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GIUSTO PROCESSO - Nel 2011 è proseguita l’opera della giurisprudenza della Suprema

Provvedimenti organizzativi

2. GIUSTO PROCESSO - Nel 2011 è proseguita l’opera della giurisprudenza della Suprema

Corte attenta ad individuare e sanzionare le forme di abuso della tutela processuale, e ciò da ultimo, con peculiare riferimento alla disciplina delle spese di lite.

Paradigmatico il caso deciso da Cass., sez. 1, 5 maggio 2011, n. 9962. Si trattava, nella specie, di un processo avviato nel giugno del 1996, per la riliquidazione dell’indennità speciale pensionabile. A valle di questo, gli attori in quel giudizio risultavano aver proposto, in un ristretto arco temporale, sette distinti ricorsi alla Corte di appello competente, con il ministero del medesimo difensore, per svolgere una domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata processuale basata su quello stesso presupposto giuridico e fattuale. I giudizi così incardinati venivano riuniti nella fase di legittimità. La sentenza conclude nel senso che al riscontrato abuso dello strumento processuale non potesse seguire la sanzione dell’inammissibilità dei ricorsi, posto che non era illegittimo l’accesso in sé al processo, bensì le modalità con cui lo stesso era stato attuato. Dunque, ad avviso del collegio, la conseguenza non può che essere, in questi casi, l’eliminazione, per quanto possibile, degli effetti di quell’abuso, e quindi, nella fattispecie, la valutazione dell’onere delle spese come se unico fosse stato il ricorso sin dall’origine, con applicazione dell’art. 10, secondo comma, cod. proc. civ., quanto all’individuazione del valore della controversia.

Deve altresì segnalarsi il consolidarsi di una tendenza a restituire forza a una norma, quale l’art. 88 cod. proc. civ., non frequentemente applicata nel suo combinato con l’art. 92 cod. proc. civ. Il caso e il principio rinvenibili in Cass., S.U., 29 marzo 2011, n. 7097, appaiono esemplari. In questo caso, infatti, le spese di legittimità sono state poste a carico degli stessi ricorrenti vincitori, i quali avevano proposto ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione, invero condivisi dalle Sezioni Unite, le quali, però, hanno osservato come il carico delle relative spese poteva essere evitato dai medesimi ricorrenti, ove gli stessi avessero subito aderito lealmente all’avversa eccezione di difetto

Tema a questo connesso per coordinazione è quello delle nullità processuali, viste come presidio non dell'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma come strumento per l'eliminazione del concreto pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo. Così, Cass., sez. 1, 21 marzo 2011, n. 6343, ha statuito che la parte che impugni la sentenza non definitiva di divorzio per la mancata concessione dei termini di cui all'art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., al fine di ottenerne la declaratoria di nullità, deve dimostrare che da tale mancata concessione sia conseguita, in concreto, una lesione del proprio diritto di difesa, allegando il pregiudizio che gliene sia derivato, essendo altrimenti il gravame inammissibile per difetto d'interesse. Ancora, in punto di decisioni “della terza via”, e conseguenti violazioni del contraddittorio, è stato affermato che l'omessa indicazione alle parti, ad opera del giudice, di una questione di diritto di natura esclusivamente processuale, non configura alcuna nullità, atteso che la prospettazione preventiva del tema alle parti non appare tale da involgere profili difensivi altrimenti non trattati (Cass., sez. 6 - 3, ordinanza, 30 aprile 2011, n. 9591).

Diverso, secondo Cass., sez. 6 - 2, ordinanza, 5 aprile 2011, n. 7760, è però il caso del giudice che decida la causa senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ciò traducendosi in nullità della sentenza.

Un passaggio fondamentale si è ricollegato alla vicenda della decorrenza del termine breve per l’impugnazione delle sentenze del Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado, dopo che l’innovativa Cass., Sez. U, sent. n. 7607 del 30 marzo 2010 aveva ritenuto di dover far partire lo stesso dalla notifica della copia integrale del dispositivo, indipendentemente dalla registrazione della sentenza stessa, come invece richiedeva l’orientamento giurisprudenziale pregresso. L’occasione ha aperto alle Sezioni Unite, con sentenza n. 15144 dell’11 luglio 2011, l’occasione per affrontare la più generale problematica relativa all’overruling giurisprudenziale sull’interpretazione delle norme del giudizio civile, cui, in particolare, segua una dimidiazione dei poteri della parti processuali. Con la decisione da ultimo richiamata si è inteso affermare, infatti, che l’interpretazione del “segmento di legge processuale”, rimasto inalterato nel testo e, dunque, sottrattosi ad interventi legislativi di modifica, deve perpetuarsi in quella consolidatasi, non avendo “ragione d’essere ricercata” una diversa esegesi “e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile”. La diversa interpretazione, quindi, potrà essere ammessa soltanto in presenza di modifiche della disposizione interpretata, o di mutamenti che interessino il settore normativo nel quale la norma vive o, ancora, in ragione dell’emersione di valori prima non considerati. In particolare, la sentenza n. 15144 ha riaffermato, peraltro, il valore dichiarativo dell’interpretazione, presidio dell’indipendenza funzionale del giudice, che, nella sua “soggezione soltanto alla legge”, come predica l’art. 101 Cost., è garantito da interferenze esterne nell’applicazione della norma e, dunque, nella decisione del caso concreto. In linea con la giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente, si è negato, dunque, carattere creativo all’opera dell’interprete, per riservare l’implementazione dell’ordinamento alla sola fonte a ciò costituzionalmente abilitata, e cioè alla legge. Alla giurisprudenza rimane affidato il compito, decisivo ed ineliminabile, di inverare l’ordinamento, assumendo e metabolizzando le istanze provenienti dal substrato della realtà sociale, così da determinare il “diritto vivente”, ovvero la dimensione di effettività del fenomeno giuridico. L’opera dell’interprete rimane, quindi, vincolata alla formulazione testuale, nella sua significanza linguistica, ma esso può tenderla sino al punto appena precedente a quello di rottura. La norma vive come interpretata ed il non-superamento del punto di rottura sta a dimostrare che essa possiede quella determinata virtualità precettiva. Le Sezioni Unite hanno inoltre superato l’ostacolo teorico rappresentato dalla tesi del mutamento di giurisprudenza visto come jus superveniens e recuperato la via della tutela dell’affidamento, la quale induce alla scusabilità, per assenza di colpa, del comportamento della parte che abbia posto

“concretizzatrice”, che assegna alla stessa norma il suo “reale significato … nella dinamica operativa”. Quanto al profilo relativo all’individuazione del momento oltre il quale non sia più possibile ritenere incolpevole l’affidamento, e cioè il momento che è segnato dalla conoscenza del mutamento di giurisprudenza come “fatto”, l’opzione delle Sezioni Unite del luglio 2011 è stata per una affermazione di principio, che lascia al giudice, su adeguata sollecitazione delle parti, il compito di fissare quel “momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico di esegesi correttiva”.

In tale prospettiva, va segnalata Cass., Sez. 2, sent. n. 3030 del 7 febbraio 2011, secondo la quale la parte – cui veniva negata la rimessione in termini - non poteva contrariamente invocare la mancata pubblicazione della sentenza di overruling “sulle riviste giuridiche più note e diffuse tra gli operatori del diritto”, posto che, al momento del deposito del ricorso, il testo integrale di detta sentenza “era già disponibile nel Servizio novità del sito web della Corte di cassazione, accompagnato da un abstract di presentazione, curato dall’Ufficio del Massimario della Corte, con il quale il mutamento di indirizzo giurisprudenziale era stato segnalato agli utenti”.

Significativa appare, in proseiguo, l'evoluzione della più recente giurisprudenza della Corte in riferimento alla disciplina dei procedimenti camerali aventi ad oggetto la potestà genitoriale, l’adozione legittimante e la filiazione naturale, nel tentativo di coniugare la centralità dell'interesse del minore, i principi sanciti dall'art. 111 Cost., e quelli consacrati dalle convenzioni internazionali. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 16864 del 2 novembre 2011, sembrano aprire alla ricorribilità in cassazione dei provvedimenti “de potestate”, così come Cass., sez. 1, n. 6841 del 24 marzo 2011 all’ammissibilità del regolamento di competenza, ad istanza di parte, nei confronti di provvedimenti camerali.

Cass., sez. 1, n. 6319 del 21 marzo del 2011 precisa, invece, in relazione al decreto emesso ai sensi dell'art. 317 bis cod. civ., che le innovazioni introdotte dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 comportano, oltre a consistenti effetti sostanziali, rilevanti problematiche processuali, in quanto forniscono una definitiva autonomia al procedimento di cui al medesimo art. 317 bis cod. civ., allontanandolo dall’alveo della procedura ex artt. 330, 332, 336 cod. civ., ed avvicinandolo, anzi, per certi versi assimilandolo, a quello di separazione e divorzio con figli minori. La Corte ritiene poi ragionevole la scelta di mantenere comunque la competenza funzionale del Tribunale per i minorenni ed il rito della camera di consiglio nelle vicende inerenti la crisi delle coppie di fatto con prole.

Con la decisione n. 10265 del 10 maggio 2011, in tema di adozione in casi particolari, nell’ipotesi di cui all'art. 44, lettera b), della legge 4 maggio 1983, n. 184, la Corte di Cassazione ha evidenziato come il principio di bi-genitorialità abbia informato di sé il contenuto precettivo dell’art. 317 bis cod. civ., traendone la conseguenza che anche il genitore, il quale non abbia mai convissuto con il figlio naturale, debba essere messo in grado di contraddire, avendo il suo eventuale dissenso efficacia preclusiva.

Nel difficile tentativo di trovare un equilibrio tra l’ineludibile ricerca di garanzie processuali e la salvaguardia della tutela dell’interesse di quel singolo minore nella sua unicità, il Supremo Collegio, con la sentenza n. 13241 del 16 giugno 2011, ha affermato che l'audizione del minore, pur prevista dall'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e divenuta adempimento necessario, ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, non è prescritta in via assoluta, bensì rimessa alla valutazione del giudice, che può non ricorrervi, ove neghi, anche secondo il notorio, sufficiente maturità al minore stesso, e privilegi l'interesse superiore di questi a non essere esposto al presumibile danno derivante dal coinvolgimento emotivo nella controversia che opponga i genitori. Sempre con riferimento al tema dell’ascolto, la prima sezione con la pronuncia n. 1838 del 26 gennaio 2011, ha ribadito che la presenza dei difensori delle parti all’audizione del minore non è necessaria, costituendo una scelta del tutto discrezionale del giudice, e che, pertanto, non costituisce violazione del diritto al