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Governo del territorio; per una pianificazione interdisciplinare del paesaggio

2. Il paesaggio: Teoria, pianificazione, partecipazione

2.4 Governo del territorio; per una pianificazione interdisciplinare del paesaggio

La nascita della pianificazione nel nostro paese si sviluppa in maniera differente rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa. Infatti, mentre in altri paesi è sempre esistita una tradizione culturale del Planning, in Italia la pianificazione nasce e si sviluppa come branca dell’architettura. In particolar modo, essa è stata sempre collegata all’urbanistica, disciplina che si occupa della sistemazione delle città ma anche di quelle nuove. Tale disciplina si afferma notevolmente per porre rimedio alla crescita urbana dell’Ottocento, favorita da fattori quali la rivoluzione industriale, l’urbanizzazione e la crescita dei trasporti.

L’urbanistica può essere definita come una serie di regole varate dall’autorità pubblica al fine di attribuire il dovuto ordine alla città con indici superficiali, volumetrici etc. in base al quale possono essere realizzate delle costruzioni da parte degli operatori privati che si concretizza in due momenti: il primo è quello conoscitivo, che riguarda la storia, la forma, gli elementi e insediamenti della città; il secondo invece è di tipo applicativo, concernente quella che viene definita tecnica urbanistica, vale a dire l’insieme degli aspetti tecnico-dimensionali, funzionali e organizzativo dell’insediamento urbano( Francini, Viapiana 2009, p. 15).

Urbanistica e pianificazione sono discipline simili, ma che si differenziano in maniera sostanziale, malgrado i loro confini non siano mai stati definiti in maniera appropriata. Ciò che le contraddistingue, è che la pianificazione ha un contenuto politico e sociale molto forte rispetto all’urbanistica. Infatti il significato della pianificazione è ben più ampio e, riferendosi all’intero territorio comprende una diversità di discipline che non coinvolge solo l’architettura, ma anche la sociologia, la scienza dell’amministrazione, la statistica, la difesa del suolo, l’economia politica e tante altre ancora. Il fine della pianificazione è caratterizzato dalle trasformazioni del territorio sia di carattere fisico che funzionale, aventi capacità di attuare delle

I processi partecipativi nelle politiche del paesaggio: il caso della pianificazione paesaggistica della Sardegna Tesi di Dottorato in Scienze Sociali – Indirizzo in Scienze della Governance e dei Sistemi Complessi

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modifiche all’assetto del territorio preso in considerazione e che vengono promosse, controllate o condizionate dai soggetti interessati della pianificazione. Sulla base della lettura di Francini e Viapiana, la pianificazione territoriale e l’urbanistica si sviluppano secondo dei cicli:

a) ciclo dell’espansione insediativa controllata: questo ciclo riguarda gli anni Sessanta, dove gli strumenti urbanistici, in modo particolare quelli comunali, sono caratterizzati da un aumento quantitativo e da una diminuzione qualitativa dei nuovi impianti abitativi e produttivi. Sono anni in cui gli impianti edilizi si disperdono fuori dal centro abitato con un’occupazione del suolo non urbano, e talvolta inserendosi nelle aree urbane centrali storiche, generando, a giudizio di Francini e Viapiana, interventi edilizi che contribuiscono al degrado culturale;

b) ciclo della qualificazione insediativa: questo ciclo interessa i primi anni Settanta, dove nonostante l’occupazione del suolo non urbano, le varie amministrazioni comunali decidono di adottare degli strumenti urbanistici con delle misure di contenimento della dispersione urbana. Sono anni caratterizzati anche dalla connessione del concetto di bene culturale ambientale alla pratica della pianificazione urbanistica;

c) ciclo della crescita insediativa contenuta: gli anni di riferimento sono la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, dove gli strumenti urbanistici generali iniziano ad utilizzare degli standard urbanistici per limitare le previsioni insediative, in particolar modo quelle abitative. Tali strumenti richiedono anche una progettazione di piani attuativi per le varie componenti insediative storiche (Ivi, p.16);

d) ciclo della trasformazione insediativa non regolamentata: nella metà degli anni Ottanta, gli strumenti urbanistici comunali si caratterizzano per le previsioni circa la trasformazione innovativa per quanto riguarda gli aspetti insediativi, e in modo particolare quelli abitativi, che si concretizzano tramite singoli progetti come i Piani di lottizzazione di iniziativa privata, in sostituzione di programmi coordinati.

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Queste iniziative mirano ad una sostituzione di funzioni nei lotti delle aree urbane centrali;

e) ciclo della trasformazione insediativa pianificata: questo ciclo vede impegnati sia gli enti provinciali nella formazione di Piani Territoriali di Coordinamento, sia i Comuni che intendono adeguare i propri piani urbanistici generali e le proprie politiche di governo e tutela della trasformazione territoriale con i vari rinnovi previsti dalla legislazione regionale (Ivi, p.17).

Gli anni settanta sono caratterizzati da una mancanza di fiducia nel modello razional – comprensivo in virtù di un clima culturale favorito dai movimenti sociali come la contestazione studentesca ed operaia con conseguenza nei processi di crescita economica e spaziale che non possono essere più controllati dai tradizionali schemi per la loro interpretazione. Verso la fine degli anni settanta si assiste ad una stagnazione economica e la crisi delle finanze statali che fanno in modo che in alcuni contesti venga a manifestarsi un orientamento neoliberista che mira fondamentalmente ad una riduzione dell’intervento dello Stato in economia e ad un ridimensionamento del Welfare State. In questo nuovo scenario vengono assegnati verso gli anni sessanta e settanta nuovi compiti ai processi di pianificazione, mirati al conseguimento di obiettivi “di controllo globale del loro sviluppo”(Ivi, p.22). Gli anni ottanta sono caratterizzati pertanto da una consapevolezza che sia la pianificazione tradizionale, sia un controllo generale delle variabili che determinano un’evoluzione spaziale che “rischierebbe di imbrigliare lo viluppo in schemi troppo rigidi” depotenziando le capacità auto – organizzative dei sistemi urbani. Così gli ultimi quindici anni del XX secolo sono caratterizzati dalla ricerca di strumenti alternativi in cui viene a generarsi una diatriba tra coloro che sostengono le ragioni della pianificazione anche in forme rinnovate e coloro che invece prediligono verso una “sostituzione con la progettazione a scala microurabna”. Se i primi optano per una pianificazione che prende in considerazione non solamente gli aspetti di natura fisica ma anche di carattere economico e sociale, i secondi son orientati verso la progettazione dell’ambiente costruito prendendo in considerazione le diverse specificità di alcune parti della città e del contesto extra urbano così da definire

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anche assetti futuri dello spazio. Secondo Belloni, Davico e Mela il dibattito pare essersi attenuato ma la contrapposizione fra i due modelli è presente ancora oggi, almeno come “opzioni culturali implicite” fra i diversi urbanisti e pianificatori anche se vi è stata un’attenuazione delle polemiche. Si è venuta a creare così una convivenza delle due linee di ricerca. si viene a consolidarsi però la necessità di una pianificazione che, come sostenuto da Ascer ritenga opportuno “un intervento pubblico a lungo termine per l’organizzazione e l’infrastrutturazione delle aree urbane” (Acher 1999, p.64 cit. in Belloni, Davico, Mela 2003, p.23) in cui si assiste all’esigenza di interventi dal punto di vista dell’area vasta sull’organizzazione spaziale che riguardi no il miglioramento delle reti di comunicazione e la riduzione dei rischi ambientali. Viene a delinearsi uno scenario che pare prefiggere una collaborazione fra diversi esperti in cui il sociologo possa ricoprire determinati ruoli per assolvere a specifici compiti (Ivi, p.24). Una pianificazione quindi che non preveda più una formazione monodisciplinare come è stata tradizionalmente concepita in Italia, e quindi destinata alla sola cultura architettonica o ingegneristica, bensì un modello che predilige un nuovo rapporto tra esperti provenienti dall’ambito tecnico, economico, sociale, giuridico, scientifico e naturalistico, in cui si possano stabilire circuiti comunicativi a doppi senso con “competenze diffuse nella popolazione” e con ruoli che, anche se non sono direttamente riconducibili al Piano, son finalizzati ad un suo successo ; si tratta di ruoli formativi, organizzativi, relativi all’imprenditoria e di “rappresentanza nelle varie articolazioni della società civile” in cui ovviamente il pianificatore urbanista continua ad avere un ruolo di rilevanza nel processo di Piano con la sua peculiare competenza (Ivi, p.40). Sulla base dell’indagine condotta da Belloni, Mela e Davico, che evidenziano come alcuni pianificatori/urbanisti affrontino il problema di un loro rapporto con la sociologia ma non prediligono una collaborazione con i sociologi per la realizzazione del Piano (Ivi, p.43), un tema emergente è stato quello della relazione tra luoghi, ambiente e cittadinanza in cui le scienze sociali sono chiamate ad attuare un lavoro di interpretazione dei luoghi al fine di comprendere le varie diversità e gli aspetti identitari dei soggetti (Ivi, pp.52-53). Come sostenuto da Magnaghi il territorio “non

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può più essere assoggettato a norme esogene”, piuttosto è necessario avviare analisi interpretative delle diverse specificità dei luoghi così da porre in rilievo le “norme endogene su cui fondare il Piano”(Magnaghi 1990, p.46 cit. in Belloni, Davico, Mela 2003, p.64). il Piano deve quindi basarsi sul conseguimento di microequilibri mediante il mutamento di stili di vita delle comunità favorendo l’attuazione di pratiche in cui vengono coinvolti una molteplicità di attori (Ibidem). Difatti i luoghi, come sostenuto da Maciocco, non sono altro che sistemi di relazioni di elementi naturali, culturali sociali instaurati nel tempo e interconnessi con tutto ciò che circonda loro. Un particolare interesse sociologico sarebbe riservato in questo contesto allo studio della “crescente pervasività della dimensione ambientale e le nuove modalità di manifestazione dell’urbanesimo, caratterizzate da una diffusione degli insediamenti e della struttura a rete delle relazioni tra attività” (Ibidem).

Nell’esaminare l’excusus evolutivo della partecipazione, Carpentier analizza lo stretto rapporto che vi è fra pratica di pianificazione e quella della partecipazione. Difatti secondo lo studioso il campo della pianificazione del territorio è strettamente legato a quello della sfera politica, ma si tratta comunque di un ambito interconnesso alla partecipazione a tal punto da essere diventata quest’ultima parte integrante di alcuni quadri giuridici di diversi paesi (Carpentier 2011, p.29). Al riguardo ne è un esempio il caso della partecipazione pubblica nell’ambito delle iniziative urbanistiche in Francia; Nello specifico Querrien, citato dallo stesso Carpentier, ripercorrendo la storia della partecipazione pubblica e l’urbanizzazione in Francia fa riferimento ad alcune iniziative come l’Urban Solidarity e Renewal Act del 2000 che prevede per ogni lavoro in un dato quartiere l’approvazione dei propri abitanti, senza considerare che nel 2002 la partecipazione è stata resa obbligatoria per i progetti di rigenerazione urbana in tutta la Francia. In Gran Bretagna l’assetto territoriale è uno dei pochi settori in cui le decisioni politiche e pratiche che influenzano la qualità della vita delle persone sono state a lungo tempo oggetto di coinvolgimento del pubblico in forme diverse, facendo in modo che la legge del 1968 “Town and Country Planning” introducesse la partecipazione nei processi di pianificazione. Si tratta di forme di pianificazione che si sono generate odiernamente e sono

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sicuramente differenti da quelle pionieristiche su scala territoriale attuate da Geddes e Howard i quali avevano un’idea di città giardino che, come descritto da Hall creavano nuove forme di insediamento senza interferenze o domande, in una visione del progettista come sovrano onnisciente (Ivi, p.30). Questo genere di pianificazione ha subito diverse osservazioni in quanto non vi è stata possibilità di garantire controllo e certezza, generando invece eccesso di semplificazione della realtà sociale, difficoltà a trattare con sistemi politici decentrati e conciliare le tensioni presenti fra le diverse posizioni. Gli elementi caratterizzanti questo genere di pianificazione sembrerebbero essere ancora presenti determinando così un ritardo dell’integrazione dei processi partecipativi nelle pratiche pianificatorie.

Il 1960 ha rappresentato un momento evolutivo per la pianificazione che inizia ad orientarsi verso un modello sinottico che evidenzia la necessità di delineare obiettivi, traguardi, valutazione dei mezzi, analizzare l’ambiente e prendere in considerazione diverse opzioni politiche. Carpetier nella sua analisi, evidenzia come gli sviluppi più importanti della partecipazione nel contesto della pianificazione hanno riguardato principalmente due punti: prima di tutto l’istituzionalizzazione di un ruolo limitato per un commento pubblico nelle pratiche della pianificazione; in secondo luogo l’inclusione di attori che generalmente erano esclusi da dal formale policy making, incrementando il numero dei partecipanti all’arena al fine di prendere decisioni nell’ambito della pianificazione. Questo modello ha comportato secondo Hall la scomparsa della figura del progettista, scienziato, planner. Come rimarcato da Carpenter, anche in questo modello sinottico la partecipazione è rimasta piuttosto limitata in quanto la volontà politica era ancora piuttosto omogenea e il ruolo giocato dal pubblico consisteva nel fornire dei commenti sugli obiettivi di pianificazione, senza venire a concretizzarsi quanto professato invece da Davidoff il quale ha rimarcato la necessità di una democrazia urbana efficace, dove i cittadini possano essere in grado di svolgere un ruolo attivo nel processo di decisione della politica pubblica (Ivi, p.31).

Con la riforma del Titolo V della Costituzione l’indipendenza disciplinare della pianificazione viene a mancare, introducendo il concetto più ampio di governo

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del territorio come materia di competenza concorrente. Questa materia viene definita dalla principale sentenza n.196 del 2004 del condono edilizio, ben più ampia dell’edilizia e urbanistica, perché si riferisce a tutto ciò che concerne l’uso del territorio e localizzazione di impianti e attività ossia l’insieme delle norme che permettono di identificare e regolare gli interessi per gli usi ammissibili del suolo. In tal maniera, il governo del territorio mostra di essere vicino anche a delle altre materie per definire e garantire la tutela dell’ambiente (Conti 2007).

Da un punto di vista giuridico, il governo del territorio si configura come una serie di comandi predisposti in maniera graduale, rappresentando una sintesi dei vari strumenti normativi emanati dalle diverse amministrazioni, come Enti locali, i Comuni, le Province e Regioni, configurandosi come una pluralità di poteri pubblici aventi contenuto normativo. Dal punto di vista sostanziale tale disciplina può ritenersi un’attività di governo perché rappresenta un modo di essere di un collettività nel proprio spazio tramite una serie di comandi legislativi che lasciano del campo libero alle opzioni al pianificatore, divenendo così un’attività non tanto dissonante da quella del governo locale (Ivi, p.5). Va osservato che l’oggetto di tutela da parte dell’autorità pubblica è il territorio, con tutte le sue dinamiche di carattere gestionale, di conservazione, sviluppo, che lo rendono denso di significati, e che dunque può essere osservato da differenti punti di vista, dall’urbanista al giurista (Ivi, p. 6).

Il concetto governo del territorio si veste di una funzione che va oltre la separazione tra le materie; difatti oltre all’urbanistica e alla pianificazione del paesaggio vi sono dunque altre materie, come il paesaggio, la difesa del suolo, lo sviluppo locale, la mobilità, le infrastrutture, la protezione degli ecosistemi, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Scopo del governo del territorio, che si configura come un metodo o insieme di strumenti, è quello di garantire una certa coerenza alle trasformazioni del territorio sia nello spazio che nel tempo, ma non solo; un ulteriore compito aggiuntivo è soddisfare i bisogni dei propri utenti, favorendo o potenziando uno sviluppo economico, integrando diverse soluzioni a diversi ambiti e livelli, spaziali ma anche economici e sociali.

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Il governo del territorio attua un ragionamento che spesso si basa sulla disposizione qualitativa delle cose in maniera ordinata e armoniosa, ponendo attenzione non solo sui limiti e i vincoli, creando dei modelli che possano garantire spazio dove i vari aspetti quantitativi hanno creato congestione, ma anche tempo, dinamica importante che consente di creare un valore aggiunto. La natura del governo del territorio trova le proprie origini sia nella progettazione fisica della città e del territorio, sia nella prescrizione dei comportamenti individuali in relazione all’interesse collettivo. A tal fine le amministrazioni utilizzano principalmente strumenti di tipo urbanistico come piani, programmi o progetti. Tuttavia, vengono adottate anche linee di intervento come le politiche territoriali realizzate dalle amministrazioni locali, regionali e dello Stato per conseguire i propri obiettivi prefissati. Rispetto al ruolo che ha assunto in principio il piano in quanto progetto nell’ambito dell’urbanistica, oggigiorno questa posizione viene a mancare perché la realtà urbana è notevolmente cambiata, e le trasformazioni in atto di carattere economico, sociale, ambientale, demografico, non possono più essere gestite con gli strumenti che da sempre hanno caratterizzato l’urbanistica. Riuso di aree e di complessi edilizi per nuove funzioni, realizzazione di nuove centralità, ri- progettazione degli spazi per l’uso pubblico, sono tutte componenti della nuova azione urbanistica che tende dunque non più ad ampliare la città, ma a trasformarla, con modalità che richiedono capacità di analisi, programmazione e gestione degli interventi, avviando delle forme di governo del territorio rientranti nell’ambito della governance, così da esercitare una certa influenza sui processi sociali, economici, ambientali e controllandone le trasformazioni del territorio (Francini, Viapiana 2009, p.18).

In linea con le evoluzioni in tutte le scienze dei beni culturali che hanno permesso una maggior apertura all’interdisciplinarietà, il paesaggio assume non più un ruolo meramente oggettivo sottoposto a valutazione estetica, bensì il paesaggio deve essere ritenuto come “sistema complesso di relazioni e di processi costruttivi e distruttivi” assumendo quindi secondo una visione olistica un ruolo principale in tutte le politiche di tutela favorendo la confluenza interdisciplinare nelle diverse pratiche

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così da favorire il dialogo, confronti e interazioni fra i diversi saperi tecnico - scientifici e umanistici.

In tale maniera sarà possibile attribuire un valore aggiunto ai vari contributi superando la logica dell’autoreferenzialità del sapere specialistico che pare essere secondo Giuliano Volpe incapace di “comprendere i fenomeni complessi” ma anche di garantire una forma di tutela basata su una progettualità e confronto con la società contemporanea, privilegiando invece una forma di tutela limitata ai soli – ma necessari – vincoli (Carletti 2014, p.109).

Secondo Magnier, sulla base delle novità e dei nuovi approcci del paesaggio nel governo del territorio, la sociologia potrebbe offrire un contributo piuttosto originale anche rispetto ad altre sue applicazioni nelle politiche pubbliche. Nello specifico il compito principale del sociologo nell’ambito della progettazione paesaggistica fa riferimento alla definizione di un “quadro propedeutico delle rappresentazioni esperienziali ed esperite del paesaggio, una descrizione del” terzo spazio”, un bilancio “interpretativo” dei confini paesaggistici”. Ritenendo il paesaggio un’area tematica (Magnier 2013, p.47), secondo Magnier il contributo sociologico è indispensabile al fine di comprendere quale sia il “bisogno”, cioè quello che gli urbanisti definiscono valutazione soggettiva della qualità, e che si basa essenzialmente sulla popolazione.

Un approccio multidisciplinare secondo Donato e Badia è indispensabile per affrontare le peculiarità del tema che, se trattato in un’ottica monodisciplinare, garantirebbe esiti non fecondi. Secondo i due economisti al fine di garantire tutela e valorizzazione dei siti culturali e del paesaggio è necessario il contributo di più discipline integrate fra loro così da stimolarsi vicendevolmente garantendo contributi