I fascisti lucchesi sopravvissuti alle vicende belliche rientrarono in provincia alla spicciolata nella tarda primavera del 1945. Con il loro ritorno iniziarono anche i loro arresti: in molti, soprattutto gli ex militi GNR, finirono rinchiusi presso il campo per prigionieri di guerra sito a Coltano (Pisa) mentre per i brigatisti, come lo stesso Sebastiani, si aprirono le porte del carcere cittadino di San Giorgio; alcuni militi riuscirono invece a rimanere nascosti, sfuggendo alla rete della polizia.
Olivieri venne arresto a Vicenza e tradotto in seguito a Lucca. Qui fu giudicato colpevole di “peculato continuato” e condannato a due anni e mezzo di reclusione; il resto delle accuse caddero per mancanza di prove mentre il delitto di collaborazionismo era decaduto a seguito dell'amnistia309. La Corte di cassazione annullò, il 24 giugno 1949 la
condanna di peculato, revocando il mandato di cattura nei confronti di Olivieri, resosi latitante dopo la prima sentenza310: l’ultimo Capo provincia della Lucchesia tornò così ad essere un
uomo libero.
Mario Piazzesi fu catturato subito dopo il termine del conflitto ma non fu tradotto a Lucca. Fu invece giudicato ad Alessandria, dove aveva svolto l'attività di Capo provincia fino ai giorni della Liberazione. Accusato di collaborazionismo con il tedesco invasore, di furto a danni di ebrei internati e di abuso di potere riuscì a salvarsi dal processo rifugiandosi in Messico311.
308 Ivi, p. 539.
309 Corte di Assise di Lucca, 22/12/1948, in Procedimento penale contro Piazzesi Mario, Messori Bruno ed altri,
busta 23 fascicolo 8, Fondo Processi, Iserc
310 Corte Suprema di Cassazione, Udienza del 24 giugno 1949, busta 23 fascicolo 8, Fondo Processi, Iserc 311 Procura della Repubblica di Lucca, Procedimento penale contro Piazzesi Mario, busta 23 fascicolo 8, Fondo
L’ex Capo della provincia Morsero fu invece meno fortunato in quanto era stato fucilato dai partigiani del vercellese durante i giorni dell’insurrezione generale.
Messori e Cerboneschi, i vertici dell’ufficio politico investigativo di Lucca, furono condannati per collaborazionismo ed efferate violenze; Messori fu inoltre ritenuto responsabile delle morti di Trento Benassi, Alberto Galanti, Vittorio Monti e di Domenico Randazzo. Rispettivamente ricevettero 26 anni e 8 mesi il primo e 12 anni di reclusione il secondo. Entrambi riuscirono però a sottrarsi alle aule di tribunale: Cerboneschi riuscì ad evadere dal carcere il 17 aprile 1946 scomparendo così nel nulla mentre Messori, resosi latitante, emigrò in Spagna312 dove si rifece una vita diventando direttore di albergo a
Barcellona313. Entrambi giudicati in contumacia, non scontarono mai la loro pena.
Già all’indomani del passaggio del fronte dal territorio provinciale era iniziata la raccolta delle denunce a carico dei militi della 36ª e si erano avviate le indagini inerenti al crimine di collaborazionismo militare con l’invasore tedesco. Le prime udienze iniziarono ad essere celebrate nel tardo agosto 1945314 ma nel giro di due anni, la Sezione Istruttoria della
Corte di appello di Firenze prosciolse per insufficienza di prove gli ex brigatisti dalle accuse inerenti ai rastrellamenti e ai fatti della Certosa di Farneta: fondamentalmente furono assolti da tutte le azioni che avevano visto una collaborazione tra le forze nazifasciste, vedendo nei repubblicani soltanto dei meri esecutori degli ordini tedeschi. Rimasero in piedi soltanto le accuse riguardanti gli omicidi compiuti nel tardo settembre 1944 a Castelnuovo in quanto i capi di imputazione relativi al rastrellamento di San Lorenzo a Vaccoli, alle grassazioni e alle “sevizie non particolarmente efferate” erano caduti in prescrizione a seguito dell’entrata in vigore dell’amnistia Togliatti (luglio 1946).
Anche gli indiziati per i fatti di sangue di Castelnuovo, nonostante fossero stati riconosciuti colpevoli di pesanti accuse (strage, sevizie efferate ed omicidio aggravato)315 e
puniti con pene severe dalla Corte d’Assise speciale di Lucca (27 novembre 1947), nel giro di pochi anni poterono tornare in libertà. La Corte d’Assise di Firenze, incaricata dalla II Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione di riesaminare i casi, nel marzo 1950, accreditò agli imputati molte attenuanti, annullando la totalità degli ergastoli, convertiti in pene detentive di 19 anni, e riducendo di molto gli anni di reclusione inflitti agli altri accusati dalla Corte di Lucca; sei ex brigatisti furono addirittura scarcerati “per non aver commesso il fatto”316.
312 Procedimento penale contro Cerboneschi Camillo ed altri, busta 24 fascicolo 1, Fondo Processi, Iserc. 313 P. Sebastiani, Misi l’elmo. La giovinezza bruciata di un combattente della R.S.I., Mursia, Milano, 1996, p.
88.
314 Sebastiani, La mia guerra, cit., p. 160.
315 E. Dal Poggetto, L. Rossi, M. Rossi, A. Ricci furono condannati all’ergastolo mentre altri ex brigatisti
A seguito dei ricorsi presentati, le pene detentive rimaste furono ulteriormente diminuite dalla Corte di Assise di Appello di Perugia. Nel dicembre 1952 il tribunale, rinomato per i casi di facile proscioglimento dei fascisti e per questo soprannominato “ammazzasentenze”317,
limitò le pene più alte a nove anni di carcere. Gli altri condannati rimasti furono invece assolti del tutto, in quanto il crimine di collaborazionismo militare era stato anch’esso amnistiato e “per non aver commesso i fatti” a loro attribuiti. Entro il 1954 anche i militi responsabili di torture atroci, sevizie e sanguinosi omicidi riacquistarono la libertà.
Conclusioni
Leggendo lo scritto di Giuseppe Pardini, Gli italiani siamo noi. Guerra, Repubblica Sociale e
Resistenza in provincia di Lucca (1940-1945), unica opera di rilevanza inerente alla Lucchesia nella
sua interezza durante gli anni del secondo conflitto mondiale, si può avere un’impressione forviante della realtà provinciale sotto il governo salodiano. In tale testo, molto più interessato all’aspetto economico che a quello della guerra, la violenza repubblicana può sembrare qualcosa di casuale ed episodico, priva di un vero e proprio significato; le stesse brutalità tedesche appaiono quasi come avvenimenti fortuiti.
L’intento di questo lavoro è stato invece quello di dimostrare come la crudeltà e la sua ostentazione fossero i cardini dell’impalcatura repubblicana in provincia. Partendo dai plotoni di esecuzione della GNR, che operarono attraverso la spettacolarizzazione della morte all’interno del paravento legalitario offerto loro dalle sentenze del tribunale speciale, nel giro di pochissimi mesi si passò ad una radicalizzazione della brutalità che sfociò in numerosi episodi di tortura e di giustizia sommaria. Il caso della morte di Torcigliani, nell’aprile 1944, può essere visto come una sorta di spartiacque: fu questo il primo episodio violento, prettamente fascista, caratterizzato da un vero e proprio fenomeno di annichilimento del nemico.
Le improvvise rappresaglie, la tortura e la volontà di umiliare l’avversario furono frutto del clima di guerra civile che si andò giorno per giorno inasprendo sempre di più; gli stessi legami societari andarono in frantumi permettendo la comparsa di veri e proprio supplizi pubblici dove la stessa popolazione civile poté diventare, a seconda del momento, vittima o spettatrice. Il tutto fu ulteriormente esasperato dalla incapacità dei rappresentati salodiani sul territorio provinciale di venire a capo di un movimento partigiano che con il passare dei giorni diventava sempre più forte ed ardito; questa loro incapacità li fece sentire smarriti, rendendo i fascisti schiavi della loro stessa rabbia.
I modelli violenti che comparvero in questo scontro furono offerti in primo luogo dai tedeschi, esperti nel controllo del territorio mediante l’utilizzo della violenza. Durante il perdurare della Repubblica in Lucchesia le unità germaniche furono protagoniste di almeno 59 episodi di sangue che comportarono la morte di, a dir poco, 688 persone318; nella quasi totalità di queste azioni
l’ostentazione dei morti e l’estrema violenza furono le protagoniste indiscusse.
Gli stessi fascisti, che si trovarono a mettere in scena a loro volta rappresaglie miranti al controllo del territorio, avevano però già sperimentato, negli anni precedenti, una propria autonoma violenza. Come mostrato molti di essi avevano infatti avuto un ruolo attivo nello squadrismo provinciale durante il Biennio Rosso mentre altri, se non gli stessi, avevano partecipato alle guerre del Regime in Etiopia, Spagna, Balcani e Russia dove avevano preso parte ad operazioni 318 Il numero dei morti indicato è la somma, approssimativa, di tutte le vittime, da quelle singole ai gruppi trucidati
antiguerriglia e a rappresaglie nei confronti della popolazione civile, accusata di connivenza con il movimento resistenziale. I più giovani invece, plagiati dagli anziani e cresciuti all’interno dello strutture del Ventennio avevano interiorizzato il comportamento intrinsecamente violento del fascismo divenendo in questo modo assuefatti all’uso della forza.
Con lo spostamento del fronte durante la primavera 1944 e il conseguente tracollo delle istituzione repubblicane in provincia, i fedelissimi alla causa del fascismo si trovarono a fronteggiare una situazione sempre più complessa. Costretti a combattere una guerra per bande considerata un’antitesi di tutti i valori fascisti in cui credevano, esasperati del mancato supporto popolare, che vedeva in essi soltanto dei fanatici intenzionati a portare ulteriormente avanti una guerra già persa, arrivarono nel giro di poco tempo ad un vero e proprio disconoscimento della società nella quale erano vissuti fino a quel momento. Significativi di questo fenomeno di alienazione furono, per esempio, l’esagerate minacce e le continue ruberie che i fascisti lucchesi inflissero alla popolazione civile. La situazione di eccezionalità offerta dalla guerra in corso permise loro di dedicarsi a veri e proprio atti di grassazione: episodio significativo di questa loro tendenza fu il saccheggio dei magazzini di cognac e china della ditta Bardi, trasferita da Livorno a Castiglione a seguito dei bombardamenti319. Questa propensione per i furti nei confronti della popolazione stessa
era inoltre connotativa del disconoscimento sociale in atto: i brigatisti non si sentivano più parte di quella società civile alla quale erano un tempo appartenuti e, per questo motivo, la considerarono passibile di ogni tipo di angheria. Il disconoscimento, dal quale scaturirono anche atteggiamenti esasperati, comportò una vera e propria esclusione, dallo stesso contesto civile nazionale, di tutti i possibili oppositori.
Come illustra lo psicologo Philip Zimbardo nel suo libro “L’effetto Lucifero”, questa deumanizzazione degli avversari avviene quando si crede che gli “altri” non abbiano i nostri medesimi valori, sentimenti e obiettivi: «ogni qualità umana che questi “altri” hanno in comune con noi è sminuita o cancellata tramite meccanismi psicologici di intellettualizzazione, di rifiuto, e l’isolamento dell’emozione. […] la deumanizzazione facilità azioni vessatorie e distruttive320» nei
confronti di questi individui, che arrivano ad esser ritenuti più simili ad oggetti che a persone. Zimbardo annota inoltre che questo fenomeno di disumanizzazione avviene quando una determinata categoria di individui ritiene che altri esseri umani vadano esclusi dal proprio “ordine morale” in quanto rappresentanti di un umanità deviata: «identificando certi individui o gruppi come esterni alla sfera dell’umanità, gli agenti deumanizzanti sospendono la moralità che in genere governa l’agire razionale nei confronti dei loro simili. […] In tali condizioni, diventa possibile che persone normali, moralmente rette e di solito persino idealistiche compiano atti di crudeltà distruttiva321.
319 Anche in questo episodio i brigatisti lucchesi ricorsero alle minacce e all’ostentazione delle armi, Denuncia della
Ditta Bardi alla procura di Lucca, 08/05/1945, Fondo Processi 36ª Brigata Nera Lucca, vol. 1 fasc. 4A, Iserc.
320 P. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p. 337. 321 Ivi, p. 444.
Durante la guerra civile in Lucchesia, tra i ranghi fascisti tale disconoscimento dell’avversario era estremamente palpabile: la stampa di partito lucchese considerava i resistenti dei “bastardi”322, i
senza patria per antonomasia, escludendoli di fatto del contesto nazionale ma gli stessi comportamenti dei fascisti sul campo mostravano come essi avessero interiorizzato questo disconoscimento totale dell’avversario.
Durante il processo agli ex repubblicani per gli avvenimenti di settembre 1944 a Castelnuovo l’ex milite Marino Bertelli, l’unico repubblicano ad ammettere esplicitamente la sua presenza ai suddetti fatti di sangue, testimoniò di aver sentito il camerata Mariano Rossi dire: «oggi mi sono divertito, ho fatto il tiro al piccione, me ne sono scotennati quattro»323. L’imputato Alfio Coltelli
aggiunse inoltre, riferendosi al medesimo episodio, di aver sentito Rossi o Ernesto Cirillo, non ricordava bene, esclamare la frase «gli ho fatto fare chiò324» riferendosi ad uno degli uccisi di
Castelnuovo. Le parole dei militi sono significative dei sentimenti e della considerazione che questi individui avevano nei confronti dei propri avversari, o dei presunti tali. E’ giusto ricordare infatti che la maggior parte delle vittime di Castelnuovo furono giovani del luogo catturati mentre erano impegnati in attività lavorative; per i brigatisti invece incarnarono le vittime idonee per la loro manifestazione di forza. Dal linguaggio utilizzato da loro stessi per descrivere gli omicidi appena perpetrati è palesemente visibile il disconoscimento nei confronti delle vittime che era avvenuto al tempo. Ma le azioni andarono ben oltre le parole: non solo questi ragazzi furono fucilati davanti ai propri familiari, al fine di rendere l’esecuzione ancora più esasperata, ma subirono anche la distruzione del proprio cadavere mediante il lancio di granate incendiare; la tremenda violenza derivante della guerra civile indusse i fascisti a cercare di eliminare i possibili avversari non soltanto fisicamente ma anche dalla memoria, annientando perfino il ricordo mediante la distruzione stessa dei loro corpi325.
Dalle testimonianze emerse durante i processi possiamo renderci conto di come i brigatisti si sentissero accerchiati da un ambiente a loro avverso, connivente con il movimento partigiano e per questo passibile di diventare terreno di atroci rappresaglie. L’alienazione raggiunse per i fascisti livelli così esasperati che questi trovarono nella crudeltà l’unica via per potersi affermare, per farsi riconoscere dalla popolazione e per rendersi credibili agli occhi degli alleati tedeschi; i corpi sfigurati e dilaniati non furono altro che simboli del loro passaggio e della loro possibilità di esercitare un potere tanto forte quanto effimero, denotativi più della loro incapacità che simbolo della loro forza. Questi comportamenti scavarono nei contesti locali della provincia lucchese veri e 322 Prodezze dei bastardi, in “L’Artiglio”, 6/4/1944.
323 Testimonianza di Marino Bertelli, 21/12/1945, Fondo Processi 36ª Brigata Nera Lucca, vol. 1B, Iserc. 324 Testimonianza di Alfio Coltelli, 21/12/1945, Ibidem.
325 Le vicissitudini della salma del partigiano Luigi Dini raffigurano a pieno il livello di deumanizzazione raggiunto dai
brigatisti nei confronti dei loro avversari: il cadavere del resistente, suicidatosi mediante l’esplosione di una bomba a mano durante l’interrogatorio dei tedeschi che lo avevano catturato, fu consegnato ai brigatisti che decisero di buttarlo, «tra lazzi e grida scomposte», su un cumulo di letame perché «non merita[va] altro». Cfr. Bechelli, Storie
propri fossati fra connazionali che gli anni successivi al conflitto non riuscirono a colmare completamente.
La riappacificazione nazionale, tentata nell’immediato dopoguerra da Togliatti attraverso il suo omonimo decreto di amnistia, non riuscì a raggiungere l’obiettivo desiderato. Il Ministro comunista, basando il suo testo di legge su l’autonomia della magistratura e sull’indipendenza del pubblico ministero dal governo, aveva cercato di ricucire il tessuto nazionale gravemente compromesso dalla guerra civile mediante un condono della pena a favore della “folla dei gregari” della Repubblica di Salò; nessuna agevolazione sarebbe stata invece concessa a coloro che si erano macchiati di atroci delitti. Questa grazia, frutto anche del tentativo di acquisire i voti degli ex fascisti e di risolvere il problema del sovraffollamento dei carceri, fu in realtà un fallimento a causa di una mancata e necessaria epurazione interna alla magistratura stessa. Su 1248 pubblici ministeri indagati per fascismo, soltanto 24 furono definitivamente dispensati dal servizio326: funzionari che
avevano accettato e servito il binomio Stato-fascismo per anni furono chiamati a giudicare gli ex fascisti repubblicani. Questa mancata rimozione comportò che la maggior parte dei magistrati formatisi sotto il Ventennio rimasero al loro posto, favorendo gli ex camerati, e compromettendo così il lavoro delle corti di giustizia nell’immediato dopoguerra. Le risoluzioni delle aule dei tribunali furono soventemente ed estremamente positive nei confronti degli imputati cristallizzandosi in un’enorme serie di scarcerazioni. Ciò fu possibile inoltre grazie ad una continua emanazione di norme inerenti al decreto stesso che contribuì a confondere ulteriormente i canoni giudiziari da seguire. L’amnistia Togliatti aveva anche un difetto di base, quello inerente alla punizione delle “sevizie particolarmente efferate”, che contribuì a fornire un elemento ostativo allo stesso insieme normativo: «il termine “sevizie” indica di per sé atrocità disumana e dunque l’aggiunta della “particolare efferatezza” costrinse i giudici a valutazioni discutibili in riferimento al livello di bestialità di torturatori ed aguzzini»327. In mancanza di prove ritenute idonee numerosi e
famosi carnefici finirono assolti ed, insieme ad essi, molti che avevano compiuto azioni disdicevoli adducendo l’attenuante di aver operato ubbidendo ad ordini impartiti dall’alto o sotto minaccia.
In Lucchesia, il proscioglimento di numerosi fascisti e il loro ritorno alla quotidianità come liberi cittadini non destò casi clamorosi di giustizia popolare nei loro confronti, come invece stava contemporaneamente avvenendo nell’Italia Settentrionale ad opera della Volante Rossa “Martiri 326 Non fu inoltre possibile procedere con un’epurazione più ampia in quanto non ci sarebbe stata la possibilità di
sostituire gli epurati con un equivalente numero di personale idoneo; si sarebbe inoltre rischiato di ottenere, a causa della mancanza di personale, una durata estremamente lunga dell’iter processuale. Cfr. Franzinelli, L'amnistia Togliatti, cit., p. 16.
327 Franzinelli, L’amnistia Togliatti, cit., p. 51. Fu proprio l’articolo 3 del decreto, quello inerente alle “sevizie
particolarmente efferate”, ed essere utilizzato dalla Cassazione per demolire i verdetti delle Corti d’assise. Mancando una definizione di sevizia ad opera del legislatore, questo comma lasciava come possibili beneficiari dell’amnistia tutti coloro che si fossero dedicati a “ordinarie” brutalità. Fondamentalmente si punirono soltanto coloro che si dedicarono ad azioni dove il sadismo e il prolungarsi dell’atto vessatorio erano state particolarmente conclamate ed atroci. Il metro di giudizio fu quindi fondamentalmente opinabile e foriero di fantomatiche amnistie; un atto crudele ma non prolungato nel tempo fu soventemente non considerato come “sevizia particolarmente efferata”. Cfr. Ivi, p. 244.
Partigiani”328. Nonostante la minor durata della guerra civile in provincia, rispetto alle regioni del Nord Italia, anche in Lucchesia furono però riscontrabili determinati avvenimenti indicativi di un certo grado di malessere popolare nei confronti della mancata giustizia e delle violenze subite sotto la Repubblica di Salò. A Viareggio e Pietrasanta furono indette numerose manifestazioni antifasciste, che a volte sfociarono in tentativi di linciaggio, nei confronti di alcuni repubblicani locali che erano passati indenni dalle aule di tribunali, in Garfagnana tre fascisti furono prelevati dalle loro abitazioni e giustiziati329 mentre il paese di Massarosa fu teatro di numerosi atti di
pestaggio, conditi da bevute di olio di ricino, nei confronti di noti fascisti locali. Alcuni di essi preferirono trasferirsi in altri comuni dove non era conosciuto il loro trascorso politico330.
La Repubblica di Salò in Lucchesia fu una parentesi di poco più di un anno che però, installandosi in un contesto già pesantemente colpito dai lutti e dalle vicende belliche del conflitto in atto, incrudelì ulteriormente la situazione facendo sprofondare la popolazione in un conclamato stato di guerra civile. La citazione dei fatti di cronaca post-bellica, unita alla trattazione offerta da tutto il corpus di questo lavoro di tesi, aprono una fessura dalla quale poter osservare e constatare con un significativo grado di sicurezza quanto i quattordici mesi di Repubblica fossero stati terribili, agghiaccianti, dolorosi per la popolazione della provincia. Il fragile governo fascista ed i suoi rappresentati locali cercarono di mantenere le redini della situazione basando il loro operato sui plotoni d’esecuzione della GNR e sulle improvvisate rappresaglie della Brigata Nera ma tutto quello che ottennero in cambio fu una lunga scia di morti e violenze che non fecero altro che allontanare ulteriormente i civili dalla causa dell’ultimo fascismo.
328 Organizzazione antifascista clandestina composta da ex partigiani ed operai attiva nell’immediato dopoguerra con
lo scopo di uccidere gli ex fascisti passati indenni all’interno delle aule di giustizia ordinarie o sospetti di
appartenere ai gruppi neofascisti creati all’indomani della fine delle ostilità belliche. A questa struttura fu attribuita la responsabilità di numerose azioni violente (omicidi, sequestri e attentati) avvenute fino ai primi anni cinquanta.
Membri della XXXVI Brigata Nera: