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LA DEFINIZIONE GIURIDICA TRA TOPICA E TOPOLOGIA

Alvise Schiavon

SOMMARIO: 1. Osservazioni generali. 2. La definizione dantesca di diritto

tra retorica e dialettica. 3. Giurisprudenza CEDU e topologia della definizio- ne.

1. Osservazioni generali

Nessuno dei due puntuali e interessanti interventi con cui mi è stato chiesto di entrare in dialogo in questa bella occasione di incontro scien- tifico (e umano) attorno al problema delle definizioni nel diritto si rife- risce direttamente al mio ambito specifico di ricerca, il diritto romano: accostandomici, temevo di non poter far altro che ammettere la mia incompetenza di fronti a temi complessi e suggestivi come la giurispru- denza CEDU o la cultura giuridica di Dante e dei suoi contemporanei.

Eppure di fronte ad essi ho avuto l’impressione di muovermi in un ambiente familiare, in cui in qualche modo riuscivo ad orientarmi no- nostante l’assenza di conoscenze specifiche. Forse questa sensazione di familiarità dipende dal tipo di esperienze giuridiche cui questi interventi si riferiscono: in effetti, l’ordinamento del diritto comune medievale – che rappresenta il fondale e l’oggetto della ricerca di Giovanni Zaniol – e l’attuale ordinamento sovranazionale europeo – di cui l’intervento di Daria Sartori riporta un interessante spaccato – condividono con l’espe- rienza giuridica romana alcuni caratteri di fondo, che rendono il dialogo tra studiosi di queste materie più semplice.

Rispetto agli ambiti del giuridico che si pretendono pienamente po- sitivizzati e legificati, infatti, queste esperienze testimoniano di un di- verso modo di costruire e intendere il fenomeno giuridico, trattandosi in tutti i casi di ordinamenti difficilmente riducibili a un sistema chiuso di norme positive, e di culture giuridiche non appiattite sul mito dell’ap-

plicazione deduttiva della legge: al carattere giurisprudenziale e contro- versiale della scienza giuridica si accompagna dunque in questi casi la natura aperta dell’ordinamento giuridico1 sottostante, non riducibile a un corpus dato di norme proprio a causa del particolare ruolo “creativo” svolto dalla scienza giuridica2. Ho quindi cercato di interrogare questi lavori tenendo a mente le caratteristiche comuni ai nostri ambiti di ri- cerca, sapendo che così facendo non riuscirò a dar conto delle altre in- numerevoli suggestioni che essi potrebbero offrire a studiosi di altre discipline.

Forse è anche a causa del particolare abito mentale necessario allo studio di simili esperienze giuridiche che entrambi gli interventi rinun- ciano a fornire preliminarmente una qualsiasi “definizione di definizio- ne”, ovvero a cristallizzare in partenza l’oggetto della propria ricerca. Essi paiono approcciarsi ai rispettivi problemi (il punto di vista di Dan- te e della civilistica sua contemporanea sulla definizione celsina del diritto in D.1.1.1 pr. e i caratteri peculiari dell’attività interpretativa e definitoria nel quadro della giurisprudenza CEDU) non apoditticamen- te, applicando ai fenomeni studiati un concetto astratto e normativo di definizione, ma piuttosto per opposizione: per capire cosa si intende nei rispettivi contesti giuridici (cultura giuridica medievale e giurispruden- za CEDU) per definizione, i due interventi sembrano obbligati a non affrontare direttamente il problema circa la natura della definizione ma a concentrarsi piuttosto su alcuni fenomeni che, situandosi ai margini dell’attività definitoria, ne descrivono la relazione con altre figure che definizione non sono. Così per quanto riguarda il rapporto tra definizio- ni e interpretazione evolutiva, nel caso dell’intervento sulla giurispruden-

1 Mi riferisco naturalmente alla contrapposizione tra sistemi giuridici “chiusi” e

“aperti” elaborata da J. Esser (cfr. J. ESSER, Grundsatz und Norm4, Tübingen, 1990, 44, nota 140): «i primi incentrati pressoché interamente su una struttura espressa di norme, fissata e modificabile attraverso i meccanismi dell’autorità statuale; i secondi, invece, costituiti per lo più da un insieme di soluzioni casistiche dovute all’interpretazione creatrice di esperti in via consulente o giudiziaria» (così G. SANTUCCI, La legge nel-

l’esperienza giuridica romana, in U. VINCENTI (a cura di), Inchiesta sulla legge nel-

l’Occidente giuridico, Torino, 2005, 33 ss., cui rinvio per alcuni essenziali riferimenti

alla dottrina romanistica).

2 Inevitabile il riferimento all’ormai classico lavoro di L. L

OMBARDI, Saggio sul

za CEDU, e per quanto riguarda la differenza tra definitio e daescriptio attorno a cui ruota la riflessione di Dante, nonché quella di alcuni tra i maggiori rappresentanti della cultura giuridica medievale.

La posizione dell’oggetto della ricerca, invece di esserne il presup- posto, finisce per esserne l’esito: solo attraverso l’instaurazione di una relazione tra fenomeni diversi si può arrivare a fissare, temporaneamen- te, il confine tra ciò che è definizione e ciò che non lo è. Parafrasando una tradizionale distinzione si potrebbe dire che entrambi i lavori si propongono di indagare quid est definitionis, piuttosto che tendere a alla ricostruzione o comprensione della sua essenza, il quid est defini-

tio.

2. La definizione dantesca di diritto tra retorica e dialettica

L’intervento di Giovanni Zaniol introduce innanzitutto la questione generale, assolutamente centrale rispetto al tema del Seminario, relativa al rapporto tra diritto e letteratura. Da un lato, la preliminare ricogni- zionedei rapporti tra Dante e la cultura giuridica del suo tempo serve a ridare al Monarchia, sulla scia delle più attente letture dell’opera dante- sca, la sua consistenza di opera calata nella cultura giuridica del tempo e nei dibattiti che agitavano la coeva dottrina giuridica, specialmente pubblicistica3. Da un altro lato, essa serve però forse anche a ricordare che il pensiero giuridico, pur innegabilmente dotato di sue specificità, non può intendersi come isolato, totalmente indipendente rispetto agli altri ambiti del sapere: in questo senso, ciò vale anche come un monito metodologico a tutto il Seminario, dedicato a un tema che evidentemen- te richiede, pur restando con i piedi radicati nella tradizione del pensie-

3 Cfr. il contributo di Zaniol, in questo volume, 23 ss. Si rinvia in primo luogo alla

Introduzione di D. Quaglioni alla nuova edizione critica dell’opera dantesca in DANTE ALIGHIERI,Monarchia. Edizione commentata a cura di D.QUAGLIONI, Milano, 2015. L’autore aveva però già avuto modo di mettere a punto le linee essenziali della sua ricostruzione in D. QUAGLIONI, Dante e la tradizione giuridica romana nel libro II

della «Monarchia», in A. PALAZZO (a cura di), L’antichità classica nel pensiero medie-

vale. Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (Trento, 27-29 settembre 2010), Porto, 2011, 253 ss.

ro giuridico, di alzare lo sguardo a interrogare anche ciò che sta al di fuori di quei confini.

In particolare, tra le diverse questioni affrontate nel Monarchia as- sume un significato centrale per il nostro Seminario quella circa la esat- ta natura della nota definizione celsina di diritto, riportata in apertura del Digesto (D.1.1.1 pr.), come ars boni et aequi4. Inserendosi in un dibattito che aveva occupato alcuni tra i più autorevoli giuristi dell’epo- ca dei glossatori e dei commentatori, Dante nega che quella elaborata da Celso e collocata dai compilatori in apertura del Digesto5 possa esse- re considerata in senso proprio una definizione del diritto; la qualifica del diritto come ars boni et aequi dovrebbe più correttamente conside- rarsi mera descrizione del fenomeno giuridico dal punto di vista empi- rico, mentre fallirebbe nel coglierne l’essenza, la sostanza, la vera natu- ra in quanto tale immutabile nei secoli6. Per ciò egli propone di definire alternativamente la sostanza del diritto come «realis et personalis hominis ad hominem proportio». L’argomentazione di Zaniol, e soprattutto la distinzione (che però è in primis messa in relazione) operata da Dante tra le due definitiones del diritto, mi hanno suscitato due ordini di con- siderazioni, in qualche modo intrecciate tra loro.

Innanzitutto, le due operazioni definitorie si differenziano su un pia- no contenutistico, poiché mentre Celso si riferisce al diritto come ars, Dante allude al fenomeno giuridico come proportio. La differenza mi sembra particolarmente indicativa. Nella prospettiva celsina il diritto appare come prodotto artificiale di una tecnica, di un’attività umana che presuppone una classe di giuristi che riconoscono e seguono dei canoni condivisi che rendono quell’attività – appunto – una ars7. Diversamen-

4 Riporto per comodità la fonte nella sua integrità, D.1.1.1 pr. (Ulpianus libro primo

inst.) Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter celsus definit, ius est ars boni et aequi.

5 In realtà la fonte in parola è attribuita a Ulpiano: la genuinità del frammento e

della citazione ulpianea del pensiero di Celso è ammessa pacificamente dalla dottrina: per tutti lo afferma recisamente da ultimo G. FALCONE, La “vera philosophia” dei

“sacerdotes iuris”. Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi (D.1.1.1.1), in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo, 49, 2004, 1 ss., 3.

6 Cfr. il contributo di Zaniol, in questo volume, 23 ss.

7 La tesi secondo cui la definizione celsina esprimerebbe una concezione artificiale

te, nell’accezione dantesca il diritto è inteso come proportio, come re- lazione tra cose e persone che non richiede (per la sua esistenza?) – al- meno apparentemente – alcuna attività creativa specifica dell’uomo, poiché impressa nella natura, e che dunque esisterebbe anche senza al- cun giurista (o legislatore) ad enunciarla. Non appare casuale in questo senso il riferimento a una nozione matematica come quella di propor-

tio, la cui conoscenza non richiede alcuna attività umana se non la rico-

gnizione8.

Tale definizione è certamente coerente con l’immagine del diritto romano giustinianeo come ratio scripta – valida immutabilmente per- ché espressione della volontà divina immodificabile dall’uomo – che permea la Monarchia9; ed essa è dunque funzionale a suffragare la tesi,

che Dante argomenta proprio nel contesto ove propone la sua definitio, della legittimità e giuridicità dell’imperium romanum e, dunque, del- l’impero federiciano, in quanto conquistati e governati de iure. È evi- dente che affinché possa assolvere a tale funzione argomentativa, il di- ritto non può essere inteso come prodotto dell’attività fallibile umana, ma piuttosto come espressione di una proporzione fissata nell’ordine delle cose.

Più in generale però, estremizzando le tesi di recente sviluppato da Filippo Gallo in un volume significativamente intitolato Celso e Kel-

ha sviluppato riflessioni originali e profonde: mi limito per ora a ricordare F. GALLO,

Sulla definizione celsina del diritto, in Studia et documenta historiae et iuris, LIII, 1987

e ID., Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto, in Studia et documenta historiae et

iuris, LIV, 1988, 8 ss.

8 Si ricordi che nel Convivio Dante aveva scritto che «la Geometria è bianchissima,

in quanto è sanza macula d’errore e certissima per sé» (Cv., II, XIII, 27), dimostrando di intendere il particolare valore epistemologico dei concetti matematici. Sul tema già il pionieristico lavoro di H. D. AUSTIN, Number and Geometrical Design in the Divine

Comedy, in The Personalist, 16, 1935, e, da ultimo, T. E. HART, Geometric Metaphor

and Proportional Design in Dante’s Commedia, in G. DI SCIPIO, A. SCAGLIONE (a cura di), The Divine Comedy and the Encyclopedia of Arts and Sciences: Acta of the

International Dante Symposium, 13-16 Nov. 1983, Amsterdam-Philadelphia, 1988.

9 Come nota Zaniol (in questo volume, 23 ss.) sulla scorta della autorevole ricostru-

zione di D. QUAGLIONI,“Arte di bene e d’equitade”. Ancora sul senso del diritto in

sen10, si potrebbe dire che mentre la “definizione” celsina del diritto rimanda pienamente a una concezione sapienziale, giurisprudenziale e casistica del diritto, tipica della cultura giuridica romana classica, quella fornita da Dante nel Monarchia pare compatibile con la concezione astratta, precettiva e non controversiale del diritto che si è fatta largo nella cultura giuridica moderna a partire dal giusnaturalismo.

Il secondo ordine di considerazioni attiene invece alle diverse quali- ficazioni date da Dante alle due operazioni logiche: daescriptio per quella celsina, intesa come mera individuazione dei caratteri empirici dell’oggetto (il diritto, in questo caso); definitio invece per la propria, intesa come individuazione dei caratteri astratti ed intellettuali della nozione di ius. Forse tale distinzione, se riguardata dal punto di vista dello svolgimento della storia della logica giudiziaria, potrebbe in realtà rimandare a una ambiguità di fondo del concetto di definizione applica- to all’ambito giuridico.

Nella retorica antica – specialmente in quella giudiziaria – occupava come noto un posto fondamentale la cosiddetta dottrina degli status11, un particolare apparato di regole relative al reperimento (inventio) degli argomenti e delle questioni rilevanti per la costruzione di un discorso retorico. Tale termine indica dunque i diversi punti su cui deve conver- gere la discussione delle parti affinché una controversia possa conside- rarsi costituita, ovvero dotata di un fondamento logico12. Non sorprende che tale dottrina retorica abbia trovato il suo campo applicativo più im- portante nell’ambito della prassi giudiziaria in età romana classica13,

10 F. G

ALLO, Celso e Kelsen. Per la rifondazione della scienza giuridica, Torino, 2010, spec. 67 ss. e 132 ss.

11 Tale dottrina conosce una storia lunga e complessa che affonda le radici nella

tradizione peripatetico-accademico di Ermagora di Temno e si snoda lungo tutta la storia della cultura romana: per lo studio di questa tradizione rimangono fondamentale la ricostruzione di L. CALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina degli “status” nella retorica

greca e romana, Hildesheim, 1988, nonché le ricerche di ANTOINE BRAET (The Classi-

cal Doctrine of “Status” and the Rhetorical Theory of Argumentation, in Philosophy & Rhetoric, 20 (2), 1987, 79 ss.; ID., Variationen zur Statuslehre von Hermagoras bei

Cicero, in Rhetorica: A Journal of the History of Rhetoric, 7 (3), 1989, 239-259).

12 Per tutti L. C

ALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina degli status, cit., 2.

13 Si vedano in particolare L. C

ALBOLI MONTEFUSCO, Logica, retorica e giurispru-

dove finì per rappresentare l’impalcatura logica dello scontro dibatti- mentale necessaria per giungere a un giudizio accettabile14. Le diverse questioni tipiche attorno cui la controversia retorica deve svilupparsi erano poi tradizionalmente suddivise in due genera in ragione della na- tura dell’oggetto che miravano a discutere: rationales quelle che mira- vano a chiarire se un fatto era avvenuto e come, legales quelle che in- vece dovevano giungere ad attribuire un significato ad un enunciato normativo15.

In questo quadro – che pur con oscillazioni è sostanzialmente accet- tato dagli autori che hanno accettato e sviluppato la dottrina degli

status16 – il cosiddetto status definitionis (o definitivus) riveste una po-

ro giuridico romano: dall’età dei pontefici alla scuola di Servio: atti del Seminario di S. Marino, 7-9 gennaio 1993, Torino, 1997, 209 ss. («essa si pone addirittura come la

schematizzazione teorica di casi reali», 209), nonché U. WESEL, Rhetorische Statuslehre

und Gesetzesauslegung der römischen Juristen, Köln, 1967 (spec. 24, ove si legge «der status ist also ein typischer Streitpunkt der gerichtlichen Auseinandersetzung»).

14 La bibliografia relativa all’influsso della retorica greca sulla cultura giuridica

romana è sterminata, nell’imbarazzo di dover indicare qualche riferimento bibliografico mi limito qui a segnalare il seminale lavoro di J. STROUX, Summum ius summa iniuria:

ein Kapitel aus der Geschichte der interpretatio iuris, Berlin-Leipzig, 1926 e la recente

sintesi del dibattito che da quell’opera si è generato in H. HOHMANN, Classic Rhetoric

and Roman law: Reflections on a debate, in Jahrbuch Rhetorik, 15, 1996, 15 ss. Con

particolare riguardo alla penetrazione della dottrina degli status entro la cultura giuridi- ca romana, oltre ai già citati lavori di L. Calboli Montefusco e U. Wesel, mi sembrano particolarmente significative le ricerche di R. MARTINI, Antica retorica giudiziaria (gli status causae), in Studi senesi, 116, 2004, 30 ss., E. MEYER, Die Questionen der Rheto-

rik und die Anfange der Juristischen Methodenlehre, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 68, 1951, 30 ss. e J. SANTA CRUZ, Der Einfluß der

rhetorischen Theorie der Status auf die römische Jurisprudenz, insbesondere auf die Auslegung der Gesetze und Rechtsgrschäfte, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 75, 1958, 91 ss.

15 Così ad esempio si esprime Quintiliano nella Institutio oratoria (III, 5, 4),

riportando il pensiero di Ermagora stesso: Illud iam omnes fatentur, esse quaestiones

aut in scripto aut in non scripto. In scripto sunt de iure, in non scripto de re: illud rationale, hoc legale genus Hermagoras atque eum secuti vocant, id est νομικόν et λογικόν.

16 Così almeno, in un quadro di relativa fluidità delle concettualizzazioni, nelle si-

sizione ambigua17. Esso deve intendersi, almeno in prima approssima- zione, come il profilo della controversia relativo alla qualificazione del fatto, alla sussunzione dunque di un evento, la cui sussistenza non è in discussione, entro una determinata classificazione (per quello che qui maggiormente importa, giuridica). Un esempio ricorrente nelle fonti è quello relativo alla controversia circa la qualifica del furto da un tempio come peculato, qualora si intendessero queste come res publicae, ovve- ro come sacrilegio, qualora le si intendessero come res divini iuris18.

A uno sguardo superficiale, appare subito evidente che l’operazione di attribuzione di un nomen a un fatto sia difficilmente riducibile al- l’uno o all’altro dei genera (legale e razionale) sopra ricordati, dal mo- mento che in essa sembrano convivere il giudizio sulla ricostruzione del fatto (rationale) e quello sul significato dell’enunciato legislativo (lega-

le). In un certo senso, lo status definitionis inteso come giudizio sulla

corrispondenza tra fatto e nomen rappresenta una zona di indistinzione tra i due genera. Tale sensazione è corroborata dalla lettura delle fonti antiche, che trattano questo status con ambiguità sia al momento di de- scriverne la natura sia, conseguentemente, al momento di ricondurlo al- l’uno o all’altro dei genera.

Per quanto concerne il primo profilo, mi sembrano indicative di questa ambivalenza le espressioni con cui le fonti descrivono l’opera- zione intellettuale in parola19: in alcuni luoghi si dice che essa verta sul

quid sit, con ciò sottolineando soprattutto la sua natura di giudizio sul

fatto, mentre in numerosi altri luoghi – soprattutto ciceroniani – si pre- ferisce indicare la questione come quo nomine vocetur o quod nomen

habet, ponendosi così l’accento sul profilo di attribuzione di significato

a un nomen. Nello status definitionis dunque i due profili – ricostruzio- ne del fatto e ricostruzione del significato dell’espressione legislativa –

ad Herennium e della Institutio oratoria di Quintiliano: si veda per uno sguardo di sin-

tesi U. WESEL, op. cit., 24 ss.

17 Cfr. L. C

ALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina degli status, cit., 77 ss. e spec. 79 ss., nonché A. MARTINI, Antica retorica, cit., 61 ss.

18 Esempio classico riportato tra gli altri da Quintiliano, Inst. VI, 3, 38 e da

Cicerone, De Inventione, I, 11.

19 Si vedano i testi riportati e discussi in L. C

ALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina

sembrano a tal punto sovrapposti tra loro da risultare difficilmente se- parabili anche nell’analisi dei retori antichi.

Non stupisce dunque, arrivando così al secondo ordine di problemi, che tale oscillazione nel descrivere l’operazione definitoria si sia tradot- ta in un’analoga difficoltà a inquadrare tale status all’interno dei due

genera: così mentre nella Rhetorica ad Herennium (I, 19) – di autore

sconosciuto, databile attorno al primo secolo a.C.20 – essa è ascritta al

genus legale, nella sua Intitutio oratoria Quintiliano la pone invece nel

campo degli status rationales (III, 6, 66). Una posizione isolata e parti- colare, ma rivelatrice della natura ambigua dello status definitionis, è quella assunta da Cicerone nel De inventione. In quest’opera infatti la

definitio è nominata in entrambi i genera: in quello rationale come con-

troversia di fatto relativa al quod factum est, quo nomine appelletur (1, 11); in quello legale come controversia sul significato di un termine giuridico (in scripto verbum aliquod est positum, cuius de vi quaeritur; 2, 153).

Dunque nella dottrina romana degli status la questione definitoria rivestiva una posizione ambigua: in essa sembrano infatti convivere caratteri del giudizio sul fatto, che la avvicinano al genus rationale, e di quello sul significato astratto di un enunciato legislativo, che imporreb- bero di collocarla nell’alveo degli status legales.

In questo quadro, la critica di Dante alla definitio celsina risultereb- be difficilmente comprensibile: negare la natura di definizione sulla base di una netta contrapposizione tra daescriptio, analisi empirica, e

definitio come ricostruzione astratta e concettuale, non appare coerente

con il quadro fin qui delineato.

Per gettare una luce sul significato della critica dantesca, occorre se- guire la storia della teoria degli status nel medioevo e nella prima età moderna21. Essa infatti in una prima fase penetra nella logica (e nella

20 Per tutti l’introduzione di G. C

ALBOLI, Cornifici Rhetorica ad C. Herennium2, Bologna, 1993. La vicenda della (probabilmente) falsa attribuzione dell’opera a Cicero-