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LA SCUOLA TECNICA

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 122-130)

“…. il professore Raffaele Piccinini religioso camaldolese e dotto botanico.

[…] Mi pare ancor di vederlo quel monaco, in bianca tunica, ritto alla lavagna e col gessetto in mano dimostrare teoremi e disegnare figure geometriche …”

(pag. 101)

Il 28 agosto 1871 uscii per sempre dal seminario e nelle va-canze deposi l’abito talare. Ai primi di novembre tornai a Per-gola per iscrivermi alla prima classe della scuola tecnica: errore questo piuttosto grave commesso dallo zio Sante Tittoni, il quale fu in tal faccenda il malaccorto consigliere di mio padre.

Infatti, dopo aver compiuto il ginnasio, il mettersi alle tecni-che non solo era un cambiare strada, ma un tornare indietro di molto; ed io subito me n’accorsi dai temucci che ci dava il professor d’italiano, temucci naturalmente adatti ai fanciul-li usciti allora dalle scuole elementari. Io quindi nell’itafanciul-liano, come in altre materie, non avevo nulla di nuovo da imparare e poiché anche la matematica continuava ad essermi ostica, non mi restavano che le scienze fisiche e la lingua francese, alle quali potessi con qualche interesse applicarmi.

Le lezioni di scienze fisiche mi piacevano, anche perché im-partite con somma chiarezza dal canonico Serra e studiate sul testo ancor chiarissimo del professor Omboni243, morto a Padova ottantenne, or son pochi giorni. Assistevo pure con piacere alle lezioni di matematica, non tanto perché la materia per sé stessa mi andasse a genio, ma per la forma simpatica con cui la spiegava il professore Raffaele Piccinini244, religioso ca-maldolese e dotto botanico, di cui ho già parlato. Mi pare an-cor di vederlo quel monaco, in bianca tunica, ritto alla lavagna e col gessetto in mano dimostrare teoremi e disegnare figure geometriche; e ricordo sempre che una volta, avendo chiama-to uno scolaro a dir la lezione, ad una mossa di sgomenchiama-to ch’ei fece per non essere preparato, il Piccinini, in tono tra il serio e il faceto, guatandolo, pronunziò quel verso:

come falso veder bestia, quand’ombra245.

243 Giovanni Omboni (Abbiategrasso, 30 giugno 1829 – Padova, 1 febbraio 1910) geologo e paleontologo, fu anche autore di moltissimi manuali scolastici.

244 Cit., vedi nota 118.

245 Dante, Inf., II, v. 48.

11 febbraio 1910

Alle lezioni di francese c’era poco da far profitto. Gli scolari, più che per apprendere, pareva che andassero a scuola per di-vertirsi col maestro, il quale era l’oggetto continuo delle loro burle e canzonature, una più comica dell’altra. A me, ch’ero avvezzo alla disciplina e sentivo tanto rispetto pei maestri, il contegno de’ miei compagni pareva non solo sconveniente, ma alle volte eccessivo e addirittura crudele.

Quel così malcapitato professore era un conte Giannini, il quale, come già tanti altri, ridotto il patrimonio a ben poca cosa, vivea ritirato in campagna, nel contado di Mezzanotte, dietro il Ferbole, ove credo avesse una casa e delle terre. Era ammogliato, ma senza figli. Uomo, già oltre i sessanta, conser-vava nell’aspetto quel non so che di nobile, che madre natura imprime a coloro cui scende

[…] per lungo

di magnanimi lombi ordine il sangue246

Alto, bruno, asciutto, er’anche in complesso un bell’uomo; e a me era anche simpatico. Avea pelle abbronzata e mani dure e callose, perché non isdegnava il lavoro campestre. Ma forse contribuiva a metterlo in ridicolo la fama che la moglie avesse in casa invertite le parti, facendo la padrona, non solo, ma te-nendo a dovere il marito, peggio anche che donna Prassede247 con quel povero don Ferrante248.

246 G. Parini (I Poemetti e le Odi, cit., pag. 33), “Il Mattino”, vv 1-2.

247 Personaggio de I promessi sposi, Prassede è una donna esemplarmente bigotta, che pratica la carità in modo ostentato al solo scopo di sottolineare la propria bontà ed ha un’idea particolarmente meschina della giustizia di Dio. Nel romanzo si investe anche di mansioni inquisitorie, esercitate in forma di pro-tezione nei confronti della povera Lucia.

248 Don Ferrante è il marito di donna Prassede, un erudito che Manzoni, sempre ne I promessi sposi, ironicamente ci rappresenta sempre immerso nello studio di una qualche disciplina, con una speciale predilezione per l’astrologia. Dal-la quale trae Dal-la convinzione che tutti gli eventi siano causati dall’influenza de-gli astri per cui, quando a Milano si diffonde la peste, non avendone trovato il riscontro nella dottrina, la ritiene un inganno. Almeno fin quando lui stesso ne resterà contagiato.

La vigilia di Natale dello stesso anno dovevo tornare a casa per le feste. Era una mattinata grigia e fredda e presi posto in una carrozza coperta, ove salì pure una signora di piccola statura, la quale di lì a poco ruppe il silenzio e cominciò a farmi delle domande: e avendo allora inteso ch’io studiavo nella scuola tecnica, pareva che sempre più la divertissero certi particolari sui professori e specialmente i modi burleschi, onde gli sco-lari prendevano in giro il conte Giannini. E così, per quanto fu lunga la strada, io raccontai alla piccola signora le vicende della scuola tecnica, insistendo sulle avventure del professore di francese. Arrivato al mio paese, io scesi salutando la signora, la quale continuò il suo viaggio. Mio padre, che mi aspettava, mi disse subito: quella signora è la contessa Giannini, moglie del tuo professore. Al sentire ciò io rimasi abbastanza sconcer-tato e pensavo come mi avrebbe giudicato il professore, se la moglie gli avesse riferite le mie indiscretezze. Ma il professore fu buono e generoso, poiché il primo giorno di lezione dopo le feste, egli senza rancore mi rivolse queste parole: “Bravo! so che lei ha viaggiato con la mia signora” e non aggiunse altro.

Povero conte Giannini, quant’eri mite e quanto cattivi erano que’ ragazzi che coprivano di ridicolo la tua canizie!

L’anno che rimasi in Pergola fui ospite di un certo Secondo Tommasini, tintore, vecchio prossimo alla settantina e che ri-masto vedovo di una dell’età sua, si era da pochi anni riam-mogliato ad una ragazza del mio paese, fresca ed avvenente, di nome Betta, dalla quale ebbe tre o quattro figli, ch’erano an-cora bambinetti. Il Tommasini, un po’ testardo e presuntuoso, sapeva leggere e scrivere, ma conteggiava all’antica, il panno a bracci, il vino a fogliette e i denari a paoli e a scudi. Del re-sto era un buon diavolo, onere-sto sino allo scrupolo e amoroso della moglie, la quale, bisogna dirlo, lo ricambiava di altret-tanto affetto e gli era riconoscentissima per essere stata sposata senza un soldo e credo anche senza nome. La casa di questo mio ospite si trovava a mano destra della via, che dalla piaz-za, allora detta “del carbone”, davanti alla demolita chiesa de’

Servi, scende al ponte sul Cinisco, sulle cui sponde si vedono le trosce delle concerie, che gettano intorno un ingrato odore.

27 marzo 1910 Pasqua

di resurrezione

Per l’esattezza della cronaca dirò anche che la scuola tecnica era allora collocata in alcune stanze, su all’ultimo piano del Pa-lazzo comunale, con l’ingresso dalla parte posteriore. La scala a pozzo, bellissima, era composta di circa cento gradini, che i professori salivano lenti ad uno ad uno, e gli scolari a quattro a quattro, svelti come scoiattoli.

Vedendo di non cavare un ragno dal buco, la scuola tecnica cominciò a seccarmi. Ritornavo però spesso in seminario per rivedere gli ottimi miei superiori coi quali mi consigliavo sul modo di procurarmi un’occupazione, valendomi degli studi fatti, impossibilitato com’ero a continuarli. Passavo poi mol-to tempo in casa leggendo e scribacchiando. Una volta venne a trovarmi l’amico Rossi, il quale, uscito dal seminario Pio249 e abbandonata la carriera ecclesiastica, si era fatto un giovi-ne elegante, specialmente per il modo con cui s’acconciava la ricca capigliatura corvina e riccioluta, che dava risalto al suo viso sempre pallido e delicato. Egli mi parlava de’ suoi studi e delle sue speranze e mi manifestava anche le sue opinioni, ahi!

quanto mutate.

Fra i ricordi di quell’anno, passato a Pergola quasi inutilmen-te, c’è anche questo, che, ogni quindici giorni, mi arrivava una lettera da un paese non molto distante, situato sull’Appennino umbro: lettera, o lettere, che quantunque vergate da mano feminea, purnullameno non contenevano nulla di erotico, ma piuttosto espressioni affettuose, buoni consigli, e incoraggia-menti, quali una sorella maggiore può dare a un fratello, con una certa espressione di melanconia e di sentimentalismo. E non avrebbe potuto diversamente comportarsi una vergine buona e saggia, ma di già matura verginità, rispondendo a un ragazzo inesperto, nel cui petto ardeva per lei una fiamma d’amore.

Conobbi questa giovine in casa della signora Emilia Bran-chard, la quale era in molta buona relazione colla mia fami-glia; donna allora sulla quarantina piccola e tutta nervi e spi-rito, figlia di un vecchio soldato di Napoleone, stabilitosi non so come nel mio paese insieme colla moglie e due figlie, l’una

249 Cit., vedi nota 144.

4 aprile1910

delle quali, appunto l’Emilia, si coniugò con un Ligi, e l’altra, di nome Rosa, sposò il conte Rodolfo Amatori. La signora Emilia fu donna di virtù singolare e di eroica pazienza, che lungamente e in grado sublime dovette esercitare con suo ma-rito, sostenuta dalla fede in Dio, ch’era in lei sincera e profon-da. Sua madre, di religione protestante, morì nel mio paese e fu seppellita in un campo presso la strada che va a Nidastore, al di là del Cesano, poco distante dalla casa dei signori Monti.

Il vecchio Branchard più tardi sposò in seconde nozze un’An-na Ligi, sorella di Clemente e zia del marito dell’Emilia, vec-chia spilungona, ch’avea passata l’età sinodale250, rimanendo celibe, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei. Il francese, nomignolo del vecchio veterano napoleonico, era piuttosto basso di statura, ma di spalle qua-dre e ben formato: era burbero e accigliato; portava occhiali neri, indossava un lungo soprabito, che gli arrivava quasi sino ai piedi, e camminava lento, appoggiandosi ad una canna con grosso pomo. Facea ogni sera la sua passeggiata; il più delle volte in compagnia del cognato: del resto vivea solitario e riti-rato. Dopo morto il francese, la signora Anna ospitò un Luigi Spaccialbelli, ex gendarme pontificio, rimpatriato dopo il 70, col quale contrasse matrimonio, credo semplicemente religio-so; ma questa volta la signora Anna pagò il suo tributo a natura prima del marito, il quale era di un carattere un po’ volubile, un po’ saccente e vanesio, come tutti di sua razza; ma in fondo un buon diavolo, di discreto buon senso e incapace di far male a una mosca. Vissuto a lungo nelle caserme, avea contratte delle abitudini casalinghe, quasi direi donnesche; purnullame-no si occupò anche della pubblica amministrazione, prestando l’opera sua al Comune, come consigliere ed assessore.

Nell’anno che fui studente a Pergola senza nulla studiare, morì Giuseppe Mazzini251 e ricordo le manifestazioni dei repubbli-cani per quella morte, le commemorazioni indette nei loro

250 Sinodale agg. età s. o canonica: l’età non inferiore a 40 anni prescritta dal concilio di Trento per le domestiche degli ecclesiastici (G. Devoto - G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze 1971).

251 Nato a Genova il 22 giugno 1805, morì a Pisa, dopo essere rientrato clande-stinamente in Italia col nome di Giorgio Brown, il 10 marzo 1872.

circoli, gli opuscoli e le epigrafi stampate e i ritratti esposti nella vetrina di un cartolaio, dove appunto comperai le poesie del Giusti, volumetto edito a Firenze nel 1866252, con un di-scorso sulla vita e sulle opere dell’autore di Giosuè Carducci, il quale finisce così:

Invano la sconsolata gelosia del norde ponga speranza in poca plebe, plebe di gallone e di lettere e di sagre-stia e di trivio253.

I componimenti del Poeta, letti così di seguito in quel volume (mentre prima avevo gustate poche cose staccate nell’antologia del Cappellina, senza comprenderne nemmeno il senso politi-co e civile) m’andarono a sangue e mi schiusero uno spiraglio del mondo letterario moderno. In quei giorni mi capitarono alle mani le Poesie254 dell’Aleardi255 e L’assedio di Firenze256 del Guerrazzi257, che pure mi piacquero.

A proposito del Mazzini, ricordo che a Pergola esisteva allo-ra un partito piuttosto numeroso di repubblicani, alcuni de’

quali, i più giovani e ardenti, disertarono il campo, passando all’internazionalismo; il che fu causa di odii profondi, ch’indi a poco scoppiarono in vera guerra civile. Infatti le due fazioni, una sera di novembre, se non erro, si azzuffarono per le vie e più d’uno restò sul terreno colpito di rivoltella.

252 G. Giusti, Le poesie, con un discorso sulla vita e sulle opere dell’autore ..., Soc.

Edit, Firenze 1866.

253 Ibidem, pag. 59.

254 A. Aleardi, Poesie, Stamperia de’ classici italiani, Napoli 1860.

255 Aleardo Aleardi (Verona, 14 novembre 1812 – 17 luglio 1878), si interessò di poesia, di critica d’arte e di politica, partecipò ai moti risorgimentali del 1848 e fu arrestato dagli austriaci nel’52. Già deputato del Regno, nel ‘73 fu nominato senatore.

256 F. D. Guerrazzi, L’ assedio di Firenze, sola edizione approvata dall’autore, Gui-goni, Milano 1863.

257 Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 12 agosto 1804 – Cecina, 23 settembre 1873) fi politico e scrittore: un intellettuale organico della media borghesia produttiva e democratica del primo Ottocento. Agì nel movimento risorgimentale inizialmente come mazziniano, fu poi ministro dell’Interno nel governo del granduca di Toscana e nel 1861 deputato del Parlamento del Regno d’Italia.

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Nel documento Una vita per la scuola (pagine 122-130)

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