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Per comprendere il taglio attribuito da Guglielmo di Malmesbury al suo affresco dei sovrani normanni d‟Inghilterra è opportuno soffermarsi brevemente sui prologhi al III, IV e V libro. Sulla scia di Bernard Guenée, anche qui sarà ragionevole sottolineare l‟importanza della riflessione proemiale902.

Come scrivere relativamente a un sovrano come Guglielmo il Conquistatore? Questa è, invero, la prima questione che l‟autore si propone di affrontare: così, appare nell‟immediato la differenza che discosta la sua opera da quella degli altri autori che scrissero del re d‟Inghilterra.

De Willelmo rege scripserunt, diverisis incitati causis, et Normanni at Angli. Illi ad nimias efferati sunt laudes, bona malaque iuxta in caelum predicantes; isti pro gentilibus inimicitiis fedis dominum suum proscindere convitiis. Ego autem, quia utriusque gentis sanguinem traho, dicendi tale temperamentum sevabo: bone gesta, quantum cognoscere potui, sine fuco palam efferam; perperam acta, quantum suffitiat scientiae, leviter et quasi transeunter attingam, ut nec mendax culpetur historia, nec illum nota inuram censoria cuius cuncta pene, etsi non laudari, excusari certe possunt opera. Itaque de illo talia narrabo libenter et morose, quae sint inertibus incitamento, promptis exemplo, usui presentibus, iocundati sequentibus.903

Mentre la presentazione del Conquistatore, attraverso la penna dei precedenti autori – Normanni e Anglo-Sassoni –, fu celebrativa o accusatoria, per mezzo di Guglielmo di Malmesbury essa sarà invece equanime, poiché l‟autore anteporrà l‟obiettivo morale ed edificatorio, scegliendo vicende positive che possano essere di stimolo ai lettori, trascurando quelle negative. L‟autore, peraltro, non vuole che la sua opera getti discredito verso un personaggio – il Conquistatore – di cui, anche se non sarà possibile lodare tutte le opere, sarà quantomeno consentito scusare quelle negative («excusari certe possunt opera»).

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Guenée, L‟historie entre l‟éloquence et la science, pp. 357-370. Sul ruolo svolto dal prologo nelle opere storiche, cfr. Gransden, Prologues in the historiography, pp. 125-152 e Realistic osservation, pp. 175-198 («Author‟s claims that they have written the truth are problematical in cases where their works are biased, and perhaps contain falsehoods. However, the medieval historians‟ concept of „truth‟ differed from ours. They considered that the overall truth of a work was more important than the factual accuracy of every detail. The author had to prove that what he believed to be true was correct, for example that God was on the side of the crusaders, or that a ruler was justified in conquering another country if he intended to reform the church. In the interest of such truths, an author was justified in omitting discordant facts and filling gaps in knowledge with convenient probabilities» Ibidem, p. 128).

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Seppur senza slanci celebrativi, la scelta compiuta dal bibliotecario sembrerebbe propendere per la figura del Conquistatore, le cui imprese dovranno essere d‟incitamento ai fiacchi («inertibus incitamento»), di esempio agli attivi («promptis exemplo»), di utilità ai contemporanei («usui presentibus»), nonché di piacere per quelli che verranno in futuro («iocunditati sequentibus»); è questa una considerazione importante: ai viventi le informazioni sul Conquistatore saranno «utili» – «usui» –. Guglielmo, dando merito alle origini famigliari del suo patrono Roberto, inizierà a narrare le gesta del Conquistatore – avo del conte di Gloucester –, raccontando le sue vittorie, i suoi nemici sconfitti affinché possano infondere nell‟animo di Roberto fierezza e desiderio di emulazione nonché, forse, identità e continuità.

Parimenti, i canoni narrativi utilizzati dall‟autore per raccontare le imprese del Conquistatore (equanimità e senso della misura) verranno impiegati anche nella descrizione dei successori di re Guglielmo, così da non dire nulla di eccessivo, benché tutto ciò che dirà sarà il vero.

De qua moderatione, ut estimo, veri qui erunt arbitri me nec timidum nec inelegantem pronuntiabunt. Hoc itaque non solum de Willelmo sed et de duobus filiis eius stilus observabit, ut nichil nimie, nichil nisi vere dicatur.904

Ecco un‟ulteriore indicazione, offerta dalla penna dell‟autore: per non cadere nella stesura di un panegirico, a scapito di un racconto veritiero, Guglielmo racconterà le imprese dei tre re, i loro aspetti positivi, mantenendoli costantemente subordinati alla misura e alla moderazione.

Sicché, quale impostazione egli sceglierà per narrare le gesta dei figli del Conquistatore? Già nel prologo al III libro, Guglielmo accenna, benché di passaggio, alle principali caratteristiche dei futuri sovrani anglo-normanni. Dalla lettura di poche righe, si intuisce che mentre Guglielmo il Rosso non fu in grado di regnare rettamente, al di là dei primi giorni, sotto l‟influenza di Lanfranco, al contrario Enrico I fu molto simile al padre: entrambi furono estremamente razionali, in più, il terzo sovrano anglo-normanno fu in egual misura prudente e audace nel campo militare, mentre per quel che riguarda i risultati, Enrico ne ottenne diversi, forse per fortuna o perché determinato a raggiungerne – in questa accezione si considera «boni eventus indigentior fuerit» –.

Hoc itaque non solum de Willelmo sed et de duobus filiis eius stilus observabit, ut nichil nimie, nichil nisi vere dicatur; quorum primus parum quod laudetur egit preter primos regni dies, tota vita dampno provintialium comparans favorem militum. Secundus, patri quam fratri morigeratior, invictum animum inter adversa et prospera rexit, cuius si expeditiones attendas ignores cautior an audatior fuerit, si fortunas aspitias hesites beatior aut boni eventus indigentior fuerit.905

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GRA, Prol. III, p. 424 905

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Volendo forse stimolare, con tale anticipazione, il lettore alla lettura dell‟opera, Guglielmo preannuncia nel prologo al III libro come imposterà il lavoro sugli altri due sovrani. Tuttavia, sono i due prologhi seguenti a fornire ulteriori informazioni sul modo in cui Guglielmo struttura il proprio lavoro.

Nel prologo al IV libro, l‟autore ribadisce che tipo di impostazione avrà la sua opera. Ma è evidente, riconosce Guglielmo, che non è facile scrivere di sovrani contemporanei, poiché vi sono dei rischi effettivi nel raccontare gli aspetti negativi, mentre il riconoscimento e la stima si ottengono solo narrando gli aspetti positivi. Per tale motivo, si tende, specie durante il periodo in cui Guglielmo vive, a escludere dalla narrazione gli aspetti deprecabili e a inventarsi, laddove non ve ne siano, quelli encomiabili. Date tali premesse, Guglielmo prosegue nelle sue considerazioni affermando che, proprio per quanto detto poc‟anzi, aveva rinunciato alla stesura di tale opera, ma per l‟amore verso lo studio e specialmente attraverso la sollecitazione dei suoi amici, ha ripreso a scrivere.

Scio plerisque ineptum videri quod gestis nostri temporis regum scribendis stilum applicuerim, dicentibus quod in eiusmodi scriptis sepe naufragatur veritas et suffragatur falsitas; quippe presentium mala pericolose, bona plausibiliter dicuntur. Eo fit, inquiunt, ut, quia modo omnia magis ad peius quam ad melius sunt proclivia, scriptor obvia mala propter metum preterat et bona, si non sunt, propter plausum confingat.906

Tuttavia, al di là delle prese di posizione volte a difendere il proprio operato – che l‟autore dedica agli studiosi e non agli oziosi («non tediosis ingero sed studiosis, si qui dignentur, consecro») –, è sulle scarse parole rivolte alla figura di Guglielmo il Rosso che occorre soffermarsi.

Come poter conciliare l‟abilità di guerriero e l‟assenza di moderazione nell‟esercizio di governo per il figlio di Guglielmo il Grande, pare chiedersi l‟autore? Nel tentativo di mitigare l‟atteggiamento avuto dal secondo sovrano anglo-normanno, Guglielmo delinea gli eventi in modo da presentare il protagonista come un giovane capace, tuttavia schiacciato dai successi di suo padre. Tutte le vicende illustrate andranno a inserirsi in una raffigurazione genuina del personaggio, con le sue debolezze e un potenziale mai sfruttato; poche righe, ma significative: viste le precauzioni prese nel non scadere in adulazione o denigrazione, Guglielmo dirà tutto ciò che si potrà dire sul Rufo in modo tale che né la verità sarà scossa, né verrà sminuita la maestà del principe.

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Dicam igitur in hoc libro, qui huius operis est quartus, quicquid de Willelmo filio Willelmi Magni dici poterit, ut nec veritas rerum titubet nec principalis decoloretur maiestas.907

L‟attenzione dell‟autore a rendere veritiero il resoconto su Guglielmo il Rosso implica una riflessione senza filtri e testimonianze viziate da atteggiamenti parziali, orientando la propria penna verso la descrizione di alcuni momenti di gloria del Rosso, nonché spostando l‟attenzione a un fatto d‟eccellenza del suo tempo, come la crociata («[…] presertim de peregrinatione Christianorum in Ierusalem; quam hic apponere non erit iniurium, quia tam famosam in his diebus expeditionem audire sit operae pretium et virtutis incitamentum»).

Nondimeno, è l‟ultimo prologo che presenta gli aspetti più interessanti: il V libro, destinato a raccontare le imprese di Enrico I – il più grande di tutti i re – e che termina con un elogio nei confronti di Roberto di Gloucester, viene introdotto da dense considerazioni.

Guglielmo afferma che mettere per iscritto quanto attuato da Enrico durante il suo regno è un compito terribilmente arduo, poiché la caratura del sovrano e delle imprese da questi compiute è talmente elevata da rendere le parole vergate del tutto inadatte per descriverla.

Così, ostentando l‟inadeguatezza dei mezzi per descrivere le decisioni e le imprese di Enrico I, Guglielmo ne presenta immediatamente la magnificenza, la grandezza e la vastità di azioni che riempirebbero scaffali di volumi. In pratica, Guglielmo, sottolineando la sua incapacità nel raccontare tali gesta, ha già illustrato la proficuità del lavoro regale esercitato da Enrico: argomento talmente ampio che necessita di un impegno maggiore – ma anche tempo a disposizione – rispetto a quello profuso dal monaco di Malmesbury.

Proprio quest‟ultima considerazione introduce un ulteriore aspetto: le imprese di Enrico I sono talmente elevate e numerose che meriterebbero di essere narrate da un autore celebre come Cicerone, benché anch‟egli, nonostante i suoi successi letterari e la sua grande abilità nel raccontare in prosa le gesta d‟illustri personaggi, avrebbe forse difficoltà nel recuperare e nel mettere per iscritto tutte le azioni di Enrico I. Parimenti, questo è quanto avverrebbe anche con numerosi poeti, a eccezione forse di Virgilio, la cui elevatezza e raffinatezza dei suoi versi sarebbero in grado di descrive appropriatamente le imprese di Enrico.

Per converso, Guglielmo si limiterà a raccontare le gesta meno importanti, dal momento che la sua assenza dalla vita di corte e la sua scelta di vivere in disparte hanno limitato la sua conoscenza delle imprese di Enrico I.

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[…] cuius gesta stili offitio posteris tradere maioris quam a nobis debeat exquin est operae; nam et si sola quae nostras aures attigerunt scripto manderentur, cuiuslibet eloquentissimi nervos fatigare et grandia possent armaria gravare. Quis ergo conetur omnia illa consiliorum pondera, illa gestorum regalium molimina enucleatim retexere? Altioris sunt ista negotii et otiosioris animi. Vix haec auderet vel Cicero in prosa, cuius adorat sales tota Latinitas, vel si quis versuum favore Mantuanum lacessit poetam. Adde quod, dum ambiguis relatoribus fidem detraho, homo procul ab aulicis misteriis secretum, maiora gesta ignorans, paucis manum appono.908

Ma per quale motivo Guglielmo di Malmesbury avanza queste considerazioni? È ipotizzabile che i frammenti di memoria storica tralasciati dal monaco su Enrico I suscitino l‟immaginazione del lettore che rimarrebbe entusiasta per le imprese più grandi che non sono state raccontate e che gettano l‟ombra del mito sul re anglo-normanno. Se l‟ammirazione di chi legge viene destata dalle imprese menzionate nell‟opera, che tuttavia sono solo una piccola parte rispetto alla mole totale e di maggiore respiro, cosa avverrebbe di fronte a tutto ciò che è stato compiuto da Enrico? Forse, ammesso e non concesso che tali imprese siano effettivamente esistite, attraverso questa impostazione l‟autore avrebbe potuto rimandare a qualcosa di superiore a quanto descritto, adombrando un alone di fascino che avrebbe portato le gesta di Enrico I ad appartenere alla sfera del mito e della leggenda.

Nel presentare, tuttavia, Enrico I come il più importante dei sovrani anglo-normanni, Guglielmo si allinea del resto a quanto riconosciuto da diversi autori a lui contemporanei909. Inoltre, l‟affermazione del monaco riguardo alla carenza delle sue informazioni sul terzo sovrano anglo- normanno, potrebbe avere l‟intento di sottolineare il valore aggiunto, ma impossibile da dire – benché avvertibile – di Enrico I.

Quare verendum est ne, dum litterae distant ab animi voto, minor videatur cuius gestae multa pretereo. Veruntamen huius culpae, si culpa dicenda est, bona erit apud illum deprecatio qui meminerit me nec omnia eius gesta potuisse nosse, nec omnia quae noveram scriptum iri debuisse; alterum exegerit personae meae exilitas, alterum coactura sit lecturorum satietas. Pauca igitur rerum eius liber hic quintus suo vendicabit gremio; cetera procul dubio et seret fama et victura in posteros feret memoria.910

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GRA, Prol. V, p. 708. 909

La Cronaca anglo-sassone dice di Enrico I: «[…] and all the people to put down all the injustices that there were in his brother‟s time and to maintain the best laws that had stood in any king‟s day before him» ASC, p. 176; la cronaca di Giovanni di Worcester sottolinea: «Qui consecrationis sue die sanctam Dei ecclesiam, que fratris sui tempore vendita et ad firmam erat posita, liberam fecit, ac omnes malas consuetudines et iniustas exactions, quibius regnum Angliae iniuste opprimebatur, abstulit, pacem firmam in toto regno suo posuit et teneri precepit» JW, p. 94; inoltre anche Orderico Vitale ribadisce: «Hic inter prospera et adversa regnum sibi divinitus commissum prudenter et commode moderatus est ac inter precipuos totius Christianitatis principles optentu pacis et iusticiae fulgens insignis habitus est»

OV, Lib. X, p. 294.

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Il timore di Guglielmo è quello di fare apparire Enrico I meno grande di quanto in realtà meriti, anche se le gesta tralasciate – quelle più grandi, appunto – conferiscono maggiore grandezza rispetto a quelle menzionate. Paradossalmente, il «non detto» potrebbe avere maggiore impatto sul lettore rispetto a ciò che viene raccontato, soprattutto perché gli atti che non sono presenti nelle Gesta Regum verrebbero diffusi dalla fama del sovrano e tramandati dalla memoria dei posteri: attraverso questa impostazione, Enrico I sembrerebbe quasi sublimato a un ruolo superiore rispetto agli altri due sovrani. Contrariamente a quanto affermato nei prologhi agli altri due libri, su Guglielmo I e Guglielmo II, l‟autore porta avanti, in questo incipit, una rappresentazione di chi è spinto dal desiderio di ottenere più di quanto il padre aveva ottenuto, non venendo tuttavia schiacciato dal confronto con questi, come avvenne per Guglielmo il Rosso, bensì riuscendo a valorizzare le sue naturali attitudini, dimostrando di possedere l‟indole del sovrano.

Va altresì rammentato sempre il periodo nel quale Guglielmo di Malmesbury compose e rivide la sua opera (1118-25 e 1135-40), giacché il modo di narrare le gesta dei tre sovrani sarebbe stato differente rispetto agli autori contemporanei del Conquistatore e, soprattutto, sarebbe stato figlio del tempo nel quale il monaco di Malmesbury, fusione della tradizione angla e normanna, visse.