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2.3 Produzione e coniazione

2.3.1 I denarii serrat

Discussioni ancora aperte tra gli studiosi riguardano l’introduzione, l’utilizzo e il significato dei denari dentellati o serrati48. La produzione di questi denarii si intensifica attorno alla fine del secondo secolo a.C., e prosegue per tutto il primo secolo a.C.. Questa particolare tipologia di monete romano-repubblicane è caratterizzata da circa venti o trenta tagli triangolari lungo tutto il margine delle monete e spesso venivano emesse dagli stessi magistrati monetali che emettevano i denarii “ordinari”. Il procedimento per ottenerli, probabilmente era quello di praticare tagli radiali verticali con uno strumento affilato, spesso un cuneo-lama sul tondello, prima della coniazione, mentre era poi l’azione meccanica della battitura, con conseguente dilatazione del tondello, a determinare l’allargamento dei tagli in forma triangolare49. La ragione che portò a questa particolare tecnica di lavorazione è tuttora sconosciuta. Nell’opera etnografica De origine et situ germanorum, all’incirca del 98 d.C., Gaio Cornelio Tacito racconta usi e costumi delle tribù germaniche che vivevano fuori dai confini romani e in particolare della preferenza di questi popoli per i serratos bigatosque, “serrati e bigati”50, ovviamente la singola notizia riguardo ai gusti dei popoli barbari non è sufficiente ai fini di una ricostruzione convincente. Alcuni studiosi hanno invece ipotizzato la volontà da parte di chi emetteva moneta, di garantire visivamente la qualità del metallo utilizzato, di eliminare eccedenze di metallo rispetto al peso teorico ufficiale, oppure un intento meramente estetico (Bahrfeldt e Crawford)51. Queste ipotesi sono state completamente

48

Dal latino serra (sega).

49

F. Barello, cit., p.79.

50 Denarii con il tipo della biga 51

M. Bahrfeldt, Le deniers de la république romaine à bord dentelés dits: nummi serrate, Bullettin mensuel de numismatique et d’archéologie, 3, 1883-1884, pp. 130-133.

smentite dal fatto che sono stati ritrovati denarii dentellati e contemporaneamente suberati, quindi falsificati. Per quanto riguarda l’ipotesi “estetica”, Bahrfeldt e Crawford52 partivano dalla considerazione che nel sistema monetario greco vi erano alcune monete di bronzo dentellate, ma la differenza sostanziale tra le monete dentellate greche e quelle romane sta nel fatto che mentre le prime erano ottenute per fusione entro stampi, i dentelli delle monete romane erano fatti a mano uno a uno. Questo è il motivo per il quale il fattore estetico diventa alquanto discutibile. Un’ipotesi fondata sugli aspetti metallurgici di lavorazione è quella di Ingo e De Caro: l’idea dei due studiosi è che la seghettatura del tondello fu introdotta per migliorarne la resistenza meccanica quando veniva usata un lega d’argento quasi pura e quindi intrinsecamente fragile. I risultati di una recente ricerca condotta su dodici denarii serrati dall’Istituto di Chimica dei Composti Organometallici del CNR di Pisa, in collaborazione con altri Istituti di ricerca53, ha dimostrato la poca attendibilità della tesi di Ingo e De Caro54, a causa della scarsità di campioni (quattro denarii serrati) sui quali i due studiosi hanno effettuato le loro analisi, e a causa della mancata menzione all’interno delle loro pubblicazioni delle tipologie di denarii serrati presi in esame. Inoltre, le misurazioni sui 12 denarii serrati effettuati dal CNR di Pisa, hanno dimostrato che la concentrazione di rame nei serrati è molto simile a quella dei denarii coevi e in molti casi questa concentrazione non è trascurabile. Anche la concentrazione di piombo nei serrati, che oscilla tra lo 0,5% e l’1%, è molto simile ai denarii standard. Le analisi, quindi, effettuate attraverso le tecniche di fluorescenza raggi

52 M. Crawford, Coniage and Money Under the Roman Republic, Cambridge University, London 1985, pp.

100-130.

53

National Institute for Laser-Enanched Science (NILES), Cairo University (Giza, EGYPT), Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali, Area della ricerca del CNR di Montelibretti (Roma, ITALY), Università degli Studi di Torino (ITALY), Monetiere di Firenze, Museo Archeologico Nazionale (Firenze, ITALY).

54

G. M. Ingo, E. Angelini, T. De Caro, G. Bultrini, Combined use of surface and micro-analytical tecniques for

X (XRF) e di spettroscopia di plasmi indotti (LIBS), non sostengono la teoria di De Caro e Ingo. Possiamo concludere che la vera ragione dell’emissione dei denarii serrati è ancora sconosciuta55. Da non sottovalutare, comunque, è la coincidenza della diffusione del denario serrato alla fine del secondo secolo a.C. con l’emersione sulla scena sociale e politica di Roma degli interessi personali dei vari funzionari della Zecca, resa tangibile dall’iconografia numismatica del periodo. Fino ad allora le monete portavano effigi pressoché costanti, con cui non solo il Senato ma l’intera cittadinanza poteva identificarsi (ad esempio Dioniso, i Dioscuri, la dea Roma, Giove Vittorioso, bottini di guerra). Ora invece i giovani nobili sfruttavano il loro incarico annuale presso la Zecca (che rappresentava l’inizio della carriera politica) per celebrare le glorie di famiglia, o anche, più tardi, i propri (spesso insignificanti) meriti personali56. Così ad esempio, all’epoca della dittatura di Silla, un certo Gaio Manilio Limetano usa entrambe le facce di un denario serrato per vantare, secondo la moda del tempo, l’origine della sua famiglia niente meno che dal dio Ermes e dal suo presunto figlio Odisseo. In definitiva, i denarii serrati (fig. 1) potrebbero essere un ulteriore evidenza del cambiamento della mentalità del tempo, e della trasformazione delle immagini, espressi attraverso simboli, volti alla propaganda del potere personale, immediatamente percepibili. Una testa di un dritto all’interno di una cornice radiata non potrebbe esservi posta per sottolinearne la “regalità”, le “origini divine” e quindi il potere? D'altronde corone radiate svolgono questa funzione all’interno dell’iconografia numismatica. Nell’antichità altre monete dentellate furono emesse dal re Antioco III di Siria (227-187 a.C.), dai cartaginesi in alcune serie in oro e argento e da

55

V. Palleschi, A. El Hassan, M. Ferretti, S. Legnaioli, G. Lorenzetti, E. Nebbia, L. Pardini, F. Catalli and M.A. Harith, In situ XRF and LIBS analysis of roman silver denarii, Atomic Spectroscopy, Spectrochim. Acta, Part B. In stampa.

Filippo V di Macedonia, tutte emissioni collocabili alla fine del terzo secolo a.C. e all’inizio del secondo secolo a.C..

3. L’Archeometria

Nel 1958, ad Oxford fu fondata una rivista dal nome Archeometry57 che riconosceva, con questo neologismo, l’utilità dell’impiego della misurazione e delle tecniche di analisi e di calcolo proprie delle scienze sperimentali; discipline, queste ultime, che lavorano in modo quantitativo a sostegno e a complemento delle analisi storiche e stilistiche delle scienze umane. Sulla scia della rivista inglese, l’archeometria fonda i suoi principi su un approccio allo studio dei reperti dell’antichità di tipo interdisciplinare, alimentato dal continuo scambio tra ambiti diversi, come quello scientifico e quello umanistico, confrontandoli in un dialogo aperto e costante. Apporti dalla fisica, dalla chimica, dalla geologia e dalla statistica rafforzano e ossigenano il campo della ricerca archeologica e della storia dell’arte, e aprono nuovi sguardi su metodi di intervento, restauro e prevenzione per la salvaguardia del patrimonio archeologico. L’archeometra, oltre ad essere un esperto delle scienze dell’antichità, deve conoscere e riconoscere le tecnologie e i metodi di analisi in grado di rispondere ai quesiti che lo studio dei reperti archeologici pone di volta in volta, ai fini della ricostruzione storica. È, in altre parole, il “ponte” tra le scienze sperimentali e quelle umanistiche.

Oltre a fornire datazioni attraverso metodi radiometrici, che consentono di stabilire l’età “in anni” dei reperti archeologici, l’archeometria fornisce strumenti per la caratterizzazione dei reperti dando informazioni sulla loro composizione materica, sui metodi di lavorazione, di produzione, sulla loro origine e provenienza. Questo tipo di informazioni si ottiene attraverso strumenti e tecniche attinti dalla chimica e dalla fisica,

che possono avere carattere distruttivo o non distruttivo. Queste due diverse denominazioni vengono date ai metodi utilizzati per la diagnosi dei reperti in base al campionamento, che può essere effettuato o meno sugli oggetti in esame, oppure in base ai possibili effetti che questi metodi esercitano direttamente sul manufatto o sul campione. Le tecniche non distruttive non incidono sullo stato d’integrità del reperto, non necessitano del campionamento, (il prelievo di parti dell’oggetto anche se molto piccole) ed escludono qualsiasi tipo di trasformazione o deformazione della struttura della materia analizzata. Al contrario, i metodi distruttivi prevedono il prelievo di un campione, il trattamento chimico o termico di quest’ultimo, che ne causa trasformazioni e deformazioni, e, di solito, il conseguente rilevamento degli elementi presenti da parte di uno spettrometro di massa58. I metodi che generalmente non comportano nessuna conseguenza sullo stato d’integrità del reperto e nessun cambiamento della sua struttura intrinseca si basano sull’utilizzo di radiazioni elettromagnetiche e sulla loro interazione con la materia. Le radiazioni si comportano in modi differenti a seconda della lunghezza d’onda, si estendono dai raggi gamma alle radiofrequenze, passando per i raggi X, l’ultravioletto, il visibile, l’infrarosso e le microonde. A seconda della radiazione utilizzata e della sua energia, l’interazione può interessare il nucleo degli atomi (raggi gamma, raggi X), gli elettroni (UV, visibile), fino alle vibrazioni delle molecole (infrarosso, microonde, onde radio). I materiali analizzati forniranno informazioni specifiche di composizione e di quantità degli elementi in base al tipo di energia utilizzata e alla sua intensità. Purtroppo, non sempre i metodi non distruttivi riescono a dare tutte le informazioni riguardo all’oggetto in esame. Nei casi in cui non fosse proprio possibile utilizzare soltanto metodi non distruttivi per lo studio di reperti archeologici, sarebbe opportuno l’utilizzo parallelo e

complementare dei due approcci: distruttivo e non distruttivo. Le analisi non distruttive dovrebbero sempre precedere quelle distruttive, purché non inficino queste ultime, per guidare le scelte di procedimento e portare alla risoluzione mirata dei problemi posti dal reperto, come, per esempio, indicare la zona significativa da campionare per poter ottenere, in questo modo, il maggior numero di informazioni di tipo fisico-morfologico e chimico, danneggiando il meno possibile il reperto.

Per quanto riguarda gli studi numismatici e archeometallurgici in generale, l’archeometria può utilizzare le seguenti tecniche diagnostiche qualitative e quantitative:

XRF: X-Ray Fluorescence, fluorescenza X: permette di acquisire informazioni sugli elementi costituenti la superficie del reperto59.

LIBS: Laser-Induced Breakdown Spectroscopy, spettroscopia di plasmi indotti da laser: agisce in profondità, rilevando la composizione elementale del volume; se molto corroso, l’emissione protratta potrebbe danneggiare l’oggetto60.

Micro-Raman: microspettroscopia Raman: riconosce in superficie elementi organici e inorganici. Può essere utilizzata ai fini dello studio delle patine61.

 FT-IR: Fourier Transform Infrared Spectroscopy : Spettroscopia IR in

trasformata di Fourier: Dallo spettro infrarosso è possibile trarre utili informazioni per il

riconoscimento di una molecola incognita organica o inorganica. E’ molto utile per lo studio delle patine62.

59

G. E. Gigante, S. Ridolfi, “La tecnica della Fluorescenza a raggi x”, in G. E. Gigante, Maurizio Diana, a cura di, Metodologie fisiche non distruttive per le indagini sui Beni Culturali, Università degli studi di Roma La

Sapienza, Roma, 2006, pp. 171-200.

60

V. Palleschi, A. El Hassan, M. Ferretti, S. Legnaioli, G. Lorenzetti, E. Nebbia, L. Pardini, F. Catalli and M.A. Harith, In situ XRF and LIBS analysis of roman silver denari, cit.,

61 P. Vandenabeele, B. Wehling, L. Moens, E. M. De Reu, G.Van Hooydonk, Analysis with micro-Raman

spectroscopy of natural organic binding, Analitica Chimica acta, Elsevier, Paris, 2000, N.407, pp. 261–274.

ED-XRF: Energy Dispersive X-Ray Fluorescence, fluorescenza X in dispersione di energia: tecnica non distruttiva, non si limita soltanto all’irraggiamento della parte superficiale, ma si estende anche al volume al di sotto di essa63.

PIXE: Particle Induced X-Ray Emission, spettroscopia di emissione X indotta da particelle: effettua analisi elementali quantitative e qualitative in maniera non distruttiva, di agevole applicabilità, ma la radiazione impiegata ha una ridotta penetrazione, consentendo l’analisi esclusivamente superficiale del reperto. Se sono presenti patine di ossidazione o corrosione in superficie, quindi, diventa difficoltosa l’indagine, a meno che non si vogliano analizzare proprio le patine64.

AAS: Atomic Absorption Spectrometry, spettrometria di assorbimento

atomico: permette di determinare concentrazioni nell’ambito delle parti per milione

(ppm), necessita però del prelievo di materiale anche se in piccole quantità65.

XRD: X-Ray Diffraction, diffrattometria a raggi X: per analisi cristallografiche; consente di riconoscere la materia, attraverso la struttura del suo reticolo66.

ICP-MS: Inductively Coupled Plasma spectroscopy, spettrometria di plasmi ad accoppiamento induttivo: metodo distruttivo; consente l’identificazione di elementi in traccia, la separazione e la determinazione qualitativa dei vari isotopi di un elemento che differiscono per la massa. Viene applicata nell’esame del rapporto isotopico del piombo,

63S. Ridolfi, La tecnica della Fluorescenza a raggi x – Laboratorio di Fluorescenza x, in G. E. Gigante e M.

Diana, a cura di, Metodologie fisiche non distruttive per le indagini sui Beni Culturali, cit., pp. 201-209.

64

G. Demortier, J.L. Ruvalcaba, Differential PIXE analysis of Mesoamerican jewelry items, Nuclear Instruments and Methods, Physics Research Section B: Beam Interactions with Materials and Atoms, Elsevier, Parigi, 1999, pp. 352-358.

65

U. Leute, Archeometria, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, p. 215.

ma il costo oneroso dell’attrezzatura e la difficile preparazione in laboratorio dei campioni ne limitano l’uso67.

NAA: Neutron Activation Analysis, attivazione neutronica: opera su piccoli reperti in maniera distruttiva o micro distruttiva, possiede elevata penetrazione e permette quindi l’analisi dell’intero pezzo68.

Si può evincere così che le tecniche sono diverse tra loro, per potenzialità e caratteristiche. Alcune analizzeranno il reperto in profondità, riuscendo a fornire informazioni importanti riguardo alla composizione del volume del reperto, altre riusciranno a dare informazioni relative soltanto alla superficie. In quest’ultimo caso sarà necessario prendere visione dell’eventuale presenza di patine di ossidazione, prodotti di alterazione e corrosione che nei metalli, soprattutto antichi, sono molto frequenti. In presenza di patine superficiali, alcune tecniche diagnostiche (XRF, PIXE, ecc.) saranno ostacolate per la poca capacità di penetrazione, a meno che non si trovino fratture in superficie oppure non siano proprio le patine l’oggetto della ricerca. In ogni caso, prima di decidere a quale tecnica diagnostica sottoporre il reperto, è sempre auspicabile, in prima istanza, un esame ottico metallografico, che può essere effettuato attraverso il microscopio elettronico a scansione, lo Scanning Electron Microscope (SEM), che oltre a mettere in luce microrotture, microcavità e inclusioni di oggetti relativamente piccoli, consente tramite una microsonda collegata al microscopio, di realizzare sull’immagine digitalizzata una mappatura selettiva degli elementi chimici presenti; oppure attraverso microscopio metallografico, che analizza la struttura e lo stato del metallo per luce riflessa dalla superficie dell’oggetto. Per l’esame ottico, metodi meno recenti utilizzano un

67 U. Leute, Archeometria, cit., pp. 203-207. 68

E.V. Sayre, R.W. Dodson, Dorothy Burr Thompson, Neutron Activation Study of Mediterranean Potsherds, American journal of Archaeology, vol. 61, N.1, 1957, pp. 35-41.

campione di metallo che ha solitamente una superficie che va dai 2 ai 4 mm², prelevato con una microlama azionata a mano, o con carotatrici, utilizzate sempre meno a causa della dimensione piuttosto compromettente dei fori lasciati sul manufatto metallico. Il campione successivamente viene imprigionato in plastica termoindurente o a freddo con resine epossidiche. Così preparato, esso viene accuratamente levigato con carte smeriglio sempre più fini, lavando in acqua corrente il campione a ogni passaggio e ruotandolo di volta in volta di novanta gradi in modo da cancellare le rigature prodotte dalla precedente operazione; la lucidatura finale si fa, infine, su dischi rotanti rivestiti con panni imbevuti di sospensioni di sostanze abrasive (pasta diamantata o allumina)69. Ovviamente questo procedimento tiene poco conto dello stato di conservazione del manufatto e risulta invasivo per l’integrità dello stesso. Spesso succede che oltre alle informazioni legate alla fusione, alle tecniche di lavorazione, agli inclusi, all’utilizzo, ai processi e ai prodotti di corrosione, si voglia mettere in rilevo la struttura del metallo attraverso il metodo distruttivo dell’attacco chimico. Anche in questo caso, il tipo di reattivo verrà scelto in funzione delle caratteristiche del metallo sottoposto ad analisi e delle informazioni richieste. Oggi, in realtà, si preferisce fare indagini direttamente sul pezzo archeologico, senza campionarlo, evitando anche lo spostamento del reperto dal contesto di ritrovamento o di musealizzazione. Tecniche diagnostiche non distruttive, con la capacità di effettuare analisi in situ, cooperano sempre più spesso per il raggiungimento di risultati analitici efficaci e sicuri per lo stato di conservazione dei manufatti, tenendo conto, ovviamente, delle forti disomogeneità e della natura artigianale che caratterizzano i reperti archeologici.

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