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SAN LORENZO IN CAMPO

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 30-67)

“… i Bettini abitavano in via del Borgo (attualmente corso Vittorio Emanuele II) numero 50, in un palazzetto più che dignitoso, tuttora esistente, che guarda su uno slargo con al centro una fontana.”

(nota 1, pag. 7)

Nacqui da poveri ma onesti genitori nell’antica terra di San Lorenzo in Campo1 circa le ore 4 pomeridiane del 9 di di-cembre 1855. Mio padre ebbe nome Giovanni e mia madre fu Caterina Pezza, entrambi nativi della stessa terra: l’uno di condizioni molto umili ma buono ed onesto fino allo scru-polo, sicché da tutti i compaesani era per tale riconosciuto e stimato, e la mamma, di famiglia alquanto più civile ed agiata, era pure una donna virtuosa, attiva, casalinga, tutt’amore per i figli e tutta carità per i poveri i quali, quando fu morta nel fior degli anni, in gran numero, lacrimando e benedicendola, l’accompagnarono al cimitero.

Mio padre e mia madre amavano Dio con tutto il cuore e ne osservavano sinceramente la legge, nella quale cercavano con ogni cura di allevare i loro figlioli: ed io mi ricordo quando la pia donna la sera, prima di coricarmi, mi faceva giungere le manine e mi metteva sulle labbra parola per parola le preghie-re a Dio, alla Vergine e all’Angelo custode; ed anche la mattina compiva con me e con i miei fratelli e sorelle l’ufficio di madre veramente cristiana.

La mia prima educazione fu affidata ad un vecchio prete, zio paterno di mia madre2, per bontà e costumi illibati da tutto il paese stimato e venerato, già maestro di scuola in altri tempi e devoto ammiratore di San Filippo Neri3, di cui conosceva a

per-1 San Lorenzo in Campo è un piccolo comune della provincia di Pesaro Urbino.

Dal Registro di popolazione di quegli anni, al “Foglio di famiglia n. 60”, risulta che i Bettini abitavano in via del Borgo (attualmente corso Vittorio Emanuele II) numero 50, in un palazzetto più che dignitoso, tuttora esistente, che guarda su uno slargo con al centro una fontana.

2 Era don Pasquale Pezza, uno dei due fratelli sacerdoti del nonno materno, dei quali Bettini parlerà a lungo anche più avanti.

3 San Filippo Neri (Firenze, 21 luglio 1515 – Roma, 26 maggio 1595). Fioren-tino d’origine, si trasferì giovane a Roma, dove radunò attorno a sé un nutrito gruppo di ragazzi di strada, avvicinandoli alle celebrazioni liturgiche e

facen-Venezia 9 marzo 1909

fezione i precetti e gli esempi. Egli perciò amava teneramente i fanciulli e molti ne incamminò sulla via delle virtù e del sapere.

Dopo tanti anni trascorsi e tante vicende passate, la cara e buona immagine paterna di questo mio primo maestro, anzi benefattore, mi sta fissa nella mente e mi pare ancora di ve-derla la sua bella e rispettabile figura di asceta, alto e sottile, dal viso pallido, dalle guance scarne, dal naso affilato e dagli occhi neri e profondi, in cui brillava tanta luce di carità dolce, benigna e paziente.

Il luogo ove lo zio prete accoglieva me ed altri due o tre fan-ciulli miei coetanei era la stessa sua camera, una stanza molto piccola e bassa, arredata di alcune seggiole, di un vecchio cas-settone, di un tavolino e di una scrivania a ribalta. Noi scolari per lo più sedevamo sopra una di quelle lunghe casse di noce, in cui le vecchie massaie riponevano le coltri fatte con lana da loro stesse filata e la biancheria da loro stesse tessuta.

Il libro col quale imparai a leggere fu quello che usava a que’

tempi, chiamato Abbecedario o Santacroce4: Abbecedario, per-ché nella prima pagina erano stampate in colonna tutte le let-tere dell’alfabeto, dall’ a alla z, e si cominciava dall’insegnare il nome di ciascuna: a, be, ce, de, ecc. Si diceva pure Santacroce perché in cima alle dette lettere era stampata una croce e lo sco-laretto, in principio d’ogni lezione, doveva appunto segnarsi.

Era il “principium ab Jove”5 degli antichi pagani applicato cri-stianamente. Oggi nelle aule scolastiche v’è per regolamento, sopra la cattedra del maestro, l’immagine del Crocifisso; il ma-estro però, stando al principio della scuola laica, non deve

par-doli divertire, cantando e giocando, in quello che sarebbe, in seguito, divenuto l’”Oratorio dei Filippini”.

4 Vedi anche: Piero Luchi, La Santacroce, il Salterio e il Babuino, in: Alfabetismo e cultura scritta, “Quaderni storici”, fasc. 2 maggio-agosto 1978, pp. 593 - 630.

Trovo una curiosa conferma anche in un canto fanciullesco ottocentesco, diffu-so nel sasdiffu-soferratese: “Ba a ba; ba a ba / ‘l maestro me vòl menà / me vòl menà co’ ‘na bacchetta / Santa Croce benedetta!” (G. Vitaletti, Dolce terra di Marca, Trevisini, Milano 192?, p. 213).

5 Parafrasi virgiliana dalle Bucoliche, Egloga III: “Ab Jove principium, Musae.

Jovis omnia plena” (“Da Giove, o Muse, il mio principio sia / tutto è ripien di Giove ...”, da: L. Crico, La Bucolica di P. Virgilio Marone tradotta in versi italiani, Zatta, Venezia 1792).

lare né di Dio né di Cristo. I nostri vecchi erano conseguenti ai loro principi: i moderni educatori, invece, cominciando da sua eccellenza il Ministro, non sono che ipocriti.

Sull’Abbecedario s’imparavano le singole lettere, poi si compi-tavano le sillabe e colle sillabe in ultimo si formavano le parole intere. Perché poi le lettere rimanessero bene impresse nella mia mente, lo zio prete, a ogni lettera annetteva l’idea d’un oggetto sensibile, avente una somiglianza con la stessa lettera:

ricordo, per esempio, che “e” era “l’occhietto”, “h” “la seggioli-na”, “s” “la serpetta”, “r” “il sarchiello” e così di seguito. Anche oggi, coi metodi perfezionati, alle lettere dell’alfabeto, perché gli scolari ne ritengano il suono più facilmente, si annette l’i-dea di un oggetto noto, il che significa che l’arte didattica o la sapienza pedagogica, come dir si voglia, trae sue norme dal buon senso e dall’amore di chi insegna; sicché le industrie di-dascaliche moderne sono in gran parte le stesse usate negli antichi tempi, rimesse a nuovo e riverniciate.

Coll’Abbecedario dunque imparai a leggere bene. Contempo-raneamente lo zio prete mi insegnò a tenere in mano la penna, facendomi tracciare aste e curve su carte ch’egli stesso rigava e scrivendo nella prima riga il modello ch’io dovevo imitare. In-sieme colle lettere, mi faceva scrivere le cifre arabiche; ma non ricordo che mi addestrasse a formare i numeri, unendo unità a unità, e molto meno a far conti. Sull’Abbecedario sì che mi av-vezzava a rendere il significato delle parole e il senso delle frasi.

Per la lettura corrente, mi mise in mano Il Buon Fanciullo6 del Cantù7, come libretto di educazione morale, e La vita di

6 C. Cantù, Il buon fanciullo: racconti d’un maestro elementare, Perelli e Mariani, Milano 1846 (non abbiamo naturalmente la certezza che si trattasse proprio di questa edizione, la quale comunque, come quella che ricorda Bettini, è tra quelle illustrate).

7 Cesare Cantù (Brivio, 5 dicembre 1804 – Milano, 15 marzo 1895) fu un intellettuale che, dall’iniziale adesione al romanticismo, si portò su posizio-ni clericali e neoguelfe, fieramente avverse ai principi dell’illumiposizio-nismo e della rivoluzione francese. Collaborò a molte riviste e scrisse molto: tra le sue ope-re più importanti possiamo annoveraope-re il romanzo Margherita Pusterla, opeope-re storiche quali La Lombardia nel secolo XVII, L’Abate Parini e la Lombardia nel secolo passato, Gli eretici d’Italia e soprattutto la monumentale Storia universale, 72 dispense raccolte in venti tomi, composta tra il 1840 e il 1847. Con l’unità d’Italia iniziò la sua vita politica, venne eletto deputato e rappresentò in

Parla-Giosafat8, non so di qual’autore, come esempio di educazione religiosa. La leggenda di Giosafat è una specie di quelle vite dei santi che leggonsi nel Cavalca9, in cui tutto è dettato dalla semplicità e dalla fede, e gli esempi di virtù son mescolati a cose strane, che svolgono il senso del fantastico e del sopran-naturale, specialmente se il libro è illustrato d’incisioni, com’e-ra appunto La vita di Giosafat, ov’io vedevo figure di vecchi con tanto di barba e di naso e disegni di animali, castelli e non so che altro.

Anche Il Buon Fanciullo era adorno di figure, tra le quali ri-cordo benissimo quella di Tonino condotto in prigione fra due carabinieri, di Martin ferraio suo padre, che batte il ferro sull’incudine, di Leone X10 che rivolge delle domande ad un piccolo guardiano di pecore, del nonno che benedice il nipote stendendogli le mani sul capo ed altre.

Completava l’istruzione elementare di mio zio l’insegnamento del catechismo e la lettura della Storia sacra11, le cui incisioni intercalate nel testo mi aiutavano a comprendere l’intreccio dei racconti ed a ritenere i nomi dei personaggi, oltreché mi destavano ammirazione e meraviglia. Quel Padre Eterno in atto di dar vita a tutti gli esseri, quel Mosè prostrato davanti al

mento l’opposizione clericale e conservatrice al nuovo Stato.

8 Vita di S. Giosafat convertito da Barlaam, nuovamente corretta, riveduta, ristam-pata e di figure adornata, Stamperia Formigli, Firenze 1843 (vale la stessa con-siderazione della precedente nota 6).

9 Domenico Cavalca (Vico Pisano, 1270 circa – Pisa, 1342), appartenne all’or-dine dei frati predicatori domenicani e scrisse molte opere di argomento reli-gioso od ascetico. tra le quali un volgarizzamento delle vite dei santi, con molti aneddoti, che a partire dal ‘500 (Vita di sacti padri vulgare hystoriata, In Venetia per Bartholomeo de Zanni da Portese ad instantia de Luca Antonio de Giunta fiorentino, 1509 adi. iii. settembre) ebbe moltissime edizioni a stampa.

10 Al secolo Giovanni de’ Medici (Firenze, 11 dicembre 1475 – Roma, 1º dicem-bre 1521). Figlio di Lorenzo de’ Medici, fu eletto Papa il 9 marzo 1513 e portò alla corte pontificia lo splendore e la cultura delle corti rinascimentali. Fu du-rante il suo pontificato che il monaco agostiniano Martin Lutero, per criticare la vendita di indulgenze nell’arcidiocesi di Magonza, il 31 ottobre 1517 affisse sul portone della chiesa di Wittenberg le famose novantacinque tesi. Gesto che, per convenzione, segna l’inizio della Riforma protestante.

11 Questa indicazione bibliografica è troppo generica perché si possa compiere un qualsiasi tentativo di individuazione di quel volume.

roveto ardente, quel Faraone che insegue gli Ebrei attraverso il mar Rosso, quell’Arca recata intorno alle mura di Gerico, quel Salomone giudicante in trono fra le due madri, quel Daniele calmo fra i leoni, quegli elefanti con sul dorso le torri nella battaglia dei Maccabei, e tutte quelle figure di patriarchi, di re, di profeti e d’eroine mi fecero non poca impressione e mi destarono vivo interesse e confesso anche che mi giovarono più tardi a comprendere le bellezze de La Divina Commedia.

Reso sicuro dalla lettura in volgare, lo zio prete cominciò a far-mi leggere il latino nei libri contenenti le preghiere ed i salfar-mi e gl’inni dell’uffizio della Madonna e subito dopo fui promosso allo studio del Donato12, ch’era la grammatichetta latina di quei tempi; e così fui cacciato nel ginepraio delle declinazioni e nei casi. Lo zio però era buono e paziente e giammai pretese ch’io imparassi le declinazioni e nemmeno le coniugazioni al suono di quell’arnese, che allora usava e fa rima con verbo.

No: egli mi insegnava un pochino alla volta, adagio adagio, con tutta calma: sapeva misurare le mie piccole forze intel-lettuali e ad esse adattare la sua arte. Veramente sarebbe stato assai meglio che lo studio del latino fosse stato preparato da esercizi pratici d’italiano, ma il metodo allora era sì fatto e mio zio, se non aveva il genio di cambiarlo, aveva almeno il buon senso di renderlo più facile e piano, esercitando co’ suoi scolari una pazienza che mai la maggiore.

Dopo la lezione del pomeriggio, egli conduceva me e gli altri due o tre condiscepoli all’aria libera. Si usciva per una por-ticella dietro casa, che metteva in un campo, e di lì per certi sentieri lungo le siepi, si sboccava in una strada comunale, da-vanti alla chiesetta del Carmine. Dopo un breve tratto, la via piegava ad angolo retto, sul cui vertice c’era un tabernacolo;

e lo zio ci faceva correre sino a quello, stando fermo a vedere chi prima arrivasse.

Dal tabernacolo la strada correva diritta circa duecento pas-si e sboccava nella provinciale, che allora traversava il paese

12 Voce antonomastica derivata dall’opera dell’umanista Bernardino Donato, Grammatica latina in volgare, stampata a Verona nel 1529. Vedi: Donato, m.

pop. Il libretto della grammatica latina (da: P. Petrocchi, Novo dizionario scola-stico della lingua italiana dell’uso e fuori d’uso, Milano 1892).

e, seguendo il corso del fiumicello Cesano, continua sino a Marotta, piccola stazione litorale tra Sinigaglia e Fano. Si dice che Marotta sia sincope di “malarotta”, perché in quei pressi l’esercito d’Asdrubale13 fu sconfitto dai romani.

Sull’angolo sinistro formato dalle due strade sorge la picco-la chiesa del Crocifisso, picco-la quale era picco-la meta delle nostre pas-seggiate. Zio prete era il custode e l’amministratore di questa chiesa, a cui prodigava tutte le sue cure, non soltanto celebran-dovi i sacri uffici, ma provvedendola, e credo almeno in gran parte a sue spese, d’arredi e ornamenti. In questa chiesa v’è un’antica immagine del Crocifisso scolpita in legno e custodi-ta in un incavo del muro sopra l’alcustodi-tar maggiore, chiuso da una vetrata e coperto da un velo: e ad essa, ritenuta miracolosa, traevano i devoti anche dai paesi limitrofi per chieder grazie e specialmente guarigioni; ond’erano frequenti i tridui, in cui mio zio recitava speciali orazioni, che finivano col canto del

“Vexilla”14. Il 3 di maggio poi, festa della Santa Croce, il picco-lo tempio si adornava di drappi rossi che coprivano le copicco-lonne e di veli rosei con tocche d’oro, che pendevano dagli archi e dai cornicioni, e tutto il giorno era un pio pellegrinaggio di paesani e forestieri.

Un’altra festa memorabile era quella dell’angelo Raffaele, che cadeva sempre la terza o l’ultima domenica d’ottobre; ed era una festa di famiglia, perché ordinata a tutte spese di mio non-no Lorenzo, il quale ai sacerdoti celebranti, all’uopo invitati, offriva in quel giorno cordiale ospitalità nella propria casa, gra-tificandoli di un semplice ma succolento desinare. Mi ricordo che per quel giorno si preparava apposta una minestra speciale e del pane di puro fiore e che fra i commensali c’era sempre un

13 Asdrubale Barca (Cartagine, 245 a.C. – Metauro, 207 a.C.) condottiero car-taginese, figlio di Amilcare e fratello minore di Annibale, perdette la vita in quella battaglia.

14 Il “Vexilla regis” è una preghiera le cui parole sono tratte dal poemetto in di-metri giambici composto da Venanzio Fortunato, che viene cantata il Venerdì santo in onore della Santa Croce. Vedi anche: Dante, Inf., XXXIV, v. 1-3 (Ve-xilla regis proderunt Inferni / verso di noi; però dinanzi mira, / disse ‘l maestro mio, se tu ‘l discerni).

vecchio cappuccino del convento di Monterubbio15. Questo nome di luogo a me sconosciuto, essendo parecchio lontano dal mio paese, destava nella mia mente non so quali fantasie di monaci e di solitudini.

Mia madre aveva una sorella maritata, Maddalena, e due nubi-li, di nome Battista e Lucia, o Luciòla, come la chiamavano in casa e fuori; entrambe ottime massaie, serie, accorte, risolute:

somigliavano in queste qualità alla loro madre, ch’era Maria Monti di Palazzo, in quel d’Arcevia, donna di spirito virile, di carattere saldo, di mente acuta, temprata alle fatiche, esperta negli affari, previdentissima.

La Battista era una gran maestra di telaio e tessitrice instanca-bile. In tutte le stagioni e quasi tutti i giorni s’udiva da mane a sera il suono dei pettini battuti dalla sua “man veloce / che percorrea la faticosa tela”16. Alcuni anni più tardi mi tornarono alla mente le tele della zia Battista, leggendo nelle Georgiche17 gli esametri:

Interea, longum cantu solata laborem, arguto coniux percurrit pectine telas;18

La stanza del telaio, a pianterreno della casa in fondo all’an-dito, aveva una finestruola che guardava su un orticello e, di fronte alla finestruola, sorgeva un bel melograno. Nel telaio spesso stavo ascoltando anche le novelle e le fiabe di qualche

15 Giuseppe Cappelletti, nel suo Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, vol. III, Venezia 1845, dice solo che “in Monterubbio è un convento di osservanti”. Noi sappiamo anche che di lì proviene un pregevole altare in terracotta invetriata attribuito ai Della Robbia, che attualmente fa bella mostra di sé nella sala consiliare del comune di Pergola.

16 G. Leopardi (Canti, Piatti, Firenze 1831, pag 134), XIX, “A Silvia”, vv. 19-22 (“... / d’in su i veroni del paterno ostello / porgea gli orecchi al suon della tua voce / ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela. / ...”).

17 Le Georgiche, poema sull’agricoltura di Publio Virgilio Marone diviso in quat-tro libri dedicati rispettivamente al lavoro nei campi, all’arboricoltura, all’alle-vamento del bestiame e all’apicoltura, per un totale di 2188 versi.

18 Virgilio, Georg., I, vv. 293-294 (“… / mentre la moglie del lavor la noia / col canto allevia, e sta battendo intanto / col risonante pettine le tele, / …”, da Cle-mente Biondi, Le Georgiche di Virgilio tradotte in versi italiani, Vienna 1800).

vecchierella, che si recava a trovare la giovine tessitrice.

L’altra zia Lucia attendeva le faccende domestiche e a lei spet-tava singolarmente la cura di assistere in tutti i loro bisogni i vecchi genitori e i vecchi zii. Questa zia Lucia fu per me una seconda madre, avendomi amato teneramente da bambino e poi, con altrettanta tenerezza, protetto, aiutato e consigliato sin all’ultimo di sua vita, che fu vita d’affetto, di lavoro e di sagrifizio.

Quantunque la sua istruzione fosse limitata al leggere e scrive-re, purnullameno aveva sentimenti delicati, molto buon sen-so pratico ed una certa attitudine educativa, che spendeva a mio profitto, correggendomi di qualche vizietto, che, come tutti i fanciulli, anch’io avevo, e avvezzandomi all’ordine, alla nettezza e alle belle maniere. Sapea con garbo rispondere ai tanti perché che le rivolgevo; mi raccontava ora una novellina ed ora una favola d’Esopo; mi metteva nella memoria delle sentenze o proverbi in versi e, mediante le vignette di qualche libro, ella, senza avere studiato pedagogia, sapeva benissimo esercitare la mia osservazione, come fanno appunto le maestre d’oggi colle “lezioni per aspetto”19.

Qui noto alcuni fatti curiosi della mia psiche infantile. Chiuso in quel mondo piccino, ch’era la casa e il paese, tutto mi pa-reva fantastico e meraviglioso, in tutto vedevo qualche cosa di magico e strano. Un ripostiglio, un bugigattolo oscuro, un’alta soffitta che prendeva luce da un abbaino, una bassa legnaia, la vecchia facciata di una casa, le finestre d’una stanza terrena protette da inferriate, un muro ricoperto di fusti secchi d’ede-ra, ed altre cose ed altri luoghi mi facevano nell’anima come un’impressione di mistero, che neppur ora saprei definire.

E con senso di ammirazione e di curiosità cominciavo a volger

19 A partire dalla seconda metà dell’800 [....] cominciarono a circolare [...] parole d’ordine che invitavano a un cambiamento coraggioso e radicale nella didattica delle scuole infantili, popolari ed elementari. Lezioni di cose, metodo intuiti-vo, metodo dialogico-socratico, insegnamento oggettiintuiti-vo, metodo oggettiintuiti-vo, lezioni per aspetto, lezioni per immagini furono i termini nuovi che costitui-rono i leitmotiv del cambiamento didattico promosso nel secondo Ottocento.

(R. Vignoli, M. D’Ascenzo, Scuola elementare e rinnovamento didattico tra Otto e Novecento, CLUEB, Bologna 2008).

gli occhi alla volta del cielo, che più che mai mi attraeva la sera col numero infinito di stelle, ai lontani monti azzurri e ai pog-gi, anch’essi un po’ lontani dal paese, sparsi di case coloniche, come di macchie bianche. Ed alla zia Lucia ben cominciavo a domandare che fossero quelle stelle, fin dove si arriverebbe andando su su, sempre su, sempre più in alto; che cosa ci fosse di là da que’ monti, da quelle colline.

Giù poi nell’orticello cominciai a trastullarmi colle erbe e coi fiori e a conoscere alcuni insetti, fra i quali le formiche attras-sero particolarmente la mia attenzione. E di estate sul susino dell’orto cantavano le cicale, con mio gran diletto, e la sera più là nei campi le lucciole facevan lume al grano: ed alle lucciole

Giù poi nell’orticello cominciai a trastullarmi colle erbe e coi fiori e a conoscere alcuni insetti, fra i quali le formiche attras-sero particolarmente la mia attenzione. E di estate sul susino dell’orto cantavano le cicale, con mio gran diletto, e la sera più là nei campi le lucciole facevan lume al grano: ed alle lucciole

Nel documento Una vita per la scuola (pagine 30-67)

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