CAPITOLO 3. Disabilità comunicative e strategie di comunicazione alternative
3.2 Modalità alternative alla lingua vocale
3.2.3 Homesigns
In questa sezione si parlerà del sistema di comunicazione definito homesign (segnato “casalingo”), verrà data una definizione di questo termine e verranno presentati alcuni studi su questo argomento, tutti temi che torneranno utili per lo studio di caso che verrà presentato nel prossimo capitolo.
Come già accennato nel primo capitolo di questo elaborato, in molti casi in cui i bambini non possono acquisire una lingua convenzionale parlata o segnata, essi attivano spontaneamente una forma gestuale, seppur non codificata, che li guida nello sviluppo di una forma di comunicazione, a supporto delle evidenze che dimostrano quanto il movimento delle mani sia istintivo per l’essere umano (cfr. 1.1.2). Questa forma di comunicazione non codificata prende il nome di homesign, ovvero un metodo di comunicazione gestuale sviluppato da bambini a cui manca l’input per un modello di lingua in famiglia e a cui ci si riferisce con il termine “lingue isolate”, ovvero lingue che non hanno alcun legame di parentela dimostrabile con le altre lingue del mondo.
Anche se non sono lingue vere e proprie, questi sistemi di comunicazione, in particolare quelli creati da bambini sordi senza alcun deficit cognitivo, mostrano molte delle proprietà delle lingue naturali, tra cui alcune delle caratteristiche delle lingue dei segni e delle lingue vocali. Ciò fa sì che questi segni siano facilmente distinguibili dai gesti che accompagnano normalmente il parlato. Questi codici comunicativi vengono spesso comparati ai pidgin25 e formano parole e frasi semplici che spesso seguono uno schema simile, nonostante i diversi sistemi di homesign si sviluppino in isolamento l’uno dall’altro. É interessante notare che le proprietà che sono state ritrovate in diversi sistemi di
homesign non devono per forza essere tramandate di generazione in generazione, ma possono essere
reinventate de novo dal bambino. Per questo i linguisti sono molto interessati ai sistemi di homesign, perché essi presentano un’opportunità unica per osservare e analizzare il processo di creazione linguistica, per guardare all’interno dell’abilità dell’essere umano di generare, acquisire e processare il linguaggio. Inoltre è molto probabile che la maggior parte, se non tutte, le lingue dei segni esistenti affondino le loro radici in un sistema di homesign (Franklin, Giannakidou, Goldin-Meadow, 2011). Un esempio è l’attuale sistema di segni nicaraguense (Idioma de Señas de Nicaragua, ISN), le origini del quale risalgono alla fine degli anni ‘70, a seguito della fondazione della prima scuola per sordi, dove i bambini, che prima vivevano isolati, si erano trovati a convivere in grandi istituti (Cadorna,
25 Le lingue pidgin sono lingue che si sviluppano in situazioni di contatto con altre lingue e culture diverse in cui esiste
una lingua dominante. Esse si formano a seguito di processi deficitari di acquisizione di lingue seconde, a causa dell’assenza o della drastica riduzione dell’input fornito dai parlanti nativi. Tuttavia, la lingua di cui è impedita o pregiudicata l’acquisizione continua lo stesso a trasparire negli elementi lessicali coinvolti nel processo di pidginizzazione.
Volterra, 2007). Con il tempo, i sistemi di homesign che si erano venuti a creare si sono unificati e standardizzati fino a diventare la lingua convenzionale nazionale, l’ISN (Kegl, Senghas, & Coppola, 1999).
Anche nel caso delle Linguas de Sinais Primàrias brasiliane ci troviamo di fronte a individui sordi isolati da altre persone sorde, ma che, a contatto con gli udenti, hanno sviluppato forme complesse di comunicazione, aventi strutture grammaticali autonome, create dal riadattamento dei materiali gestuali che condividono con gli udenti (Fusellier-Souza, 2004).
Un altro caso interessante si ritrova nell’Al-Sayyid Bedouin Sign Language (Sandler, Meir, Padden, & Aronoff, 2005), una lingua nata in una comunità di persone stanziatasi nella regione del Negev a Israele, in cui la sordità è molto diffusa (4, 28%) a causa di una predisposizione genetica e di frequenti matrimoni tra consanguinei (Cadorna, Volterra, 2007:37). In questa realtà sia udenti che sordi comunicano attraverso la lingua dei segni che si è evoluta da un sistema più semplice di homesign. Una situazione analoga era stata documentata nell’Ottocento nell’isola di Martha’s Vineyard (Groce, Ellen, 1985), negli Stati Uniti, dove l’alto numero di persone sorde aveva creato le condizioni per una loro maggiore integrazione nella società e per la diffusione della lingua dei segni tra gli udenti. Questo sistema di homesign ha avuto poi un ruolo fondamentale nella formazione dell’ASL. In situazioni come queste quindi le barriere tra sordi e udenti sembrano cadere e questo comporta una maggiore standardizzazione e un rapido consolidamento della lingua dei segni locale.
Come abbiamo visto, i sordi sembrano avere le capacità di sviluppare dapprima il lessico e successivamente la sintassi passando da una forma più rudimentale fino a creare un sistema di segni complesso attraverso un processo di convenzionalizzazione e adattamento che parte dai materiali comunicativi a loro disposizione. Questa strategia nasce dai bisogni comunicativi e avviene quando i sordi sono in contatto tra loro oppure con persone udenti. Per questo motivo “l’intreccio tra predisposizioni biologiche alla comunicazione e dimensione sociale si rivela […] fondamentale e, soprattutto, dinamico, ovvero mutevole a seconda del tipo di interazioni e in relazione a ciò che si comunica” (Cadorna, Volterra, 2007: 38).
Fra tutti gli studi esistenti su questo argomento ci focalizzeremo su due in particolare: quello di Morford e Goldin-Meadow (1997) sullo sviluppo del displaced reference (riferimento dislocato) negli homesigners e quello di Franklin, Giannakidou e Goldin-Meadow (2011) sulla presenza di strutture sintattiche negative e interrogative nei bambini che sviluppano un sistema di homesign. Nello studio di Morford e Goldin- Meadow (1997) viene analizzato lo sviluppo di una delle funzioni essenziali dell’essere umano: l’abilità di riferirsi a oggetti o persone dislocati temporalmente e spazialmente dal luogo della conversazione, quindi non presenti nell’hic et nunc. Il riferimento
dislocato26 viene definito come qualsiasi enunciato che indirizzi l’attenzione dell’interlocutore verso informazioni che non sono percepibili nell’ambiente in cui avviene la comunicazione (Morford, Goldin- Meadow, 1997: 420). La domanda di ricerca di questo articolo è verificare se sia necessario per i bambini avere un modello da seguire per essere in grado di parlare del “non presente”27. I soggetti presi in analisi sono 4 bambini sordi, i quali non sono stati esposti ad alcuna lingua convenzionale e che comunicano grazie a un sistema idiosincratico di gesti, un tipo di homesign, e 18 bambini udenti del gruppo di controllo durante la loro acquisizione dell’inglese come lingua madre. Questo studio longitudinale ha monitorato il loro sviluppo per due anni, ma sono stati presi in considerazione solo sei momenti durante questo periodo: 1;4, 1;9, 2;2, 2;7, 3;0 e 3;5 (anni; mesi). I risultati mostrano che nonostante i bambini sordi si riferiscano al “non presente” meno frequentemente e più tardi in termini di età rispetto ai bambini udenti, entrambi i gruppi hanno seguito uno sviluppo simile, aggiungendo categorie astratte di riferimenti dislocati nello stesso ordine. Questi risultati mostrano che i bambini sono in grado di riferirsi al “non presente” nonostante l’input linguistico ridotto, quindi l’ipotesi degli autori è che i tipi di riferimenti dislocati e l’ordine in cui si sviluppano non siano guidati strettamente dall’input linguistico, ma piuttosto dallo sviluppo cognitivo. Tuttavia la minore frequenza e il ritardo nella produzione di questi riferimenti ha portato a pensare che l’accesso ad un modello di lingua convenzionale e condivisa faccia in modo che questo tipo di espressioni venga prodotto più precocemente e più frequentemente. Inoltre, alcuni domini dei riferimenti dislocati risultano più complessi da comunicare rispetto ad altri e sembrano essere alquanto fragili negli homesigners. Il dominio usato da tutti e quattro i soggetti dello studio è quello del passato, due dei bambini si riferiscono anche a eventi fantastici e solamente un soggetto parla anche di eventi ipotetici e futuri. Da questi dati si può inferire che la mancanza di una lingua modello ha una forte influenza sul riferimento a eventi distali e blocca maggiormente gli eventi futuri e ipotetici piuttosto che gli eventi fantastici e passati. Ci possono essere varie spiegazioni di questo fenomeno, ma il motivo principale è che questi domini si riferiscono a eventi che non sono ancora accaduti e che potrebbero non avvenire mai. Parlare di questi eventi richiede di fornire informazioni più esplicite per evocare l’evento in questione nella mente dell’interlocutore, quindi è possibile che i bambini privati dell’input linguistico riescano a produrre enunciati riguardanti eventi “non presenti”, ma abbiano più difficoltà a riferirsi a eventi “non reali”28, perché non possono fare affidamento alle loro esperienze.
I risultati di questo studio hanno dimostrato quindi che i bambini sono in grado di comunicare una vasta gamma di argomenti riguardo al “non presente”, indipendentemente dal fatto di avere o no una
26 Displaced reference (Morford e Goldin-Meadow, 1997: 423). 27 Nonpresent (Morford e Goldin-Meadow, 1997: 420).
lingua modello a cui appoggiarsi. Nel caso degli homesigners, essi sviluppano l’abilità di esprimere qualcosa che conoscono, ma che non possono percepire intorno a loro esattamente nello stesso modo in cui i bambini acquisiscono una lingua convenzionale, introducendo discorsi che presentano riferimenti dislocati più spesso rispetto ai loro educatori. Nonostante l’assenza di un codice linguistico comune, è stato osservato che i bambini sordi hanno adottato varie strategie per riferirsi al “non presente”, tra cui inventare nuovi gesti, modificare il contesto dei gesti convenzionali e creare significati pragmatici. Tuttavia, una lingua convenzionale gioca un ruolo molto importante nello sviluppo delle funzioni linguistiche, in particolare nella comunicazione riguardante gli eventi distali o “non reali”. Infatti, poter utilizzare simboli già preesistenti, invece di doverne creare di nuovi, sembra accelerare lo sviluppo e aumentare la frequenza dei riferimenti dislocati. Ciononostante questi risultati rendono evidente che simboli convenzionali di questo tipo non sono necessari affinché i bambini possano estendere la loro comunicazione oltre all’ hic et nunc.
Nello studio di Franklin et.al. (2011) vengono analizzati alcuni discorsi spontanei prodotti da David, un bambino sordo profondo (>90 dB sordità bilaterale), che è stato educato dai genitori con il metodo oralista. L’osservazione è durata diversi anni, ma lo studio si concentra su un determinato periodo: dall’età di 2;10 all’età di 3;11. Prima dell’inizio dell’osservazione, David non aveva fatto alcun progresso nella lingua orale e non era mai stato esposto a una lingua dei segni convenzionale. Nonostante ciò, David era riuscito a creare un suo sistema di comunicazione formato da segni “casalinghi”. Questo sistema di comunicazione includeva una struttura morfologica, ricorsività frasale e categorie grammaticali. L’articolo si focalizza sulla presenza di enunciati “non veritieri”29, ovvero su enunciati che veicolano un significato di negazione o di domanda. Infatti, la negazione è una delle strategie più basilari per costruire una frase complessa partendo da una frase semplice e rovesciando il significato dell’originale. Questa proprietà viene denominata “antiveridicità”30. Una domanda è invece una richiesta di informazioni e avviene quando il parlante si trova in uno stato di incertezza e non conosce la risposta alla domanda che sta porgendo. Questa proprietà, al contrario, viene definita “non veridicità”31. Gli autori di questo studio hanno identificato due marche gestuali nel segnato del bambino che mostrano una ricorrenza sistematica e un significato in linea con le marche frasali tipiche della negazione e delle interrogative wh- (which, who, what, when, where, etc.). La negazione è stata identificata con il gesto dello scuotimento laterale del capo (side-to-side
headshake), mentre le domande vengono realizzate attraverso il capovolgimento della mano, o meglio
un cambio di orientamento (hand-flip). Quest’ultima marca sintattica viene utilizzata dal bambino sia come domanda che come esclamazione o come espressioni locative, dipendendo dalla sua posizione 29 Nonveridical utterances (Franklin et.al., 2011: 4)
30 Antiveridicality (Giannakidou (1998). 31 Nonveridicity Giannakidou (1998).
nella frase. Infatti, la negazione tende ad essere prodotta all’inizio della frase, mentre la marca interrogativa viene prodotta più frequentemente alla fine. In questo modo viene creata una differenza sintattica tra la negazione, posta a sinistra, cioè le operazioni frasali che cambiano il significato della frase, e le domande wh- a destra, ovvero quelle che influenzano il suo potere illocutorio della frase e modificano quindi l’intenzione del parlante che produce l’enunciato (Searle, 1969). I risultati di questo studio evidenziano come i bambini riescano a sviluppare marche frasali negative e interrogative senza avere come guida un modello di lingua convenzionale. Perciò i dati di Franklin et
al. (2011) supportano ulteriormente la teoria che i sistemi di homesign abbiano almeno questa
struttura sintattica minima e che siano quindi un processo linguistico creativo.
3.3 Conclusioni
Fino ad ora ci siamo focalizzati sui sistemi di homesign creati da bambini sordi. Tuttavia, questo sistema di comunicazione non si viene a creare solo in caso di sordità ma anche in molti casi in cui bambini e genitori non riescono a comunicare attraverso una lingua convenzionale, a causa di malattie genetiche o disprassie verbali che ostacolano o impediscono la comunicazione, come nel caso di F. (cfr. 3.2.2). Questa situazione si ritrova anche nel nostro caso di studio, in cui la ragazza ha sviluppato un sistema di homesign che utilizza insieme alle tabelle comunicative dei PCS (cfr. cap. 4).