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GLI ESAMI E IL TIROCINIO DA MAESTRO

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 130-153)

“L’agosto del ‘73 andai per l’esame in Urbino. […] Vidi il Palazzo ducale, il Duomo ed altre cose, delle quali però non mi resta che un pallido e confuso ricordo.”

(pag. 111)

Tornato in paese, pensai subito di trovarmi un’occupazione:

era ciò mio dovere e desiderio. Mio padre, per un insieme di circostanze dolorose, d’ordine economico e famigliare, navi-gava in cattive acque, ed io non potevo stargli a carico. Scrissi e mi feci raccomandare al generale Corvetto258, ch’era deputa-to del nostro collegio, perché mi trovasse da lavorare; ma fu inutile. Per riuscire mi mancava un diploma, una patente, un titolo qualsiasi comprovante la mia coltura; ed io non posse-devo che i certificati degli studi fatti in seminario, i quali per aspirare ad un pubblico ufficio contavano un bel nulla.

Decisi allora di mettermi a studiare per far l’esame di maestro elementare; presi cioè l’unica via che mi vidi aperta, tanto più che mi sentivo una certa inclinazione al magistero. Infatti al-cuni ragazzi in que’ giorni erano ricorsi a me per avere un po’

d’istruzione, ed io nel far loro scuola, vedendo che mi presta-vano attenzione e che qualche buon frutto ne ricavavo, co-minciai a stimare che l’opera d’istruire fosse utile non solo, ma anche nobile e generosa. Laonde, senza por tempo in mezzo mi procurai il programma per l’esame di patente e comperata una pedagogia del Vecchia259, mi misi al lavoro. Senza però voler troppo fidare in me stesso, chiesi l’aiuto del maestro co-munale Giovanni Paci, il quale venendo in mia casa due o tre volte la settimana, mi spiegava i capitoli della pedagogia, mi dava a svolgere qualche tema, e mi esercitava nell’aritmetica, ch’era sempre il mio debole.

258 Giovanni Corvetto (cit., vedi nota 126) entrò in Parlamento nel novembre 1874. Bettini poté dunque inviargli la supplica pochissimo tempo prima del-la sua nomina a Sassoferrato. All’epoca inoltre non era ancora generale, grado al quale sarebbe stato promosso anni dopo, nell’ottobre del 1882.

259 P. Vecchia, Corso di pedagogia pei maestri di grado inferiore : secondo i program-mi per le scuole normali e magistrali d’Italia, G. B. Paravia, Firenze, ecc. 1865.

10 aprile 1910

Il Paci era un uomo d’ingegno, ma viziato dall’ambiente: pren-deva a credito nelle botteghe e non pagava, chiepren-deva denari a prestito e non restituiva: dedito al vino ed ai liquori, passava il tempo nei caffè e nelle bettole in compagnia di oziosi, di pet-tegoli e di politicanti volterriani e pretofobi, dei quali il mio paese era ben fornito. Come maestro sarebbe stato un valore, poiché conosceva molto bene l’arte didattica ed al buon senso e criterio, di cui era dotato, congiungeva anche una coltura letteraria discreta. Ma gli mancava il più: l’autorità, che vien dall’esempio di una condotta regolare ed onesta.

Fisicamente, il Paci era un bell’uomo: alto, asciutto, petto am-pio, spalle quadre, fattezze regolari, occhi intelligenti: cammi-nava maestoso con la testa eretta, ed anzi i maligni dicevano:

“Con la test’alta e con rabbiosa fame”260.

Educato nel seminario di Pergola ai tempi del Serra, n’uscì pochi anni innanzi che scoppiassero i moti delle Marche, ai quali prese parte. Nato di genitori piuttosto agiati, dilapidò il discreto patrimonio, riducendo sé e i suoi nella più squallida miseria. Uno de’ suoi fratelli, il più piccolo, di nome Lorenzo, aveva genio pel melodramma e ne compose alcuni, che ricordo d’aver letti. Datosi anch’egli all’insegnamento, andò maestro in un comune presso Napoli, donde più non fece ritorno. E là pure volle dar prova del suo valore poetico, scrivendo Il vero Padre della patria, ossia la storia del Risorgimento italiano261, del quale il De Gubernatis262, nel suo Annuario della Letteratura,263 dà questo severo giudizio: “Crediamo che fosse difficile riusci-re a metteriusci-re insieme un lavoro più grottesco”.

Il secondogenito dei fratelli Paci, di nome Ignazio, stette per molti anni in mia casa, in qualità di servo sciocco e fedele,

260 Dante, Inf., I, v. 47.

261 L. Paci, Il vero padre della patria, ossia Storia del Risorgimento italiano narrata alla gioventù e al popolo in cinque canti in ottava rima, Pozzi Carlo, Torino 1880. Due anni dopo il Paci diede alle stampe un altro lavoro poetico: A Saverio Marotta poeta siciliano : versi, Castelnuovo di Porto 1882.

262 Angelo De Gubernatis (Torino, 7 aprile 1840 – Roma, 20 febbraio 1913), scrittore, linguista e orientalista.

263 A. De Gubernatis, Annuario della letteratura italiana nel 1880, G. Barbèra, Firenze 1881, pag. 108.

la qual parte egli, in questa commedia umana, rappresenta-va benissimo, lavorando come meglio poterappresenta-va e facendo ride-re colle sue sciocchezze, pride-ressapoco simili a quelle che il De Amicis264 racconta ne La vita militare di quella sua “ordinanza originale”265. E appunto il Paci, essendo stato sotto le armi, raccontava che, avendo smontato il fucile per nettarlo, ricom-ponendo i pezzi ne trovò uno di più, che, come inutile, get-tò in un pozzo, e sosteneva che Torino, dove era stato alcuni mesi, è una città non molto più grande di Pergola. Inoltre egli, come la sullodata ordinanza, spesso capiva una cosa tutta a rovescio: mandato una volta a prendere un libretto, chiese invece lo stiletto: il che basta e avanza a provare come fosse grande la balordaggine di quel povero Ignazio.

L’agosto del ‘73 andai per l’esame in Urbino. Il viaggio in car-rozza fu bello e divertente, poiché percorrendo non troppo velocemente, ed anzi talora a passo ordinario la via maestra che traversa Mondavio, Sant’Ippolito, Sorbolongo, Fossom-brone, Calmazzo ed altre terre, ebbi agio di ammirare le vaghe prospettive delle pianure e dei colli e tutto quell’ubertoso ter-ritorio coltivato a viti, ulivi, gelsi e cereali; sorriso da un cielo limpidissimo e accarezzato da una aura leggera, ch’io, avvezzo alle bassure di Pergola e del mio paese, non avevo mai provato.

La comitiva era piccola: io, il maestro Paci, la signorina Giusti-na Domenichelli con suo padre ed altre due ragazze, che non ricordo chi fossero, accompagnate da un’altra donna. Stemmo in Urbino alcuni giorni, ospiti d’una vedova, di nome Maria Calamassi, che avea un figlio chierico. Vidi il Palazzo ducale, il Duomo ed altre cose, delle quali però non mi resta che un pallido e confuso ricordo.

Feci gli esami alla scuola normale, ove il direttore e gl’inse-gnanti eran tutti piemontesi e due vestiti da prete: il direttore Ruffino, fresco, grassoccio, arzillo, e il professore di matema-tica, rude e nero come un etiope. Un altro ex prete, Primo

264 Edmondo De Amicis (Oneglia, 21 ottobre 1846 – Bordighera, 11 marzo 1908) scrittore e pedagogo conosciuto come autore del Cuore, uno dei testi più popolari della letteratura italiana per ragazzi.

265 E. De Amicis, La vita militare, Treves, Milano 1880 (n.d.A.).

23 aprile 1910 Inaugurazione della IX Esposizione internazionale di Belle Arti.

Rossi, buon professore di lingua, piccolo e manieroso, aveva smesso l’abito. Inoltre faceva parte della commissione esami-natrice il regio ispettore scolastico Donato Vallegiani, uomo sulla cinquantina, alto e grosso, dai capelli e dalla barba briz-zolati, senza posa e dalla faccia bonaria. Io già lo conoscea di nome, avendo adottato alcuni suoi libretti266.

I temi che diedero a svolgere furono i seguenti:

Pedagogia. Spiegate con un esempio scelto a piacere in qual modo voi fareste gli esercizi di nomenclatura, af-finché essi giovino non solo allo studio della lin-gua, ma principalmente a destare ed avvalorare nei fanciulli la osservazione e la riflessione.

Italiano. Un giovine contadino dell’Italia meridionale, dopo essere stato per cinque anni a servire nell’e-sercito, ritorna a casa non solo meglio educato, ma bene istruito del leggere, dello scrivere e del far di conto. Ora trovandosi tra i rozzi contadini del paesello nativo, ha occasione di meglio apprezzare i vantaggi dell’educazione e dell’istruzione ricevu-ta nella milizia. Onde pieno di gratitudine scrive all’antico suo capitano, ringraziandolo dei beni morali ed intellettuali conseguiti per la disciplina militare. Immaginate di essere voi quel desso e di scrivere siffatta lettera.

Religione. Vocazione di Abramo. Monoteismo e Politeismo.

Dichiarate ai fanciulli gli attributi di Dio, come è conosciuto dai Cristiani. Adducete qualche esem-pio per dimostrare come la idolatria è condannata dalla nostra religione.

Il problema consisteva in una proporzione semplicissima; ma io non seppi risolverlo. Tutto il resto andò a gonfie vele. Fui quindi bocciato in aritmetica, e perciò il novembre successivo dovetti tornare in Urbino. Ma questa volta feci la strada

so-266 D. Vallegiani, Compendio di nomenclatura italiana: ad uso delle scuole elemen-tari, serali e delle famiglie, Paravia, Roma 1873 - D. Vallegiani, Il primo libro dei giovinetti e degli adulti analfabeti, tip. Luigi Sambolino, Genova 1871.

letto e non più in carrozza, sibbene in carrettino, o bighetta, come si dice da noi, tirato da un asinello di color cenerino.

Il padrone dell’equipaggio, un certo Marzocca, mi accompa-gnava. Non parlo della lentezza del viaggio, delle lunghe salite fatte a piedi e delle esortazioni, o meglio degli argomenti per-suasivi, di cui aveva bisogno il povero orecchiuto per accele-rare alquanto. Partiti da San Lorenzo sull’alba, arrivammo in Urbino che il giorno se n’andava. Ospite della stessa casa della vedova Calamassi, ci trovai una giovine intelligente e spiritosa, di nome Alisma Zangolini, figlia di un medico di un paese vicino, anch’essa allieva maestra, colla quale il giorno innanzi l’esame ripassai le regole di aritmetica. Il 10 novembre rifeci la prova, e questa volta me la cavai bene. Ma il ritorno fu orribi-le: una pioggia torrenziale mi accompagnò sino a Fossombro-ne, dove arrivai sul tardi, inzuppato e grondante.

Superato l’esame, feci l’anno di tirocinio prescritto dal regola-mento e l’8 agosto 1874 mi fu rilasciata la patente di maestro elementare inferiore con punti 68 su 90, firmata dal Cellario, facente funzione di regio provveditore agli studi per la provin-cia di Pesaro.

A proposito del mio tirocinio, dirò che dovetti compierlo nella scuola del maestro Giuseppe Gullini, che fu il più buffo, il più volgare e il più malandrino di tutti i maestri; sia riguardato dal lato fisico che dal lato morale e didattico. Romagnolo di nasci-ta, era stato con Garibaldi non so in quale campagna ed avea, prima di fare il maestro, esercitato il mestiere di calzolaio. Da-tosi quindi all’insegnamento, venne eletto maestro nel mio pa-ese, dove visse in libero amore con una donna, dalla quale ebbe una figlia, cui impose il nome di Selene. Tozzo, sciancato, col-le gambe corte, colla testa grossa, coi capelli irsuti, coll’occhio di bragia, era, mi dispiace il dirlo, un brutto ceffo, una ridicola caricatura. In quanto a opinioni e dottrine, non credeva né in Dio né del diavolo: bestemmiava come un eretico, metteva in berniesco267 le cose più sacre e riempiva certi suoi scartafacci

267 Francesco Berni (Lamporecchio, 1497 – Firenze, 26 maggio 1535), poeta e drammaturgo, diede il nome a un genere letterario i cui motivi (per es.

l’insofferenza verso i parenti; l’odio verso la vita coniugale e la moglie; la rappresentazione di donne vecchie e brutte, di cattivi medici, di cattive notti

di prose strampalate e di versi maccheronici. Senza conoscere nemmeno l’abbici della meccanica, diceva che avrebbe trovato il moto perpetuo, al qual uopo stava costruendo una mac-china, della quale i congegni più perfetti erano i rocchetti da cucire, che ci entravano in buon numero. Ma l’infamia del Gullini era la scuola; la scuola, ch’ei facea, si può dire, con tre “b”: bastonando, bestemmiando e buffoneggiando; onde fu veramente il maestro indegno “supplizio della generazione novella, aguzzino degli innocenti”268 ed io, che lo vidi all’ope-ra, non dubito di affermare che la scuola di questo maestro fu seme di ignoranza e di corruzione pel mio povero paese269. E come i mali esempi ancora non bastassero, capitò in que’

tempi un medico di San Valentino d’Abruzzo, un certo Emi-dio Rotondo, giovine di bell’aspetto, ingegnoso e di maniere attraenti, il quale sollazzava i miei conterranei, motteggiando così tra il boccaccesco e il volterriano. Poeta di facile vena, avea scritto un canto, sullo stile mercantiniano, in cui inveiva contro il prete, dicendogli:

Ripiega le tende, infame levita,270 o santa bottega, la merce è fallita.

e cene, di mule testarde, ecc.), pur non essendo sconosciuti o innovativi, ap-partenendo ad una tradizione giocosa antica di secoli, si trovano riassunti, nel nome di lui, in un nuovo archetipo di stile, dove al molto faceto si mescola in fondo anche molto del serio: il berniesco, appunto.

268 N. Tommaseo, Sull’educazione, pensieri, Tipografia Redaelli, Milano 1864, pag. 38.

269 Il giudizio che dà mio fratello del maestro Gullini mi sembra peccare di ec-cessiva severità. Il Gullini come uomo era (ed è, perché è tuttora vivo) uno stravagante, come maestro credo non sapesse dove la pedagogia stesse di casa;

d’accordo, Ma del resto io l’ho frequentato moltissimo e posso sinceramente affermare ch’egli non era un corruttore. Fargli carico di essere vissuto con la sua compagna in libero amore è ingiusto, quando si pensi che il veterinario Luigi Fabbri, persona da tutti stimata ed onorata, convisse con una donna maritata ad altri e vivente il marito, senza che nessuno trovasse a ridirci. Del resto poi la compagna del Gullini, negli ultimi anni, trovandosi gravemente malata, richiese il marito di sposarla col rito ecclesiastico ed egli subito accon-sentì. Dunque non era un settario. Il Gullini ebbe anche un figlio di nome Spartaco (chiosa di Nazzareno Bettini).

270 Levita, m. t. lett. Quelli della tribù di Levi, addetti o destinati al sacerdozio.

E, p. est., I sacerdoti moderni. (da: P.Petrocchi, Op. cit.).

E definiva la faccia del suo nemico un quid simile “tra l’ebete e il porco”: ciascuna strofa finiva col ritornello:

Bastone di prete l’Italia non doma va fuori di Roma!

Il Rotondo fece poi tanto ridere con una satira contro il signor Pietro Mariotti, il quale si piccava di medicina e andava spac-ciando certe sue dottrine sull’origine delle malattie, sul modo di curarle ed altre cose simili. La cricca liberalesca odiava cote-sto povero Galeno d’un odio feroce e implacabile.

Il Mariotti era quello stesso che da ragazzo, come innanzi ac-cennai, gettò in fiume le sardelle, perché gli avean detto che da esse nascon merluzzi. Il che dimostra che i ragazzi d’una volta nascevan cogli occhi chiusi e li aprivano tardi, attaccati com’e-ran sempre alle gonne della madre e perfettamente ignari del mondo. Del resto il Mariotti non era ingenuo né stupido a quel segno, che molti si sforzavano di farlo apparire. Cervello perfettamente equilibrato non avea, ma intendimento e buon senso non gli mancavano. Nato di famiglia comoda e civile, ma cresciuto in casa come in un guscio, egli, divenuto giovine, si trovò nel mondo come un pesce fuor d’acqua. L’asse pater-no pater-non era gran fatto lauto da permettergli una vita oziosa: i tempi cominciavano a correr difficili per i piccoli possidenti, carichi sempre più di tasse: d’altra parte un certo decoro bi-sognava pur mantenerlo per onore al casato: qualche piccola abitudine di lusso e di piacere, come la caccia, il fumo, il ve-stir bene, non si poteva del tutto abbandonare. Il capitale del Mariotti cominciò ad essere intaccato: le rendite, sempre più assottigliandosi, diventarono insufficienti a vivere; ed ecco i debiti, ecco le ipoteche, ecco gli usurai, che in poco tempo di-vorarono le migliori sostanze, ossia i terreni, lasciando la sola casa e anch’essa non del tutto libera.

Il fratello di Pietro, don Giovanni, sbarcava alla meglio il lu-nario: prete curioso, prete buffo, giammai uscito dalla fase infantile. Dicea messa alla lesta, anzi a vapore, a precipizio, in un baleno. Il giorno, tappato in casa con la Marianna,

an-24 aprile 1910

tica fante, incollava carta, impastava creta, con cui modellava statue orribili, e fabbricava fuochi d’artifizio, che incendiati per qualche festa su intorno alla fonte, riempivano il paese di fumo e di puzzo.

Una sorella del Mariotti, di nome Annetta, sposò il professore Modesto Serafini, buon letterato, che insegnò alcuni anni nel seminario di Pergola e finì poi maestro nel comune di Mon-temarciano, vicino a Chiaravalle. Un’altra sorella, Devota, fu moglie ad uno Stagni, medico bolognese, il quale morì giovi-ne, lasciando due figlie, che sotto la guida della madre crebbe-ro buone, laboriose ed anche avvenenti. Lo zio Pietcrebbe-ro amavale di tenero affetto.

Una di queste sorelle fattasi sposa di uno Stefano Massaioli, giovine di bell’aspetto, ma dissoluto e dedito ad ogni vizio, dopo pochi mesi di matrimonio, fu in un baleno recisa da morte e insieme con lei soffocato anche il frutto che portava in grembo. Il fatto destò una viva compassione e corse voce che la Fifì, così avea nome la sposa, fosse stata vittima dei mal-trattamenti del marito, il quale anzi con un calcio l’avrebbe sconciata. Il Mariotti più di tutti persuaso che la morte della diletta nipote fosse dovuta ad un crimine, cercò ogni modo di scoprirlo e perciò accusò il Massaioli di uxoricidio, chiedendo che fosse esumato il cadavere della nipote per sottoporlo ad un esame necroscopico. Ma l’accusato era coperto dalla camorra, la quale, per solidarietà settaria, impediva che le autorità pren-dessero sul serio l’accusatore, facendolo passare per matto. La cricca liberalesca, con a capo il Ligi, il Brini ed altri, cominciò così a dar la caccia al Mariotti, il quale fu oggetto di derisioni, di dileggi, di scherni e di offese l’una più atroce dell’altra.

E così è che il medico Rotondo, finché stette a San Lorenzo, diede man forte a questa caccia spietata e tra l’altre, scrisse una sozza satira, che fu esposta al pubblico con una vignetta illustrativa, rappresentante il Mariotti sopra un carro tirato da un asino, in atto di vendere un suo specifico. “A voi signori amabili”, cominciava la poesia, facendo parlare il Mariotti:

A voi signori amabili pubblico illetterato, in me presento un umile

artista indebitato,

che dalle sponde ausonie, ove sorride amor,

arreco un ippocratico mirabile liquor.

E seguitava:

Non sono, il Ciel mi liberi!

tal uom che a destra e a manca mi spacci a cattedratico

dottor di Salamanca:

giammai di scienze mediche il mio cervel capì,

né di Bologna o Napoli vissi alla scuola un dì.

Il mio sapere è mistico dono del ciel, sappiate, come sarebbe ai nordici il don delle patate.

Io non tradii la patria, a Dio non fui rubel:

ecco perché propizio a me si mostra il Ciel.

[…]

Già qui si sente il dardo intinto nel fiele della politica: e la satira continua sempre più sporca ed oscena: ma, ripeto, fece tanto ridere!...

Quando Iddio volle, il Rotondo se n’andò, lasciando uno strascico di pettegolezzi per una relazione con la moglie d’un medico, bella e formosa signora, che portava il “bel nome italico”271 di Letizia.

Quattordici anni dopo rividi il Rotondo nel suo paese di San Valentino, come dirò a suo tempo. A San Lorenzo in Campo,

271 G. Carducci, Odi barbare, “Per la morte di Napoleone Eugenio”, vv. 33-34 (“… Ivi Letizia, bel nome italico / che ormai sventura suona ne i secoli …”). Il riferimento Ë alla bisnonna del principe imperiale Napoleone Eugenio (1856 - 1879), figlio di Napoleone III e di Eugenia di Montijo e morto in Sudafrica, Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone 1∞. Vedi anche la nota 382.

la persecuzione contro il Mariotti non ebbe tregua, sino a che l’ira di quell’uomo scoppiò un giorno in tragica e orribile ma-niera, come pure diremo a suo luogo.

L’anno stesso che feci l’esame provai, posso dire per la pri-ma volta, quella dolce passione, per cui Dante scrisse La Vita Nuova e il Petrarca le Rime. L’oggetto del mio amore fu la gio-vinetta Giustina Domenichelli, nativa di Pergola e stabilitasi nel mio paese con uno zio e la zia: con essa feci il viaggetto in Urbino l’agosto del ‘73. La Domenichelli era una ragazza

L’anno stesso che feci l’esame provai, posso dire per la pri-ma volta, quella dolce passione, per cui Dante scrisse La Vita Nuova e il Petrarca le Rime. L’oggetto del mio amore fu la gio-vinetta Giustina Domenichelli, nativa di Pergola e stabilitasi nel mio paese con uno zio e la zia: con essa feci il viaggetto in Urbino l’agosto del ‘73. La Domenichelli era una ragazza

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 130-153)

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