• Non ci sono risultati.

I ERONE E LA TEORIA POLITICA RINASCIMENTALE

Lo strano caso del manoscritto dello Ierone

3.1 I ERONE E LA TEORIA POLITICA RINASCIMENTALE

Lo Ierone è la prima opera di Senofonte ad essere tradotta in latino.293 La traduzione di Leonardo Bruni, stampata a Firenze nel 1403 e dedicata al collega letterato e umanista Niccolò Niccoli, gode di immediata e incredibile fortuna nell’Italia del Quattrocento, prima in forma manoscritta (ne sopravvivono all’incirca duecento copie) e poi a stampa (fra il 1471 e il 1502, si contano all’incirca dieci edizioni del testo, fra cui quelle incluse nelle prime opera omnia dello scrittore, quelle di Alessandro Minuziano, Milano 1501-2, e Benedetto Ettori, Bologna 1502). Il dialogo viene poi tradotto di nuovo da Erasmo, e viene per la prima volta stampato a Basilea, da Johannes Frobenius, nel 1530, con una dedica al banchiere Anton Fugger. È questa traduzione a diventare la versione ‘ufficiale’ del testo in tutta Europa, al punto da essere ristampata una decina di volte fino alla fine del secolo, anche all’interno di edizioni complessive di Senofonte come quelle di Nicolaus Brylinger (Basilea, 1545), Michael Isingrim (1545 e 1551), Sebastiano Grifio (Lione, 1551) ed Henri Estienne (Ginevra, 1561 e 1581-96). Non mancano nemmeno altre traduzioni minori, quali quella di Giacomo Grifoli, stampata a Firenze nel 1550, e quella di Johannes Levvenklaius, stampata nel 1569 all’interno dell’opera omnia dell’autore greco nell’edizione bilingue pubblicata a Basilea. Sarà l’edizione rivista di quest’ultima, ristampata nel 1594, a sostituire, verso fine secolo, la traduzione di Erasmo fino alla metà del XVIII secolo.

Due traduzioni a opera di due rinomati intellettuali, tra i nomi più noti dei rispettivi contesti culturali, ristampati più e più volte a breve distanza di tempo, sono un ottimo indizio a favore della popolarità del testo. Di fatto, come ha ricordato Noreen Humble, lo Ierone viene a costituire, assieme alla Ciropedia e all’Economico, una sorta di ‘trittico’ di opere di Senofonte, che influenzano pesantemente la cultura del periodo, specialmente per quanto concerne un argomento importante per l’epoca come quello dell’educazione dei principi.294 A colpire la fantasia dei pensatori e letterati è la

particolareggiata descrizione della tirannide che Ierone (il tiranno del titolo) presenta in prima persona al filosofo Simonide, che lo interroga sull’argomento. Ierone afferma che, a causa del potere conquistato in modo illegittimo, egli si è privato di ogni piacere di cui godono i semplici cittadini ed è ora costretto a guardarsi da un popolo che non vede l’ora di riconquistarsi la libertà, languendo in una perpetua paura. Questa descrizione del tiranno verrà ripresa più di una volta, prima dagli umanisti fiorentini del XV secolo, e poi dai trattatisti politici continentali (soprattutto francesi) del XVI, e andrà a costituire una sorta di luogo comune della descrizione del tiranno. In quest’ottica, lo Ierone diventa, in un certo senso, l’opera opposta e complementare alla Ciropedia: il primo presenta la descrizione di un potere tirannico, illegittimo, ingiusto e oppressivo, basato su una relazione di paura con i sudditi,

293 I seguenti dati sulle traduzioni vengono da Marsh 1992: 87-91, 149-57. 294 Cfr. Humble 2017: 424-6.

150

mentre l’altra emerge come l’archetipo di tutti gli specula principum che consigliano ai re qual è il modo migliore con cui governare.295

Tuttavia, proprio questa posizione di archetipo ‘negativo’ conferisce alla storia della ricezione dello Ierone uno statuto del tutto particolare, che finora la critica non ha messo, a mio parere, adeguatamente in luce, ma di cui esistono numerosi indizi. La mancanza di una traduzione inglese per il dialogo, al contrario di quanto avvenuto per la Ciropedia e l’Economico, è uno di questi indizi, così come il fatto, notato dalla Humble, che “neither he [Erasmus, NdR] nor the work’s first translator, Bruni … ventured to dedicate the work to a princely ruler” (Humble 2017: 424). Vi è poi da considerare il fatto che il dialogo è citato esplicitamente ben poche volte nei testi di teoria politica dell’epoca, e che fra queste poche volte è da registrare soprattutto la presenza di autori ‘eterodossi’ (per non dire ‘radicali’) come Machiavelli ed Etienne de La Boétie. Per il resto, gli autori che pure ne fanno uso per descrivere i mali di un governo tirannico non lo citano direttamente: nella maggior parte dei casi, l’influenza del dialogo di Senofonte è da riconoscere attraverso il riuso, da parte degli autori, di idee tratte dal testo, senza che però esse vengano riconosciute esplicitamente come derivanti da esso. Sembra quasi che una sorta di pudore copra, nella cultura rinascimentale, il testo di Senofonte, facendone una presenza elusiva, ma allo stesso tempo invadente.

Il perché di questa influenza nascosta risulta chiaro se si considera la tradizione letteraria che, fin dall’Umanesimo italiano, circonda e determina la ricezione del dialogo di Senofonte, e che si esplicita soprattutto in due direttive principali. La prima è una tendenza a dimenticare, o a non tenere conto, della seconda parte del testo, quella contenente i consigli di Simonide a Ierone e le istruzioni su come rendere il proprio potere tirannico un regime favorevole alla città. L’esclusione di tale prospettiva, in verità, non sorprende, dato che andava in direzione decisamente opposta a tutto quello che la teoria politica rinascimentale (sia quella italiana di stampo repubblicano, sia quella europea di orientamento monarchico) scriveva e teorizzava a proposito del tiranno: se infatti il governo di quest’ultimo era visto come il peggiore dei regimi, l’antitesi dei valori riconosciuti, allora certamente l’idea di una sua ‘bontà’ doveva essere esclusa a priori. Di fatto, quindi, ad avere un vero successo durante l’epoca rinascimentale è praticamente solo la prima parte dell’opera, quella dove Ierone descrive i mali della sua condizione.

Ma anche solo questa parte poneva un problema alla teoria politica rinascimentale, che avrebbe messo lo Ierone al centro di una questione fondamentale e controversa della teoria politica sulla tirannide. Fin dall’inizio della sua ricezione in Occidente, il dialogo andò infatti incontro, implicitamente, a una lettura ‘generalizzante’, la cui caratteristica principale era quella di riferire la descrizione del tiranno impaurito per il suo potere assoluto alla situazione di qualsiasi principe o governatore, anche legittimo, dotato di un potere assoluto. Questo processo, il cui sviluppo vedremo nelle prossime pagine, nacque nell’Umanesimo italiano, dove lo Ierone sarebbe stato utilizzato ripetutamente da autori di ispirazione repubblicana per sostenere una visione antimonarchica e antiassolutista. Da lì poi passò alla cultura politica dell’Europa continentale, dove però pose un problema: come presentare ai sovrani un testo di consigli a un tiranno, un usurpatore? La risposta fu quella di riprendere esplicitamente la lettura ‘generalizzante’ e utilizzarla nel senso opposto a quello degli umanisti italiani, evidenziando che il termine non era negativo all’epoca di Senofonte, di fatto quindi equiparando Ierone a un re, legittimo ma bisognoso di consiglio. Solo che, a sua volta, questa risposta, come Rebecca Bushnell ha evidenziato,296 metteva radicalmente in discussione ogni tentativo di distinguere fra un tiranno e un re, e teneva aperto l’utilizzo dello Ierone a letture

295 Una fama, questa, che l’opera di Senofonte manterrà intatta fino all’inizio del XVII secolo: cfr. Grogan 2014: 43-4. 296 Cfr. Bushnell 1990: 42-7.

151

‘eversive’. Non sorprende quindi che, in un’Europa che andava sempre più verso l’assolutismo, il testo non abbia goduto della stessa attenzione di altri testi di Senofonte, come la Ciropedia, che invece erano molto più ‘ortodossi’ rispetto alla teoria politica dell’epoca sul diritto inalienabile del re, e che la sua influenza debba essere ritrovata all’interno di testi che, come i trattati politici della seconda metà del XVI secolo, si presentano come analisi ‘oggettive’ delle costituzioni di governo, senza intenti educativi precisi. Lo Ierone era un testo decisamente politico, e non nel senso migliore del termine.

La ‘politicità’ del testo emerge già a partire dalla traduzione di Leonardo Bruni (1403), che, come ha mostrato Brian Jeffrey Maxson, è da situarsi all’interno dell’acceso dibattito politico della Firenze del Quattrocento sul tema della tirannide, con particolare riferimento alla figura di Giulio Cesare e alla liceità del suo assassinio.297 Qualche anno prima, Coluccio Salutati, maestro di Bruni, nel trattato De tyranno (1400), aveva sostenuto che tiranno è colui che prende con la forza, senza diritto, il potere nel proprio stato, togliendo ai cittadini la propria libertà. La ribellione contro l’usurpatore, fino alla sua uccisione, è un’azione lecita, perché punisce un atto illegale. In questa prima parte del trattato, Salutati aveva ancora espresso quanto, nell’arco del Medioevo, avevano già sostenuto numerosi trattatisti politici, da Tommaso d’Aquino fino a Bartolo da Sassoferrato, sulla liceità della punizione del tiranno in quanto empio ribelle all’ordine naturale delle cose.298 Salutati

aveva però aggiunto, subito dopo, che se il potere del tiranno, originariamente illegittimo, fosse poi in seguito stato legittimato o dall’autorità di un signore a esso superiore o dalla volontà popolare, allora tale potere diventava immediatamente legittimo e pertanto nessuna ribellione era più autorizzata.299 Tale, secondo Salutati, era il potere di Cesare, che, illegittimo in origine, era poi stato legittimato dal popolo romano, rendendo di fatto quindi l’azione di Bruto e Cassio illegale, e non una rivolta legittima contro il potere di un tiranno. La sovranità popolare aveva riconosciuto in tal modo a Cesare lo status di re, una forma di governo che Salutati saluta come ottima.300

Come ha suggerito Maxson, “Bruni’s translation of the pro-monarchical Hiero suggests that he agreed with Salutati's praise of good kings. Xenophon’s advice to rulers in the Hiero and Salutati's treatment of Julius Caesar in the On the Tyrant both point to the possibility of a benign and legal king” (Maxson 2010: 196). A conferma di questa interpretazione starebbe anche il fatto che Bruni conferisce alla propria traduzione il titolo di De tyrannide (evidentemente vicino a quello del trattato di Salutati), con cui il testo sarà conosciuto fino alla traduzione di Erasmo. Non sarebbe del resto stata la prima volta che l’allievo interveniva in aiuto del maestro: lo stesso Maxson ricorda, anzi, che la prima traduzione dal greco di Bruni, quella del Discorso ai giovani di San Basilio, venne scritta per sostenere le posizioni di Salutati sull’importanza dei classici nell’educazione dei giovani.301 È quindi

senz’altro probabile che Bruni abbia voluto, con la traduzione dello Ierone, fornire un ulteriore appoggio alla posizione del maestro, con la traduzione di un testo dove un tiranno (detentore di un

297 Cfr. Maxson 2010. Il tema sarebbe rimasto scottante anche in seguito: cfr. Miola 1985: 272-3. Lo stesso Bruni, come

ricorda Maxson 2010: 196-204, e come vedremo, aveva un’opinione nettamente diversa sulla legittimità del potere di Cesare rispetto a Salutati.

298 Sulla teoria medievale del tiranno e il suo sviluppo, cfr. Parsons 1942, e i testi raccolti in Emerton 1964, 299 Cfr. Maxson 2010: 193-5.

300 Anche in questo caso, comunque, Salutati era in continuità con alcuni degli ultimi sviluppi della teoria politica

medievale, che, con autori come Tolomeo da Lucca ed Egidio Colonna, andava verso la teorizzazione del ruolo del re come incarnazione della legge piuttosto che come suo garante, proibendo così come conseguenza ogni rivolta contro di esso. Cfr. Parsons 1942: 142-3.

301 Lo stesso Salutati la indicò a uno dei suoi oppositori, il monaco camaldolense Giovanni da San Miniato, in risposta

152

potere illegittimo) viene ammaestrato da un filosofo sull’uso corretto del proprio potere, che gli garantirà l’approvazione popolare e quindi, nell’ottica di Salutati, la legittimazione che gli manca.

Del resto, nonostante la sua fedeltà al regime repubblicano di Firenze, da lui largamente elogiato nella di poco successiva Laudatio florentinae urbis (1403-4), Bruni ammise sempre che un regime monarchico, laddove si basasse sul diritto del sovrano a esercitare un simile potere, era un regime del tutto approvabile. L’idea emerge nella Laudatio quando Bruni mette sullo stesso piano il diritto di Firenze a reclamare l’eredità della repubblica romana e quello di un principe di succedere a suo padre sul trono di quest’ultimo (33):

Hoc enim plurimum arbitror referre quod et in regiis successionibus observari aiunt, ut is tandem regis filius recte appelletur qui eo tempore natus sit quo eius parens regiam habuerit dignitatem; qui autem vel ante vel postea nati sunt, eos neque regis esse nec in regno paterno successionem habere. (Bruni 2000: 33)

[Infatti, io ritengo che in questo caso si debba osservare la stessa consuetudine delle successioni al regno, laddove viene giustamente chiamato a regnare un figlio del sovrano che è nato durante il tempo in cui il padre possedeva la dignità regale. I figli che invece sono nati prima o dopo questo tempo, essi non sono ritenuti re, né hanno diritto di successione al regno paterno.]

Allo stesso modo, Bruni identificava senza ombra di dubbio la tirannide come il governo di un uomo che prendeva possesso del potere in uno stato senza averne diritto. Su queste basi, Bruni, in un passo dei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, fa condannare dalla voce di Niccolò Niccoli (il dedicatario della traduzione dello Ierone) la scelta di Dante di condannare all’inferno Bruto per l’assassinio di Cesare, usurpatore e oppressore della sua patria (1.43):

Illud autem gravius atque intolerabile, quod M. Brutum, hominem iustitia, modestia, magnitudine animi, omni denique virtutis laude praestantem, ob Caesarem interfectum libertatem populi romani ex faucibus latronum evulsam summo supplicio damnavit; Iunium vero Brutum, ob regem exactum, in campis Elysiis posuit. Atqui Tarquinius regnum a maioribus suis acceperat, eoque tempore rex fuit, cum esse regem iura permittebant ; Caesar autem vi et armis rem publicam occupaverat, interfectisque bonis civibus patriae suae libertatem sustulerat. Quamobrem, si sceleratus Marcus, sceleratiorem esse Iunius necesse est; sin autem Iunius laudandus, quod regem exegerit, cur non Marcus in caelum tollendus, quod tyrannum occiderit? (Bruni 1994: 1.43)

[E quello che è più grave e intollerabile, lui ha condannato al supplizio Marco Bruto, uomo grandemente lodato per la giustizia, l’umiltà, la grandezza d’animo, perché ha ucciso Cesare e ha sottratto la libertà del popolo romano dalla bocca dei ladri; mentre invece ha posto nei Campi Elisi Giunio Bruto, perché ha deposto il re. E Tarquinio almeno aveva ricevuto il regno dai suoi antenati, ed è stato re in un tempo in cui la legge accettava l’esistenza di un re, mentre Cesare ha occupato lo stato con la forza delle armi, e dopo aver ucciso i buoni cittadini ha privato la patria della libertà. Perciò, se Marco è empio, Giunio dev’essere per forza più empio; se invece Giunio dev’essere lodato perché ha cacciato un re, perché Marco non deve essere assunto in cielo, per aver ucciso un tiranno?]

153

La traduzione dello Ierone è da posizionarsi, in questo quadro, come riprova e sostegno della parte pro-monarchica del pensiero di Bruni, che egli riprendeva dal maestro Salutati. Simonide, nel consigliare Ierone su come meglio esercitare il suo potere, di fatto fornisce a lui e al lettore l’immagine di un buon sovrano, intento ad accrescere ed aumentare l’onore dei propri sudditi e la sicurezza del suo stato. Al tempo stesso, la lunga descrizione dei mali della propria posizione, fornita da Ierone, conferma ed evidenzia la natura maledetta ed empia del potere del tiranno, incapace di trovare soddisfazione nel proprio potere illegittimo, e condannato all’odio dei sudditi, un tempo liberi e ora suoi servi. I due modelli coesistono e si confrontano, in un modo del tutto consonante al pensiero di Bruni in materia.

E tuttavia, questa coesistenza costituisce anche, a mio parere, l’inizio della lettura ‘generalizzante’ del dialogo di Senofonte. Se è infatti vero che Bruni mantiene la definizione originale di Ierone come tyrannus all’inizio del dialogo (in tal modo dichiarando il suo potere come illegittimo), permettendo così di leggere quanto egli dice come la verità del proprio rapporto pervertito con il popolo, è però anche vero che l’andamento del dialogo, e il rapporto con Simonide, finiscono per diluire la distinzione fra un potere illegittimo e uno legittimo. Se infatti i mezzi con cui Simonide consiglia a Ierone come usare la propria posizione a beneficio dello Stato hanno come risultato quello di legittimare il potere di quest’ultimo, indipendentemente dalla sua origine illegale, a maggior ragione allora questi esempi possono essere presentati a un re legittimo per bene usare il proprio potere. Il passaggio di Ierone da tiranno a re, in questa prima traduzione, di fatto finisce per annullare, implicitamente, ogni differenza fra un tiranno e un re: entrambi possono fare il bene del proprio stato, entrambi possono anche compiere il male qualora regnino per sé stessi. Si capisce allora molto bene per quale motivo i futuri lettori del dialogo di fatto non faranno alcuna differenza, e finiranno tutti per attribuire i dolori della vita del tiranno a quelli di un qualsiasi uomo in posizione di potere – in un modo che diventerà anche un mezzo, per i pensatori repubblicani, di criticare sottilmente l’idea del potere assoluto e personale.

Esempio ottimo di questa lettura ‘generalizzante’ del dialogo, e delle sue applicazioni antimonarchiche, si ritrova in un altro testo appartenente allo stesso genere letterario, il dialogo De

infelicitate principum di Poggio Bracciolini (1440). Ritroviamo in questo testo la figura di Niccolò

Niccoli, qui chiamato a sostenere, di fronte a Cosimo de’ Medici e a Carlo Marsuppini,302 la

superiorità della vita contemplativa, e oziosa, su quella di una vita attivamente impegnata in politica. Per sostenere la sua posizione, Bracciolini svolge una lunga descrizione dei mali della vita dei principi, cui il potere toglie la possibilità di godere di ogni semplice legame umano, condannandoli invece a una vita di sospetto, invidia e oppressione. In questa sede, Niccoli esplicitamente dichiara di non fare alcuna differenza fra tiranni e principi dal potere legittimo: il potere è una condizione miserevole per chiunque, indipendentemente dalla sua origine e anche dai suoi usi. Anche se nel dialogo Bracciolini non cita mai direttamente lo Ierone, tuttavia alcune delle argomentazioni che egli presenta a sostegno della sua tesi sono così simili a quelle del testo di Senofonte, che la possibilità di una coincidenza diventa davvero difficile da sostenere:303

302 Successore di Bruni alla carica di Cancelliere nel 1444, che mantenne fino alla morte (1453). Gli successe,

ironicamente, lo stesso Bracciolini che nel dialogo che ora vediamo sosteneva la negatività di ogni posizione di potere, giusta o ingiusta.

303 I successivi rimandi al dialogo si basano sul testo curato da Davide Canfora in Bracciolini 1998, che fornisce anche

un elenco dei passi paralleli fra l’opera di Bracciolini e lo Ierone (Bracciolini 1998: 72, 76; su cui cfr. anche Kajanto 1994: 32). La vicinanza fra le due opere doveva essere già stata riconosciuta dai primi lettori del dialogo, dal momento che la traduzione di Bruni e il dialogo di Poggio sono presenti assieme in quattro manoscritti: cfr. Canfora in Bracciolini 1998: lxx, lxxvii, lxxxii, cv.

154

a) i principi hanno sì un vitto e una tavola più ricca degli uomini privati, ma questo piacere superiore è controbilanciato dall’angoscia e dalle preoccupazioni della loro posizione di potere, nonché dal fatto che anche l’abbondanza alla fine viene a noia (De

inf. 32; cfr. Hier. 1.17-19, 4.2)

b) i principi non possono rinunciare alla loro posizione a rischio della vita (De inf. 43; cfr. Hier. 7.12)

c) sono privati del piacere più dolce derivante dai rapporti umani, l’amicizia (57; cfr.

Hier. 3.6)

d) allo stesso modo, il potere rende re e principi capaci di agire con estrema crudeltà contro i legami familiari più sacri, come quelli familiari, pur di mantenere il proprio trono (73; cfr. Hier. 3.7-8).

Vediamo quindi qui una prima applicazione pratica della ‘generalizzazione’ del testo senofonteo. Il modello dello Ierone, nel dialogo di Bracciolini, viene staccato dalla sua concreta applicazione al caso di un tiranno il cui potere illegittimo per essere applicato, in maniera più generica, a ogni condizione umana di potere assoluto sui propri simili. Il problema dell’uso del potere, centrale alla riflessione di Senofonte (e che restava comunque presente nella traduzione di Bruni), viene qui sostituito dal problema del potere come condizione esistenziale di per sé infelice. In tal modo, il dialogo assume un altro valore, che si ripresenterà in seguito in altri testi: non più elenco dei mali