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Il caso Hirsi Jamaa e a c Italia: un'ipotesi di violazione del divieto di espulsioni collettive nelle intercettazioni in alto mare

Nel documento Le fonti e la prassi in materia di asilo (pagine 188-194)

CAPITOLO III: LA PRASSI APPLICATIVA

1. Le sentenze della Corte Europea dei Diritti Uman

1.2 Il caso Hirsi Jamaa e a c Italia: un'ipotesi di violazione del divieto di espulsioni collettive nelle intercettazioni in alto mare

Il 23 febbraio 2012 è stata emanata la sentenza Hirsi Jamaa e altri c.

Italia12 concernente l'operazione di intercettazione in alto mare da parte

11 Tratto da http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/26-/-/596- immigrazione_e_diritto_di_asilo__un___importante_pronuncia_della_corte_di_stras burgo_mette_in_discussione_le_politiche_dell___unione_europea/

12 Testo integrale della sentenza reperibile su http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001- 109231#{"itemid":["001-109231"]}

di unità militari italiane di un gruppo di circa duecento profughi somali e eritrei provenienti dalla Libia e là ricondotti. La pronuncia si è avuta a seguito di un ricorso presentato da alcuni cittadini somali ed eritrei i quali, nel maggio 2009, avevano tentato di raggiungere le coste italiane13; le loro imbarcazioni erano state intercettate dalla Guardia

costiera italiana e i migranti, a trentacinque miglia marine da Lampedusa, a bordo di navi militari italiane14. Essi furono fatti salire a

bordo e ricondotti verso il paese dal quale erano partiti, cioè la Libia, ma senza essere identificati.

Nel caso di specie la Grande Camera ha ritenuto all'unanimità che il respingimento in questione violasse: a) l'art. 3 CEDU, che riconosce il diritto a non essere sottoposto a tortura, a pene o trattamenti inumani o degradanti; b) l'art. 4 del Protocollo n° 4 alla CEDU, che sancisce il divieto di espulsioni collettive; c) l'art. 13 CEDU, data l'assenza di mezzi effettivi di ricorso con cui far valere la violazione di quelle disposizioni. Dopo aver riaffermato il principio generale secondo cui gli Stati hanno il diritto sovrano di controllare l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione degli stranieri, la Corte ha provveduto, in primo luogo, a ribadire la propria consolidata giurisprudenza sul principio di non

refoulement in connessione con l'art. 3 CEDU, applicandolo ad una

situazione extraterritoriale quale l'alto mare. La Corte ha poi precisato che l'articolo in questione ha carattere assoluto ed ha concluso per la violazione dell'art. 3 da parte dell'Italia: in primis, perché ha accertato che, una volta respinti verso la Libia i ricorrenti sarebbero stati esposti 13 I ricorrenti facevano parte di un gruppo più numeroso di circa duecento persone tra le quali donne e bambini.

14 Nel caso Hirsi la giurisdizione italiana sussisteva in quanto le persone erano state issate a bordo delle navi italiane. Come ricorda la Corte, in base al diritto internazionale del mare, una nave in acque internazionali è sottoposta alla giurisdizione esclusiva dello Stato della bandiera (questa norma è anche contenuta nell'art. 4 del codice di navigazione italiano). Né, aggiunge la Corte, l'Italia può eludere gli obblighi derivanti dalla Convenzione qualificando gli interventi oggetto del ricorso come operazioni di salvataggio in alto mare, in ragione del livello presumibilmente ridotto del controllo esercitato, al momento dei fatti, dalle autorità sugli interessati.

al rischio reale di trattamenti inumani e degradanti o a tortura, non essendo la Libia un Paese sicuro; in secondo luogo perché le autorità italiane erano al corrente dell'esistenza di tale pericolo.

Un punto importante evidenziato dalla Corte riguarda un corollario fondamentale del divieto di refoulement, ovvero la circostanza in base alla quale, in caso di intercettazioni in mare di migranti, gli Stati sono tenuti sempre ad accertare se tra essi vi siano persone che necessitino di protezione internazionale, a prescindere dal fatto che esse abbiano o meno presentato una domanda d'asilo. Sempre in relazione all'art. 3, la Corte ha individuato un terzo profilo di illiceità nella condotta dell'Italia, in quanto essa, respingendo i ricorrenti verso la Libia, li ha esposti al pericolo di refoulement indiretto verso i rispettivi Paesi di origine dei ricorrenti: Eritrea e Somalia. In particolare la Corte ha affermato che lo Stato che procede al respingimento verso il Paese di origine, deve offrire le opportune garanzie affinché il soggetto non corra dei rischi: tale obbligo è più stringente qualora il Paese di transito sia uno Stato terzo15. Il Governo italiano ha controbattuto adducendo

che: da un lato, i respingimenti erano stati disposti in ottemperanza di accordi bilaterali con la Libia concernenti la lotta all'immigrazione clandestina: le c.d. “push-back operations”; in merito la Corte EDU stabilì che l'Italia non potesse rifarsi a tali accordi sulla base di una presunzione assoluta che la Libia fosse Paese sicuro, per il solo fatto di essere aderente ai principi internazionali, tra cui il principio di non refoulement, e che l'Italia non aveva verificato che la Libia adottasse le adeguate garanzie per la tutela dei richiedenti asilo16. Dall'altro lato, il

Governo italiano riteneva vaghe e insufficienti le prove fornite dai

15 Cfr. A. Liguori, La Corte europea dei diritti dell'uomo condanna l'Italia per i

respingimenti verso la Libia del 2009: il caso Hirsi, Riv. dir. internaz., fasc. 2, 2012,

p. 415.

16 Cfr. S. LIEVEN, Case Report on C-411/10, N.S. and C-493/10, M.E. and Others,

21 December 2011, in European Journal of Migration and Law, Volume 14, 2012, pp.

ricorrenti circa l'esistenza di un rischio reale di essere esposti a trattamenti contrari all'art. 3 in Libia; tuttavia nell'ipotesi in cui il ricorrente alleghi di far parte di un gruppo sistematicamente esposto a tali trattamenti, sia sufficiente dimostrare l'appartenenza al gruppo in questione. Nel caso di specie pertanto la Corte, preso atto dell'esistenza di molteplici rapporti di organismi internazionali, governativi e non, che attestavano il rischio di trattamenti inumani e degradanti nei centri di detenzione libici, e dell'impossibilità di accedere a forme di protezione internazionale in questo paese, conclude per la violazione dell'art. 3.

Oltre all'art. 3, la Corte ha anche individuato una violazione dell'art. 4 del Protocollo n° 4. Infatti, l'Italia non ha provveduto alla procedura di identificazione e di esame – necessaria prima di qualsiasi trasferimento – della posizione individuale delle persone forzosamente consegnate alle autorità libiche, impedendo loro di presentare un'eventuale domanda di asilo, e facendo sorgere in capo ad essi alcuni rischi per la loro vita. A livello generale, la disposizione in esame è stata considerata applicabile, per la prima volta, non solo alle espulsioni collettive dal territorio nazionale, ma anche a quelle derivanti dall'esercizio in alto mare dell'autorità giurisdizionale dello Stato costiero – ossia ad un caso di allontanamento di stranieri effettuato in acque internazionali. A riguardo, mentre il Governo affermava che tale articolo dovesse applicarsi solo ad espulsioni dal territorio, i ricorrenti, invitavano la Corte ad un'interpretazione teleologica e funzionale del termine “espulsione”, affinché la disposizione venisse attuata effettivamente. La Corte, ricordando che l'interpretazione delle norme convenzionali deve avvenire alla luce del principio della buona fede e dell'oggetto e dello scopo del trattato, e in conformità del principio dell'effettività e richiamando esplicitamente le norme della Convenzione di Vienna in tema di interpretazione dei trattati – artt. 31-

33 – concluderà per l'applicabilità del divieto di espulsioni collettive anche in caso di respingimenti posti in essere in acque internazionali. Pertanto, ammessa nel caso di specie l'esistenza della giurisdizione al di fuori del territorio nazionale, la Corte dichiara di non scorgere impedimenti ad ammettere che l'esercizio della giurisdizione extraterritoriale abbia preso la forma di un'espulsione collettiva.

Per quanto riguarda l'esame del merito, poi, la Corte ricorda la giurisprudenza in materia di art. 4 del Protocollo n° 4, in base alla quale tale norma risulterà disattesa ogni qualvolta vengano adottate misure nei confronti di stranieri in quanto gruppo, senza un esame attento ed obiettivo della specifica situazione di ciascuno straniero parte del gruppo. Di conseguenza, riscontra facilmente l'esistenza di una violazione di tale disposizione nel caso di specie, in quanto il trasferimento dei ricorrenti in Libia era stato eseguito in assenza di identificazione e di esame della situazione individuale di ciascun ricorrente17.

Infine il refoulement in alto mare dei ricorrenti verso la Libia ha integrato, secondo la Corte, una violazione del diritto ad un rimedio effettivo sancito dall'art. 13 della Convenzione europea. Ciò in quanto la deportazione collettiva in Libia dei ricorrenti ha impedito loro l'accesso alla procedura di identificazione e l'esternazione delle loro ragioni. Tale circostanza è rilevante nel contesto del diritto d'asilo, in quanto è fondamentale garantire ad ogni soggetto la possibilità di eliminare le conseguenze potenzialmente irreversibili di un provvedimento di espulsione. Il Governo, in merito, aveva sollevato un'eccezione preliminare per non esaurimento delle vie di ricorso interne, affermando che esisteva un mezzo di ricorso effettivo e che questo consisteva nell'adire le giurisdizioni interne per far valere le

17 Cfr. A. Liguori, La Corte europea dei diritti dell'uomo condanna l'Italia per i

respingimenti verso la libia del 2009: il caso Hirsi, Riv. dir. internaz., fasc. 2, 2012,

eventuali responsabilità penali degli ufficiali coinvolti. Ammetteva invece che sulla nave non sarebbe stato possibile adire le autorità nazionali. A tal proposito in realtà occorre sottolineare che, se anche ciò fosse stato possibile, la nave non viene ritenuta dall'UNHCR in via generale un luogo idoneo allo svolgimento delle procedure di identificazione.

Un ultimo punto che resta brevemente da analizzare riguarda le possibili alternative a disposizione di uno Stato in caso di intercettazioni in alto mare di migranti bisognosi di protezione internazionale, diverse da quella di consentire ai migranti stessi l'ingresso nel proprio territorio. Di fatto, tale ingresso può essere legittimamente rifiutato qualora le persone interessate possano usufruire in modo effettivo e concreto di alternative che consentano loro di ottenere comunque protezione, ad esempio presso un altro Paese sicuro verso il quale la nave sia in grado di dirigersi autonomamente. Un'altra valida alternativa è quella consistente nel soccorrere i richiedenti asilo in mare e condurli verso un Paese sicuro diverso da quello di bandiera della nave che esegue il soccorso. Diversamente, tutte le volte in cui l'azione dello Stato di bandiera si risolve nel respingimento dei richiedenti asilo verso spazi dove la loro vita o libertà siano in pericolo, si produce una violazione dell'obbligo di non refoulement. Ciò include anche l'ipotesi in cui un'imbarcazione di richiedenti asilo sia costretta, a seguito del diniego di protezione da parte dello Stato a cui essa era stata richiesta, a vagare in alto mare, senza che vi sia la certezza che possa ottenere protezione presso un luogo sicuro. Anche se in questo caso non è attuato in modo diretto alcun respingimento verso un Paese a rischio, non può ovviamente sostenersi che l'alto mare sia un luogo sicuro dove le persone interessate possano usufruire di protezione adeguata; appare infatti evidente come vagare in alto mare non risponda a standards di vita in

linea con i diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti18.

Nel documento Le fonti e la prassi in materia di asilo (pagine 188-194)