERI,Monarchia, cit., XLII-XLIV.

9 Cv IV, IV, 7: «E questo officio per eccellenza imperio è chiamato, sanza nulla ad-

dizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento. E così chi a que- sto officio è posto è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandatori elli è coman-

come unica forma che permette al genere umano di perseguire il fine che gli è proprio10.

Accingendosi a trattare di questa memorabile esperienza fattasi ve- race testimonianza, Dante afferma di essersi inizialmente meravigliato della prevalenza dei Romani, ma di avere in seguito ben compreso da segni efficacissimi che ciò si inscriveva in un disegno provvidenziale e che la sovranità universale del popolo romano era stata l’unica ad esser- si formata a pieno diritto (Mn II, I, 2-3)11, realizzando in concreto «quod Deus in hominum sotietate vult»12.

datore, e quello che elli dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quello di costui prende vigore e autoritade. E così si manifesta la imperiale maiestade e autoritade essere altissima nell’umana compagnia».

10 Mn I, III, 6-8 e I, IV, 1-2. Il monarca, disfrancato dalla cupidigia (cfr. Cv IV, IV,

4: «Uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più deside- rare non possendo, li regi tegna contenti nelli termini delli regni, sì che la pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, [e] in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemen- te: che è quello per che esso è nato»), in qualità di curator orbis (Mn III, XVI, 11) è l’unico a garantire la tranquillitas pacis che è la migliore condizione in cui l’uomo può attuare la contemplazione da cui dipende il retto agire. Nel monarca, la giustizia (tanto come disposizione, quanto nel suo esercizio) è al più alto grado in tutta la sua portata di virtù suprema e totale (la più umana delle virtù proprio in quanto virtus ad alterum, come Dante stesso scrive in Mn I, XI, 7); in questo principio d’ordine universale per il governo delle cose temporali, alla liberazione dai vincoli della cupidigia si unisce quel- la recta dilectio che iustitiam acuit atque dilucidat (Mn I, XI, 13): sotto di lui la libertà dell’arbitrio si esprime in modo perfetto e tale da consentire all’uomo di compiere quel- l’attività che lo rende di poco inferiore agli angeli.

11 Cfr. anche Cv IV, IV, 8-9 e 11-12: «Però che la romana potenzia non per ragione

né per decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza, che alla ragione pare essere contraria. A ciò si può lievemente rispondere che la elezione di questo sommo ufficiale convenia primieramente procedere da quello consiglio che per tutto provede, cioè Dio […] Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione […] La forza dunque non fu cagione mo- vente, ma fu cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione instru- mentale del coltello, e l’anima del fabbro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma ragione, ragione ancora divina, conviene essere stata principio del romano imperio».

Per dimostrare la fondatezza del primato del popolo romano (che, attraverso la Lex regia13 aveva trasmesso all’imperatore la suprema au- torità ricevuta da Dio), Dante prende inizialmente in considerazione tre aspetti controversi: la nobiltà, come modo di acquisto dell’Imperium; il verificarsi di eventi miracolosi come interventi di una volontà superiore che si invera nella storia del mondo e conferisce a questa virtù carattere divino; il duello, cui si può giungere soltanto dopo aver praticato tutte le vie di un possibile compromesso e quando non è possibile adire un giudice, ed attraverso il cui esito Dio stesso assegna il premio al vinci- tore destinato al governo del mondo.

I Romani, dunque, acquisirono «de iure, non usurpando, Monarche offitium»14 e Dante ne dà prova attraverso una serie di argomentazioni fondate su principi razionali e su altri principi relativi alla fede cristia- na. Quello romano, innanzitutto, fu il popolo maggiormente nobile e per questo motivo ad esso spettava di essere preposto a tutti gli altri popoli. Il popolo romano si era reso nobile per merito della virtù, pro- pria e dei suoi antenati (e, nel caso di Enea, anche attraverso il coniu-

gium), e per averne testimonianza fededegna Dante ricorre, citandoli, a

Livio, Lucano e Virgilio15.

Il volere divino si manifestò in terra anche per mezzo di miracoli, di cui l’Impero romano poté beneficiare per affermare la propria suprema- zia. Quanto avviene per volere divino (in questo caso, il miracolo: ciò che, fuori dall’ordine delle cose comunemente costituito, accade per intervento di Dio)16 avviene di diritto, giacché quanto si compie per volontà divina non può essere contra ius. Il fiorentino porta poi a soste- gno della sua affermazione una lunga serie di illustri ed autorevoli te-

13 Inst. 1, 2, 6 e D. 1, 4, 1. Cfr. C.D

I FONZO,Dante tra diritto, letteratura e politica, in Forum Italicum, 41/1 (2007), 5-22, in particolare 3-6; cfr. anche Ordinamento co-

smologico e ordinamento giuridico: una specularità ordinata, in EAD., Dante tra dirit-

to, teologia ed esegesi antica, Napoli, 2012, 13-36.

14 Mn II, III, 1.

15 Cfr. il commento di D.Q

UAGLIONI a Mn II, III, 6in DANTE ALIGHIERI,Monar-

chia, cit., 179: «Qui, come nel Convivio e nella Commedia Virgilio, insieme con Livio,

non solo “garantisce la verità storica” (Vinay), ma offre il superiore insegnamento mo- rale per il quale gli stessi giuristi contemporanei di Dante ammettevano che nel difetto o nel silenzio delle norme giuridiche fosse lecito allegare i poeti».

stimonianze (tanto più necessarie quanto più difficile è la prova di un miracolo) dei segni visibili ed inconfondibili dell’intervento di Dio nel- la storia del popolo romano e di quell’Impero da Lui stesso voluto e destinato a conseguire de iure la supremazia su tutti gli altri popoli del- la terra17.

L’assetto argomentativo concepito ed illustrato da Dante nel Libro II della Monarchia si amplia ulteriormente nel capitolo V. Chi persegue il bene della cosa pubblica, spiega il fiorentino, persegue il fine stesso del diritto. Per cogliere completamente quale sia il fine del diritto, tuttavia, è necessario che del diritto stesso venga data una definizione. Così si esprime Dante nel capitolo centrale dell’intero trattato:

Quicunque preterea bonum rei publice intendit, finem iuris intendit. Quodque ita sequatur sic ostenditur: ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio, que servata hominum servat sotietatem, et corrupta corrumpit – nam illa Digestorum descriptio non dicit quod quid est iuris, sed describit illud per notizia utendi illo –; si ergo definitio ista bene “quid est” et “quare” comprehendit, et cuiuslibet sotietatis finis est comune sotiorum bonum, necesse est finem cuiusque iuris bonum comune esse; et inpossibile est ius esse, bonum comune non intendens. Propter quod bene Tullius in Prima rethorica: semper – inquit – ad utilitatem rei publice leges interpretande sunt. Quod si ad utilitatem eorum qui sunt sub lege leges directe non sunt, leges nomine solo sunt, re autem leges esse non possunt: leges enim oportet homines devincire ad invicem propter comunem utilitatem. Propter quod bene Seneca de lege, cum in libro De quatuor virtutibus, legem “vinculum” dicit “humane sotietatis”18.

La definizione dantesca, divenuta celebre e citata più volte come uno dei più felici esempi di operazione definitoria del diritto19, mira ad

17 Mn II, IV, 2-11, a ripresa di un discorso già formulato in Cv IV, V, 12-20. Cfr. il

commento di D.QUAGLIONI in DANTE ALIGHIERI,Monarchia, cit., 193-194, a proposito della problematica distinzione tra miraculum e mirum (vale a dire tra eventi preternatu- rali avvenuti per volontà di Dio ed operazioni prodigiose, ma non qualificabili come veri e propri miracoli) che Dante può aver ritrovato nel Decretum.

18 Mn II, V, 1-3.

19 Cfr. il brillante saggio di P.F

IORELLI, Sul senso del diritto nella «Monarchia», in

“integrare” il passo del Digesto in cui, a parere di Dante, una definizio- ne vera e propria non è dato trovare:

Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. Est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitia profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes20.

Dante si propone di cogliere la vera essenza del diritto, di quel dirit- to che è ratio scripta, inscindibilmente legato alla giustizia anche nel concreto svolgersi di ogni azione umana. L’obiettivo non è soltanto quello di descrivere le finalità e gli usi del diritto (come invece si era limitato a fare Celso nel passo collocato in apertura del Digesto e vol- garizzato da Dante stesso nel Convivio)21, ma di colmare la lacuna defi- nendo la vera sostanza di quel diritto che può continuamente trasfor- marsi e modificarsi proprio in quanto è proporzione tra un uomo ed un altro uomo, è un vincolo tra relazioni umane che da questo (e grazie o a causa di questo) si conservano o si corrompono.

Celso, a parere di Dante, aveva elegantemente descritto il diritto sol- tanto nella sua dimensione empirica, ma non era stato in grado di co- glierne il carattere essenziale, quella sostanza che fa essere una cosa ciò che è, quel che non viene modificato dai dati mutevoli dall’esperienza.

Il diritto, inteso come rapporto proporzionale, prende vita tanto nel- l’ambito dei rapporti personali quanto in quello dei rapporti reali; è una “proporzione nella relazione”22, chiaramente legata a quella giustizia

20 D. 1, 1, 1 e D. 1, 1, 2.

21 Cfr. Cv IV, IX, 8: «E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia

equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la ragione scritta e per mostrarla e per comandarla. Onde Augustino: Se que- sta – cioè equitade – li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la ragione scrit- ta non sarebbe mestiere; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: “La ragione scritta è arte di bene e d’equitade”».

22 «Proportio è termine che può voler dire tanto analogia di trattamento dei soggetti

«la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose»23, carat- terizzata dal principio di relazione la cui custodia permette all’uomo di restare zoon politikòn. Nel trattato dantesco, dunque, il diritto si fa mi- sura proporzionale delle relazioni umane contraddistinta da una neces- saria intersoggettività. Tale misura, se conservata, ha la forza di conser- vare le relazioni umane; se corrotta, al contrario, rompe il vincolo so- ciale non ponendo freno alcuno alla cupidigia degli uomini.

La definizione dantesca mira a cogliere la sostanza e gli effetti di un vincolo sociale che deve tenere insieme un’intera società24 garantendo in essa la pace. Anche nella Monarchia, perciò, il diritto è non soltanto “ragione”, bensì ratio scripta25. Il ragionamento intorno alle prime (e fondamentali) righe del Digesto, non privo di una nota critica, è dettato dal proposito di non limitarsi a cogliere gli usi del diritto, bensì la sua

quidditas, la sua essenza. Il fiorentino si mostra assai ferrato nella co-

noscenza del Decretum, della più qualificata ed autorevole canonistica e delle Decretali, della Glossa accursiana e del pensiero dei giuristi preaccursiani, cui la sua riflessione intende idealmente riallacciarsi.

La definizione del diritto contenuta in Mn II, V, 1 si inserisce in un