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Come introdotto nel capitolo precedente l’operato delle Brigate Nere fu caratterizzato da azioni violente e criminali nei confronti dei resistenti e della stessa popolazione civile in quanto accusata di rimanere indifferente allo scontro in atto o di adoperarsi apertamente in supporto del movimento partigiano. La violenza fascista non fu però qualcosa di episodico e rilegato al comportamento di determinati individui o unità. Il desiderio di vendetta e l’utilizzo della violenza da parte dei militi della RSI fu qualcosa di intrinseco alla stessa Repubblica di Salò in quanto erede del fascismo: movimento politico dove l’aggressione e la sopraffazione erano caratteristiche conformi all’indole di fondo della “cultura squadristica”130. Il compito di

castigare fu dichiarato dallo stesso Mussolini fin dal 15 settembre 1943 quando, al fine di ristabilire la giustizia fascista, il Duce affidò al nuovo partito il compito di punire gli iscritti al PNF che, dopo il 25 luglio, si erano dimostrati “vili” e “voltagabbana”. A riguardo, l’11 novembre 1943 furono costituiti il tribunale speciale straordinario e i tribunali speciali provinciali con il compito di perseguire e punire adeguatamente i traditori: modello di questa volontà di giustizia fu la fucilazione dei sei firmatari della “mozione Grandi” l’8 gennaio 1944. I militanti repubblicani più ferventi avevano manifestato fin dagli albori del nuovo Governo salodiano questo desiderio di vendetta contro i traditori attraverso una brama da resa dei conti, violenta ed incontrollata, attuata mediante un’ondata di giustizia sommaria.

Tale spirito punitivo si era palesato con chiarezza nella spedizione punitiva di Ferrara del 15 novembre 1943131, quando, il ritrovamento del cadavere del federale ferrarese Igino

Ghisellini, presentato come un delitto compiuto dagli antifascisti ma di probabile matrice fascista132, determinò da parte dello stesso segretario Pavolini, l’invio di due formazioni

fasciste da Verona e da Padova con il compito di compiere una rappresaglia esemplare; tra i comandanti compariva anche Giovan Battista Riggio133, futuro responsabile della formazione

delle Brigate Nere. In quella occasione, furono 15 le persone fucilate per ritorsione, in parte prelevate dalle carceri e in parte frutto del rastrellamento del giorno precedente. La cosa che però accomunava concretamente tutte quelle che poi sarebbero state le vittime di tale eccidio era la più completa estraneità all’attentato e il fatto di non aver ricevuto nessun legittimo processo penale. Per Dianella Gagliani,

130 Pavone, Una Guerra Civile, cit., p. 417. 131 Rovatti, Leoni Vegetariani, cit., p. 30.

132 Ghisellini aveva stipulato, nei primi mesi della RSI, un accordo di non belligeranza con i locali esponenti

antifascisti e aveva intenzione di recarsi al congresso di Verona per denunciare comportamenti disdicevoli ed illegali compiuti da personalità di rilevanza del fascismo ferrarese. Ivi, p. 31.

La strage di Ferrara […] criticata duramente dalle autorità tedesche, si riesce a comprendere solo se conosciamo le tensioni interne al fascismo di Salò e […] cogliamo la presenza della componente che possiamo grossomodo far coincidere con “l’anima totalitaria di tipo squadristico”. Si tratta di un’anima presente fin dagli inizi del movimento fascista e che attraversa tutto il Ventennio, riemergendo con maggiore forza nei mesi finali della crisi del regime, per poi rivendicare uno spazio incontrastato nella Repubblica sociale italiana. Siamo di fronte a una violenza autonoma fascista, non repressa per intero e mai del tutto sconfessata dal centro, che si innesta -con maggior virulenza rispetto al periodo precedente- sulla sconfitta del 25 luglio 1943 e sul desiderio di vendetta contro i “traditori”134.

Contemporaneamente al manifestarsi di questa violenza squadristica, la Repubblica si stava adoperando al fine di affermare, agli occhi della popolazione e dell’alleato tedesco, la propria legittimità di governo; questa dipendeva dalla capacità stessa dello Stato di mantenere l’ordine pubblico e di amministrare la giustizia. Visto il conflitto mondiale in atto ed il conclamato stato di guerra civile nazionale, dove una parte degli abitanti contestava apertamente la Repubblica e si rifiutava di rispondere ai bandi di leva decidendo, oltretutto, di contrapporsi allo Stato impugnando contro di esso le armi, i fascisti repubblicani ritennero di fondamentale importanza rivendicare a sé il monopolio della violenza, sia a livello legale che materiale, al fine di ristabilire la propria legittimità: «la minaccia della violenza istituzionale, del ricorso legittimo alla forza rappresenta anche nel caso della Rsi - come in qualsiasi stato moderno - un elemento imprescindibile per l’affermazione dell’autorità politica sul territorio»135.

Fu per questo motivo che fin da subito Mussolini ordinò la riorganizzazione della Milizia e il Governo si dedicò massicciamente alla ricostituzione dell’esercito. Il mancato riscontro popolare ai bandi di leva fece temere ai fascisti di non essere presi sufficientemente sul serio dalla popolazione stessa, per questo furono ideati gli arresti e le sanzioni economiche per le famiglie dei renitenti. A queste si affiancò in seguito, con il famigerato bando Graziani, la pena di morte per coloro che non si presentavano ai distretti militari.

Tramite il decreto legislativo del Duce del 18 febbraio 1944 fu regolata ufficialmente la fucilazione di coloro che non si erano presentati ai bandi: «la pena di morte inflitta per i reati di cui agli articoli precedenti deve essere eseguita, se possibile, nel luogo stesso di cattura del disertore o nella località della sua abituale dimora»136. Da queste parole è possibile notare la

134 Rovatti, Leoni vegetariani, cit., p. 31. 135 Ivi, p. 33.

136 Decreto legislativo del Duce del 18 febbraio 1944, n. 30, Pena capitale a carico di disertori o renitenti di

leva. cfr. http://www.memorieincammino.it/file/2015/07/a.Pena-capitale-a-carico-di-disertori-o-renitenti-di- leva-D.L.-18-febbraio-1944-n.30-e-integrazioni.pdf

volontà di mostrare l’intransigente durezza della legge attraverso punizioni esemplari, utilizzando l’ostentazione stessa della morte come monito nei confronti dei cittadini.

Grazie a questa normativa, il lavoro del plotone di esecuzione fu presentato come legittimo e legale in quanto realizzato a seguito del legiferare dei Tribunali militari; questo verdetto estremo quindi, risultava formalmente regolare - dura lex sed lex - in quanto frutto di leggi ufficiali. Il 18 aprile 1944 il corpus legislativo repubblicano inerente alla lotta contro la renitenza fu ampliato mediante il varo di una nuova norma che stabiliva la fucilazione immediata e sul posto di cattura per coloro che si erano uniti al movimento resistenziale, o che erano direttamente coinvolti nella sua assistenza, qualora venissero trovati armati o in flagranza di reato137. Una tale normativa apriva definitivamente le porte alla realizzazione di

qualsiasi tipo di desiderio di vendetta nei confronti degli imboscati e dei traditori da parte dei militanti fascisti. Da questo periodo in poi le azioni violente di stampo fascista iniziarono ad aumentare di numero grazie anche al modello tedesco di guerra ai civili, pianificata e ideata dal Generale Kesselring sfruttando l’esperienza acquisita sul fronte orientale.

La violenza fascista e quella tedesca erano però intrinsecamente diverse dal punto di vista della legittimazione e della sua stessa esecuzione. Quella fascista cercò di operare coperta, almeno fino alla crisi dell’estate 1944, da un paravento legislativo capace di giustificarla agli occhi dell’opinione pubblica. Quella tedesca mirava invece a controllare il territorio mediante l’utilizzo del terrore disinteressandosi a qualsiasi legittimazione legale in quanto applicata da un esercito d’occupazione. Un’altra differenza riscontrabile in questi due modelli di brutalità era quella inerente alla tipologie di vittime che andarono a perseguire. I fascisti colpirono sempre individui legati, in qualche modo, al movimento resistenziale, ai disertori o ai renitenti alla leva mentre i tedeschi operarono più su base “territoriale”: la presenza di un individuo, anche donna o bambino, in una data zona caratterizzata da una qualche forma di movimento resistenziale o eleggibile a divenire habitat della guerrigilia lo rendeva passibile di divenire vittima di rappresaglia in quanto intrinsecamente considerato connivente con il partigianato o suo futuro sostenitore.

Lo sfondamento della linea Gustav diede l’avvio ad una operazione di pulizia su vasta scala delle retrovie che contribuì ad innalzare ulteriormente il livello delle violenze fasciste. Lo spostamento del fronte e il collasso delle organizzazioni repubblicane nei territori delle Marche e del Lazio favorirono la diffusione, all’interno dei militi della RSI, del timore della sconfitta. La disciplina iniziò ad allentarsi ulteriormente e con essa anche la capacità di controllo degli organi repubblicani incaricati. Le fughe dei rappresentanti locali e i conseguenti vuoti di potere che si aprirono permisero alle milizie fasciste più intransigenti di 137 Decreto legislativo del 18 aprile 1944, n. 145, Sanzioni penali a carico di militari o civili unitisi alle bande

operanti in danno delle organizzazioni militari o civili dello Stato, cfr.

dare libero sfogo ai loro profondi sentimenti di vendetta e alla conseguente violenza perpetrata, così come accadde nelle regioni del nord Italia nei mesi che precedettero la Liberazione: «la percezione della sconfitta e il timore di trovarsi in pericolo di vita ed in minoranza - proprio per il particolare stato psicologico che inducono - sembrano, infatti, gravare la condotta dei militi fascisti di un in più di violenza irrazionale che si traduce nell’aumento dei casi di sevizie e di vendetta»138.

Inoltre, il clima di paura e diffidenza che si diffuse ulteriormente in questo periodo all’interno dei corpi della RSI non sfociò soltanto in atti di violenza contro la popolazione civile ma anche verso una determinata categoria di commilitoni, quelli ritenuti infidi e passibili di tradimento a seguito del loro arrivo mediante i “bandi del perdono”139, questo era

un segnale di come paura, diffidenza e violenza crescessero simbioticamente.

Di questi comportamenti Mussolini ne era accuratamente informato grazie ai regolari rapporti inoltrati alla sua segreteria dai comandi della GNR e dalle prefetture. Nonostante ne fosse al corrente però non si mosse mai al fine di porre termine ai comportamenti criminali e alla violenza indiscriminata portata avanti dai militi repubblicani; soltanto nei casi più eclatanti, come in quello della banda Bardi-Pollastrini, il Governo di Salò intervenne per porre fine a comportamenti ritenuti controproducenti alla stessa causa repubblicana. Il Duce non prese mai provvedimenti per riportare l’operato dei suoi uomini all’interno di un comportamento di conclamata legalità. Accettò in questo modo il comportamento illegale dei propri reparti, i quali vennero sostanzialmente, e ulteriormente, protetti dall’operato della stessa magistratura:

i fermi, gli arresti, i prelevamenti, le requisizioni e le esecuzioni -seppur indiscriminate- messe in opera da formazioni regolari sono, invece, legittimati a livello formale da un abituale sistema di giustificazione politica dei comportamenti repressivi basato sui pronunciamenti della magistratura di merito: compiacenti processi penali e frettolose sentenze emesse dalle sezioni del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, dai tribunali provinciali straordinari o dai Tribunali militari di guerra trasformano i furti in confische dei beni, i sequestri di persona in arresti e, soprattutto, i prigionieri trattenuti in carcere per supposti coinvolgimenti con il movimento partigiano in condannati a morte legalmente sacrificabili per attuare esemplari rappresaglie140.

Questo sistema violento venne spinto ulteriormente oltre da Mussolini stesso, il quale, durante l’estate del 1944 offrì indirettamente ai propri uomini carta bianca sul fronte repressivo. Il 25 giugno 1944 fu trasmessa ai Capi delle province la seguente circolare: 138 Rovatti, Leoni vegetariani , cit., p. 62.

139 Molti partigiano sfruttarono per l’appunto la possibilità dei bandi (25 Maggio e 28 Ottobre 1944) per

studiare lo schieramento avversario e per superare l’inverno 1944 in pianura, snellendo così le unità resistenziali al fine di non pesare a livello logistico sulle formazioni in difficoltà a seguito dell’arrivo della brutta stagione. Avagliano-Palmieri, L’Italia di Salò, cit., p. 366.

«Poiché taluni leoni vegetariani continuano a parlare di una eccessiva indulgenza [corsivo mio] del Governo della Repubblica, siete pregati di mandare telegraficamente i dati delle esecuzioni avvenute di civili e militari con processo dal Iº ottobre in poi»141. Infatti, non solo

questa circolare legittimava le azioni violente dei repubblicani ma, allo stesso tempo, spingeva i fascisti a portare avanti una politica incentrata sulla conta dei morti nemici: ad ogni Capo della provincia fu chiesto di inviare alla Divisione generale di Pubblica sicurezza rapporti dettagliati sulle morti dei nemici avvenute nel proprio territorio di competenza specificando cause e circostanze del decesso, età e sesso dei morti142. Questa raccolta di dati

era necessaria al fine di redigere tabelle statistiche miranti a mostrare come la Repubblica fosse occupata, non soltanto a parole, nel mantenimento dell’ordine pubblico.

Fondamentalmente, con questa circolare, Mussolini accettò i comportamenti violenti dei suoi uomini in quanto funzionali al fine di stabilire e mantenere un potere fascista in ambito locale. Soltanto nei casi più estremi, quando la violenza e l’illegalità ebbero raggiunto livelli così alti da mettere in dubbio la liceità stessa della Repubblica fece intervenire i suoi uomini, come già mostrato, per ristabilire una parvenza di ordine.

La politica del terrore, ripresa dal modello tedesco e da quella applicata dagli italiani stessi in Africa Orientale e in Jugoslavia143, era vista dai fascisti come l’unico strumento per

contrastare la guerriglia portata avanti dal movimento partigiano. Per avere la meglio su un nemico privo di divisa, pratico del territorio nel quale si muoveva, propenso all’utilizzo di “attacchi mordi e fuggi”, l’unico strumento reputato idoneo fu la rappresaglia; di questa ne subirono soventemente le conseguenze gli stessi civili, accomunati, a torto o a ragione, con il movimento ribelle. Il Governo repubblicano si curò, sempre al fine di operare in ambito legalitario almeno a livello formale, di mostrare come legittime le rappresaglie stesse utilizzando una politica degli ostaggi creata ad hoc. Le autorità di Salò si adoperarono al fine di mantenere all’interno delle proprie carceri un quantitativo di prigionieri da porre davanti al plotone di esecuzione in caso di necessità: i morituri sarebbero stati, prima o dopo la fucilazione, giudicati colpevoli da un tribunale fascista straordinario, utilizzando elementi indiziari e spesso inconsistenti, così da rendere la loro morte formalmente legale. Spesso i repubblicani preferirono utilizzare individui “estranei” al contesto nel quale venivano attuate le rappresaglie «così che le responsabilità individuali dei condannati e la stessa azione risultino[risultassero] meno contestabili dalle comunità locali»144. Come esempio

rappresentativo delle modalità fino a qui illustrate si può riportare la fucilazione effettuata presso l’arena di Milano il 20 dicembre 1944 per vendicare l’assassinio del federale Aldo 141 Ivi, p. 22.

142 Ibidem.

143 T. Rovatti, La violenza dei fascisti repubblicani, in: Zone di guerra,. geografie di sangue. L'Atlante delle

Resega. Otto detenuti politici, totalmente estranei al fatto e già incarcerati presso San Vittore, furono condannati da un Tribunale militare speciale il 19 dicembre in quanto ritenuti rei «omicidi, di rivolta contro i poteri dello Stato, d’incitamento alla strage, detentori di armi e munizioni, di apparecchi radio trasmittenti e di materiale di propaganda comunista» e fucilati il giorno successivo al verdetto145.

Dopo aver illustrato fin qui come i militi repubblicani, protetti nel loro operato dai superiori e dallo stesso Mussolini, si diedero a comportamenti violenti ed illeciti utilizzando come modello quello portato avanti dai tedeschi, risulta non di meno importante considerare il caso dei reparti italiani che operarono sotto il comando di unità tedesche. Queste unità furono spesso protagoniste di efferate violenza compiute contro la popolazione civile, come nel caso dell’eccidio di Bergiola Foscalina (Carrara) del 14 settembre 1944. Durante questo episodio ebbero luoghi furti e saccheggi indiscriminati e la morte, per rappresaglia all’uccisione di un soldato tedesco, di 61 abitanti del paese. I fautori di questo massacro, dove persero la vita anche donne, anziani e bambini, furono i soldati della 16ª Divisione SS e i militi della XL Brigata Nera “Vittorio Ricciarelli” di Livorno alle dipendenze dell’unità germanica146. Con la

parvenza della scusante fornita dall’obbligo dell’esecuzione dell’ordine impartito, considerato in questo caso come una legittimazione legale all’uso della violenza, i fascisti sfruttarono il loro ruolo di forza per infliggere angherie e morte ad una popolazione civile considerata traditrice. Anche nel caso dell’uccisione dei tre partigiani, arrestati il 21 ottobre 1944 nei pressi della ditta Ceat di Torino, i quali furono prima torturati all’interno della caserma della GNR di via Asti per poi essere ricondotti presso il luogo di cattura dove furono fucilati ed i loro cadaveri appesi ad un orinatoio147.

L’utilizzo delle rappresaglie aveva un doppio valore in quanto poteva essere considerato come una vera e propria vendetta e come uno strumento di garanzia: «la spietatezza della vendetta avrebbe dovuto aumentare l’efficacia della garanzia»148 in quanto, all’aumentare

della violenza adottata, si sarebbe, in teoria, ottenuto un eguale propensione dei partigiani e dalla stessa popolazione civile nel non opporsi in alcun modo alle forze fasciste per timore di nuove e sempre più violente rappresaglie.

Con l’inverno 1944 i caratteri violenti della guerra civile portata avanti dai fascisti salodiani aumentarono ulteriormente in quanto, palesandosi all'orizzonte il probabile esito negativo del conflitto per le armi naziste, la disperazione contribuì ad aumentare la violenza dei militi. La brutalità fascista non fu mai, salvo rari casi e spesso in rinforzo ai tedeschi, operata in larga scala ma fu piuttosto suddivisa in una serie di singoli episodi «dando forma 145 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=1614

146 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4623 147 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=1008 148 Pavone, Una Guerra Civile, cit., p. 479.

ad una violenza puntiforme e ad alta frequenza, funzionale al controllo del territorio»149. Con

il sopraggiungere dell’inverno 1944 il fossato tra popolazione, sempre più desiderosa di assistere alla fine della guerra, e Repubblica si era ampliato ulteriormente favorendo un senso di isolamento e di sospetto da parte dei militi repubblicani che arrivarono a sentirsi traditi e abbandonati nella loro causa dai civili stessi150. Significativo di questo fenomeno è la

testimonianza di Carlo Mazzantini: la Legione Tagliamento, della quale lo scrittore romano aveva fatto parte, aveva l’abitudine di cantare le canzoni del fascismo quando entravano nei paesi:

Ehi Ragazzi, un paese, cantiamo!” Attaccavamo: Battaglioni del Duce, battaglioni… Qualche donna sugli usci, che restava lì a guardarci con gli occhi increduli; volti di uomini che si ritraevano incerti da dietro i vetri sporchi di un misero caffè. E l’ebbrezza di quella violazione dava più forza alle nostro voci»151 ed ancora più avanti nella narrazione «il canto rimbalzava contro le imposte chiuse, e subito si restaurava quella contrapposizione. Loro erano là nelle loro case, al caldo dei loro letti, i borghesi, estranei, ottusi; si erano ritirati con modi circospetti e lì erano restati. Immaginavo i loro bisbigli ansiosi e increduli dietro le finestre: “Loro? Ancora loro? Da dove tornano? Cosa vogliono?” E il silenzio pieno di angoscia che lasciavamo dietro di noi. Ci esaltava quel senso di violazione, l’impressione di penetrare in un corpo ostile che i nostri canti facevano sussultare152.

Le diverse tipologie di violenza usate miravano tutte inconsciamente a soddisfare il bisogno dei fascisti di essere riconosciuti dalla comunità nazionale dalla quale si sentivano fisicamente, e moralmente, esclusi153. Durante l’ultimo inverno della Repubblica il

formalismo che era stato seguito fino a quel momento dai reparti salodiani lasciò sempre più spazio a comportamenti radicali154: lo scontro passò da una violenza dalla forma più o meno

legale, anche se soltanto d’apparenza, ad un carattere di odio radicale e totale; il nemico non doveva essere più soltanto sconfitto ma addirittura annientato, sia fisicamente che spiritualmente. Questo metodo di violenza aveva un doppio significato intrinseco: da una parte veniva utilizzato per annientare il nemico, negandone l’umanità stessa, e sopprimerne il 149 Rovatti, Le violenza dei fascisti repubblicani, cit., p. 162.

150 Pavone, Una Guerra Civile, cit., p. 99.

151 Mazzantini, A cercare la bella morte, cit., p. 51. 152 Ivi, p. 97.

153 Adducci, Gli altri, cit., p. 246.

154 Una sorta di formalismo rimase sempre: i dati delle esecuzioni formali, presenti nelle informative inviate al

Duce a seguito della sua circolare del giugno 1944, risultano in aumento durante tutto il periodo d’indagine

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