• Non ci sono risultati.

MAESTRO A SASSOFERRATO

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 153-200)

“La Rocca, battuta dal sollione, o soffusa del lume di luna o coperta del candido manto nevale, era sempre bella, sempre pittoresca e ispira-trice di romantiche fantasie.”

(pag. 208)

Nella minuscola vita di un uomo, come nella storia del mon-do, vi sono certi punti salienti, controsegnati da qualche fatto, al quale si riferiscono le vicende di un lungo periodo: per me appunto fa epoca la seconda partenza dal mio paese per an-dare ad assumere l’ufficio di maestro pubblico nel comune di Sassoferrato.

Nell’anno ‘74 avevo tentato altri concorsi, a Pesaro (scuola unica in Santa Maria dell’Imperiale), a Sant’Elpidio a Mare, a Mondavio e a Genzano di Roma.

Il comune di Sassoferrato, con avviso in data 30 ottobre 1874, firmato dal sindaco cavalier conte Giovanni Marini, aprì il concorso a due posti di maestro di prima classe elementare, uno per la contrada Borgo o l’altro per quella di Castello. Rac-comandato caldamente al professor Carlo Andreoli, del quale ho già parlato, e ad altri cittadini sassoferratesi dal mio mae-stro canonico Angelucci, il Consiglio comunale mi nominò sulla fine di dicembre. Ricevuta la lettera che mi invitava ad assumere il posto, lasciai il mio paese la mattina del 10 genna-io 1875. Era un’alba fredda ed umida, un cielo bugenna-io e nebbgenna-io- nebbio-so e le strade fangose.

La cura di accompagnarmi era stata affidata da mio padre al suo cugino Sante Tittoni, venuto apposta da Castelvecchio, ov’era maestro.

Lo zio Sante, mentre scrivo (13 febbraio 1911) ancor vive ed è un vecchio sui settanta alto, asciutto, diritto, dall’aspet-to ardidall’aspet-to, dall’occhio vivo, dalla fisionomia aperta. È figlio di un’Orsola Bettini, sorella di mio nonno Francesco, che si maritò a un Domenico Tittoni; dal quale connubio nacquero quattro figli: Giacomo, Lorenzo, Bernardo e Sante, ed una figlia, Lucia. Giacomo morì presto, lasciando due figlie, Gae-tana ed Ester: della sua vedova ho già parlato senza nominar-la; e fu Maddalena Mezzaluna, precisamente quella venditrice

10 gennaio 1915 Oggi è il 40°

anniversario della mia partenza dal paese natio:

e coincide anche il giorno, essendo anche oggi domenica.

di sali e tabacchi, sospettata e mormorata da tutte le bocche.

Lorenzo andò a Roma, si arruolò nel corpo dei gendarmi pon-tifici e rimpatriò dopo il ‘70. Bernardo fu prete e, come tanti altri, privo d’ogni virtù sacerdotale ed anzi fornito di qualità opposte: morì parroco nel castello di Montalfoglio.

Anche lo zio Sante vestì l’abito ecclesiastico; fu chierico al se-minario di Pergola e ricevette gli ordini sacri. Iscritto nelle liste di leva, non so perché, una sera d’autunno del 1860, fu arrestato da due carabinieri in mezzo alla via, chiuso in caser-ma e tradotto pricaser-ma nelle carceri di Pergola e poi in quelle di Pesaro. Dopo aver subito un processo, andò sotto le armi.

Terminato il servizio militare, abbandonò l’idea di farsi prete.

Presa la patente di maestro, ottenne un posto a Castelvecchio, frazione del comune di Monteporzio, ove piantò le tende.

Dopo molti contrasti con l’autorità ecclesiastica, fu alla fine prosciolto dagli obblighi contratti nel ricevere gli ordini sacri, e sposò una Vittoria Paolini, colla quale condusse vita discreta e tranquilla. Non ebbe figli. Rimasto vedovo, fe’ ritorno al pa-ese nativo, ove da circa un paio d’anni, convive con la vecchia sorella, raccolto nelle sue memorie e saldo ne’ suoi principi religiosi, dai quali non declinò neppur un istante.

Questo buon zio dunque m’accompagnò a Sassoferrato, dove arrivati sull’ora nona del giorno suddetto fummo ospiti di Gu-glielmo Bilancioni, un ometto sudicio anzichenò, impastoiato nel muoversi e nel parlare e quasi direi vergognoso, che avea la bottega di caffè al Borgo, in Piazza Bartolo ed era ammogliato in seconde nozze con una certa Leonilde, vedova di quel nota-io Borbiconi morto a San Lorenzo in Campo nel ’60, e perciò amica di mio padre, la quale ci accolse con le più vive dimo-strazioni di affetto. La Leonilde era stata prima domestica in casa del notaio, che la sposò dopo mortagli la buona e virtuo-sa sua prima moglie. Cogli eredi Borbiconi, ch’erano di San Marino, la Nilde ebbe delle liti, che credo non le fruttarono che noie e dispiaceri. Donna di bassa condizione e per giunta estrosa e balbuziente (parlava come a sussulti, aspirando l’aria e chiudendo gli occhi) era già da parecchi anni a Sassofer-rato, portando il peso della famiglia, composta dei figli del primo letto e d’un suo rampollo, ragazzo viziato e scapestrato.

27 febbraio 1911 Lunedì di carnevale

Era una domenica. Il Borgo, animato di gente raccolta in sul-la piazza, mi piacque. Reiterate le accoglienze oneste e liete, salimmo lo zio Sante ed io, accompagnati dalla Nilde, l’erta che conduce al Castello, dove si trova il Palazzo municipale.

Un usciere, Carlo Cesaretti, detto “il Mosca”, (non quello di Dante290) c’introdusse dal Sindaco, il quale [ci accolse] con gentilezza veramente signorile, non disgiunta da una cert’aria di superiorità, che incuteva rispetto.

Ho presente che dopo di noi entrò nel gabinetto del sindaco un frate bianco del monastero di Santa Croce, il quale ebbe la curiosità di sapere chi fossi, e quando gli fu detto ch’ero il nuovo maestro, chiamato a succedere al vecchio canonico don Alessandro Macchiati, si meravigliò di vedermi così giovine.

Facemmo una passeggiata per la via del Castello, sino all’arco Bonanni, e, tornati in Borgo, desinammo cogli ospiti.

Mio zio portava una commendatizia di un certo Bronzini di Castelvecchio per il signor Luigi Amori, il quale trovò subito da collocarmi presso una vedova signora sua conoscente.

La stessa sera lo zio Sante ripartì e quel dovermi dividere mi commosse non poco. Trovai però subito delle buone persone che mi vollero seco e mi usarono le più gentili attenzioni: il povero signor Andrea Ferretti, Settimio Luzi, Remigio Mar-cucci ed altri, coi quali passai la serata di buon umore.

Il giorno dopo presi possesso della scuola, una prima classe, collocata in un’ampia stanza al primo piano del convento degli Scalzi. Contemporaneamente giunse l’altro maestro Antonio Giovanotti, al quale fu affidata l’altra prima classe in Castello.

Però dopo pochi giorni fu deliberato uno scambio. I ragazzi del Borgo – si diceva – son più vivaci e più difficili ad esser tenuti a dovere di quelli del Castello. Il Giovanotti, che ha più età ed è stato sotto le armi, è più indicato per la scuola del Borgo, dove l’altro si troverebbe a mal partito. Veramente il giudizio fu sbagliato: il Giovanotti con tutto il suo servizio militare e non ostante la sua barba bionda ed i lunghi mustac-chi era il meno capace ad ottenere la disciplina degli alunni.

290 Dante, Inf., VI, v. 80 (“Jacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca”); ibid., XXVIII, v. 106 (“Gridò: ricorderatti anche del Mosca”).

Tuttavia io ebbi l’ordine di andare in Castello. Lassù la scuola era in un locale molto infelice; una stanza terrena del Palazzo pretorio, alta e stretta, capace di pochi alunni, male arredata e con una sola finestra all’altezza di un uomo, che dava sulla piazza. Molti babbi vennero a raccomandarmi i loro figli e tra essi ricordo Andrea Ferretti e Alessandro Razzi, impiegati del comune, Pio Fiorini, farmacista, Carlo Rossi, custode delle carceri mandamentali, Achille Toni, infermiere dell’Ospedale civico, e un Ippoliti muratore, che nel ’60 avea tirato giù lo stemma papale dal Palazzo del municipio.

Io mi misi subito all’opera e mi dedicai con vero affetto all’i-struzione di 20 o 25 fanciulli che mi furono affidati; molti dei quali intelligenti e disposti ad imparare e qualcuno di assai dura cervice; ma anche con questi io ero premuroso e pazien-te. Avendo scuola in Castello e casa in Borgo, facevo la salita delle Piagge o della Valle, entrambe ripidissime, due volte al giorno; e ciò seguitai per tutto il tempo che stetti a dozzena presso la vedova, a cui l’Amori mi aveva raccomandato.

Er’ella la signora Carolina Baldini vedova del notaio Lorenzo Tronti, donna già oltre i sessanta, fervente cattolica e cordial-mente ostile a tutto il nuov’ordine di cose, onde i liberali le avevano appiccicato il nomignolo di Austria, che qualche mo-nello le gridava dietro per farle dispetto. La vecchia signora, af-fettuosa e gentile, mi prese molto a benvolere, usandomi ogni attenzione e trattandomi famigliarmente.

Non avea nessuno con sé, tranne una giovine fante di Coldi-noce, per nome Celestina Vescovi, bella e graziosa come “La brunettina” del Poliziano291.

A mensa, la padrona mi raccontava a lungo la storia di suo marito, liberale e miscredente, morto in disgrazia di Dio, per-ché, mentr’ella in quegli ultimi istanti lo esortava a chiamare un confessore, lui si voltò dispettoso dall’altra parte e spirò

291 Per lungo tempo questa “Frottola alla pastorella”, più tardi conosciuta anche come la “Brunettina”, è stata attribuita al Poliziano, mentre l’orientamen-to dei moderni studiosi della poesia popolare del ‘500, a partire dal critico letterario Severino Ferrari, è concorde nel restituirla al sassoferratese Caio Baldassarre Olimpo degli Alessandri (1486 – 1540?), che la pubblicò nel suo Libro nouo chiamato Linguaccio ...., la cui prima edizione nota è quella di Baldassarre Cartholaio, Perugia 1521.

6 marzo 1911

all’improvviso. Indi a poco, sul piano polveroso del cassettone della stanza ove morì quell’uomo, la signora notò delle im-pronte, molto simili a pedate di bestia ferina, sulla cui origine ella nutriva gravi sospetti.

Anima semplice e innocente, tutta amore in Dio, era invece una sua nipote, che teneva con sé, morta nel fior degli anni, la qua-le avea nome Violante, ed era figlia di Cesare Cesauri, di antica famiglia, sposato ad una Baldini. Questo vecchio Cesauri, de-caduto dal primiero stato signorile, teneva in casa una scoletta, ed era il classico tipo di maestro in occhiali e armato di quello strumento che fa rima con verbo, e al cui suono questa parte più difficile della grammatica veniva coniugata dagli alunni.

Della nipote la signora Carolina elogiava la bontà e la delica-tezza, per cui distinguevasi da’ suoi parenti volgari e senza edu-cazione. Un’altr’anima buona era il fratello Ubaldo, sacerdote di gran pietà, che passò la vita a Bologna in opere di carità, specialmente verso i giovani. Presso di lui era stato il nipote Enrico, studente all’università, che però fu ben lungi dall’imi-tarne gli esempi. Anche il fratello Luigi, fonditore di campane in Romagna, paese d’origine della famiglia Baldini, era infetto di liberalismo: il signor Carlo, padre di Enrico, sua moglie Virginia e le figlie erano invece attaccati ai principii ortodossi professati dalla signora Carolina, e perciò si trovavano nelle sue grazie. Con questi discorsi e con altri riguardanti persone e cose del paese la gentile ospite era solita intrattenermi durante il desinare.

La casa di cui ella occupava il primo piano, appartenente ad un ricco signore fabrianese, il cui nome non ricordo, era la pri-ma a destra sulla via del Borgo, accanto alla piazza e le stava a ridosso il poggio di Paravento, sulle cui balze pascevan pecore e montoni, che facevan rotolare i sassi sin dietro i muri.

Montasi su Bismantova in cacume con esso i piè; […]292

292 Dante, Purg., IV, vv. 26-27.

17 marzo 1911

22 marzo 1911

si potrebbe ripetere a proposito di questo poggio, d’ogni parte precipitoso.

Per due strade erte e sassose costruite sui fianchi di esso, si sale al Castello, l’una a destra detta le “Piagge”, donde si scopre il piano, su cui stendevasi l’antica città e la vallata ove scorre profondo il Sentino, e l’altra a sinistra, detta la “Valle”, da cui si domina il piano di Monterosso irrigato dal Sanguerone.

Sulla cima del poggio sorge la chiesa collegiata di San Pietro e sul versante opposto è fabbricato il Castello, dalla cui piazza, e meglio dalla “Roccaccia”, ch’è dietro il municipio, si ammira il panorama magnifico, con lo sfondo dell’Appennino, le cui cime più alte sono il monte Cucco e il monte Strega e giù a levante Frasassi e le montagne della Rossa.

Percorsa la via del Castello e usciti fuori dell’arco, che ora cre-do sia stato atterrato e portava il nome della famiglia Bonanni, c’era una bella strada diritta con a destra una fila di casette e a sinistra la chiesa e gli orti di San Francesco. A ducento passi dall’arco, la strada si biforca: un ramo seguita pianeggiando per San Bernardino, verso Cabernardi, ed è un’amena passeg-giata in cima al colle, con vista bellissima di monti, valli e boschetti; l’altro ramo a destra scende giù in Borgo, un po’

serpeggiando, ed è detta “La lunga”, per distinguerla dalle altre due ripidissime, ed è carrozzabile.

Sindaco di Sassoferrato, com’ho detto, era il conte Giovanni Marini, il quale esercitava la carica con dignità e decoro: anzi può dirsi ch’egli sia stato l’ultimo sindaco gentiluomo del pa-ese. Quand’io lo conobbi, era già oltre i sessanta: alto, snello e ben formato, capelli già canuti, ma carnagione rosea, ancor fresca: vestiva con molta eleganza. Il suo sarto, ch’era di An-cona, un certo Baffoni, veniva una volta all’anno a Sassoferra-to, e il conte l’avea ospite per alcuni giorni. Fornito di mezzi discreti, senza figli e colla sola moglie, ch’era una Becherucci di Cortona, il conte Marini teneva servi e cavalli; viaggiava a Roma, a Napoli, a Venezia, delle quali raccontava agli amici le bellezze: nell’esposizione del [1867] era stato a Parigi; cre-do che visitasse anche Londra; e perciò molti di que’ paesani che non erano mai usciti dal guscio, lo riguardavano quasi un secondo Marco Polo. Un’altra caratteristica della signorilità di questo sindaco erano alcune piante di limoni, che in estate

teneva all’aria aperta in giardino e d’inverno riponeva in un locale a pianoterra della casa. A Sassoferrato le sole famiglie Marini e Baldini possedevano, com’albero sacro, il limone, i cui frutti in casi gravi ed eccezionali, erano dai proprietari ce-duti per grazia.

Il conte Marini attendeva con molta cura all’amministrazione del comune ed essendo anche consigliere provinciale, alle vol-te, come il “conte zio”293, stentava a tenere in testa tante faccen-de. Erano suoi colleghi in giunta il signor Francesco Vianelli, farmacista in Borgo, il signor Luigi Razzi, possidente, il signor Settimio Luzi, ex brigadiere pontificio, Pietro Stella e il dottor Raniero Cecchetelli Ippoliti, notaio in Castello. I componenti il consiglio erano quasi tutti del contado, ricchi proprietari, come il Luzi e il Castellucci di Monterosso ed altri, rappresen-tanti le ville di Coldinoce, Murazzano, Cabernardi, Baruccio e simili luoghi; tutta gente attaccata alle vecchie tradizioni, pau-rosa delle cose nuove e refrattaria alle idee di modernità, spe-cialmente in quanto si riferiscono al principio morale religioso.

I membri della giunta erano invece liberali, di fede monarchi-ca: il Vianelli più realista del re, vero bigotto costituzionale.

Se ne stava egli tutto il giorno in farmacia, occupato a spe-dir ricette, a spolverare il suo gabinetto ornitologico, a leggere

“L’Opinione”294 e a chiacchierare con i medici e gli amici che gli capitavano.

Gli uccelli da lui imbalsamati e disposti in vetrine intorno alle pareti della stanza contigua alla farmacia costituivano gran parte dei suoi pensieri. Credo che dopo Vittorio Emanuele e i principi di casa Savoia, gli aquilotti, i falchi, le civette, i barbagianni, i merli, i tordi, le cutrettole ecc. racchiusi nelle sue vetrine fossero gli oggetti principali delle sue attenzioni.

Quel gabinetto ornitologico era il sancta sanctorum del signor Checco: lì dentro non era permesso fumare, né sputare, né toccare alcuna cosa; lì dentro per que’ volatili, bisognava star

293 A. Manzoni, I promessi sposi: zio di don Rodrigo e cugino del conte Attilio, il personaggio compare per la prima volta nel capitolo XI, ma entra nell’azione della vicenda nel capitolo XVIII.

294 “L’ Opinione Nazionale : giornale politico quotidiano”, Tip. Mariani, Firen-ze, uscito dal 1867 al 189?.

composti e guardinghi, studiare le mosse, misurare i passi; se no, guai!

Ogni giorno, sull’imbrunire, il signor Checco usciva a passeg-gio, quasi sempre solo, colle mani nelle saccocce del soprabito, percorreva invariabilmente la strada che conduce a Genga, sin a un certo punto, ov’egli incontrava le colonne d’Ercole: una quercia e un tabernacolo: lì giunto, retrocedeva.

Ogni domenica andava a messa nella vicina chiesa degli Scalzi, sede della confraternita dei Sacconi, a cui apparteneva; una volta all’anno, in autunno, faceva il viaggio in Ancona, e in carnevale, quando la moglie signora Elisa, donna intelligente e spiritosa, concedeva la sala di casa per una festa da ballo, egli, il signor Checco, si rifugiava a Perticano presso un flebotomo di nome Nazario.

Il Razzi, liberale d’altra marca e forse massone, era però sem-pre cagionevole: il Salviati, tozzo ed obeso, si trascinava a pena sulle adipose piante, sfogando talvolta la sua natura aspra ed iraconda. Il Luzi, già papalino, cercava rifarsi la verginità po-litica, andando d’accordo in molte cose con gli altri partiti.

Infarinato di lettere, declamava lunghi brani d’Omero e d’altri poeti; pratico abbastanza del mondo, esponeva idee filosofi-che tutte sue proprie; riteneva l’uomo per natura malvagio, capace d’ogni cattiva azione. “Credete voi, diceva, che se fosse possibile spegnere il sole con un soffio, già a quest’ora non vi sarebbe stato lo scellerato che l’avrebbe fatto?” Chiudeva ogni suo ragionamento con un “capite così?...” e parea dire: il mio discorso è limpido, non fa una grinza; stupido chi non l’inten-de; e dava risalto alla frase con certe mosse del capo, con certi gesti e suoni di voce comicissimi.

Del resto, era un buon diavolo, come pure era un bell’uomo, alto asciutto, ben proporzionato e d’aspetto marziale. Mentre scrivo, ancor vive.

Lo Stella badava a far quattrini e ad ampliare il suo latifondo, acquistando senza scrupolo i beni delle soppresse case religio-se. Egli infatti abitava l’ex convento di Santa Maria, di là dal ponte sul Sentino, che fu dei frati silvestrini; anzi correva voce che in quel convento cominciasse la sua fortuna, perché ivi un muratore, facendo alcuni restauri, trovò sotto la pietra del

focolare una pignatta colma di monete d’oro, che lo Stella su-bito arraffò e ritenne tutte per sé: questa almeno è la leggenda.

Il fatto è che lo Stella era ingordo d’oro e per esso mostravasi inumano e sordo alla voce dei miseri. E dire ch’egli era stato un poveraccio, che strappava la vita, girando per la campagna coi cardi o pettini sulle spalle, poiché faceva il mestiere del ciompo: credo anzi che quando il muratore scoperse quella famosa pignatta, lo Stella fosse lì intento a pettinare la lana pei frati di Santa Maria, il cui convento ancora non era stato soppresso. Ma egli, fatto ricco, non si ricordava più dell’umile origine e forse, volendo spiegare la sua durezza coi poveri, bi-sognerebbe dire che da povero non avesse molto patito e che si fosse rassegnato alla sorte,

Per ingegno e destrezza il notaio Cecchetelli superava di gran lunga tutti gli altri. Egli poteva esser detto il napoleone del comune, talmente sapea imporre la sua volontà, dominare i colleghi, far trionfare le proprie idee, lavorare tra le quinte e muovere con abili mani le pedine sul suo scacchiere. Ambi-zioso, sensuale, senza scrupoli e senza coscienza, canzonatore di preti e frati, volterriano; tenace negli odii, implacabile nelle persecuzioni, esercitava su tutti un fascino potente. Dicendosi monarchico ed uomo d’ordine – infatti rifuggiva dai partiti politici estremi – s’era procacciata la fiducia dei campagnuoli che ricorrevano a lui per affari, tantoché il suo studio era fre-quentatissimo e la domenica e il venerdì, giorno di mercato, un vero porto di mare.

Fieri nemici di questo don Rodrigo erano Venanzo Agostini e il prete Caballini, due tipi briganteschi, personaggi o

Fieri nemici di questo don Rodrigo erano Venanzo Agostini e il prete Caballini, due tipi briganteschi, personaggi o

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 153-200)

Documenti correlati