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T IRANNIDE E RESISTENZA FRA M ARIA ED E LISABETTA

Alle origini del tiranno sulla scena

2.4 T IRANNIDE E RESISTENZA FRA M ARIA ED E LISABETTA

Nel 1571, lo stesso anno della stampa del Damon and Pithias, un altro testo importante per la cultura elisabettiana viene dato alle stampe, “cum privilegio Regiae Maiestatis”, come si legge nel frontespizio. Si tratta di An Homily Against Disobedience and Wilful Rebellion, un sermone scritto dai vescovi della Chiesa anglicana. In questo testo, si trova compiutamente espressa quella che, a partire da quell’anno, sarebbe stata la dottrina ufficiale del regno sull’obbedienza dei sudditi al sovrano. La ribellione di questi ultimi contro un re unto da Dio viene in questo testo presentato come il peccato più grave che si possa commettere, un’emulazione diretta della ribellione di Lucifero contro Dio. Il potere dei re è infatti stabilito dall’Altissimo, come piena espressione della sua volontà sulla terra:

Kinges, Queenes and other Princes (for he speaketh of autchoritie and power be it in men or women) are ordained by Gods, are to be obeyed and honoured of their subiectes: that such subiects as are disobedient or rebellious against their princes, disobey God, and procure their owne damnation: that the government of princes is a great blessing of God geven for the common wealth, specially of the good and godly: for the comfort and cherishing of whom God geveth and setteth by princes: and on the contrary part, to the feare and for the punishment of the evill and wicked. (Homile 1571: A.iiiv)

A tale regola non è concessa nessuna eccezione. Il fatto che il re, o la regina, abusi del suo potere, non è una giustificazione: “a rebel is worse then the worst prince, and rebellion worse then the worst government of the worst prince that hitherto had ben” (B.iv). A tal proposito, l’omelia cita

esplicitamente l’esempio di David che, nonostante l’ingiustizia che soffre da parte di Saul, comunque non alza la mano per ucciderlo quando ce l’ha in pugno: “For who can lay his hande upon the lordes annointed, and be giltlesse?” (C.iiiv). Il popolo è invitato quindi a considerare l’ascesa al trono di un

sovrano tirannico come una punizione imposta da Dio per i suoi peccati (“If we wyll have an evill prynce […] let us take away our wickednesse which provoketh God to place such a one over us”, B.iiv), e confidare nella giustizia del Signore, che “wyll either dysplace hym, or of an evyll prince,

make hym a good prince” (ibid.).256

Questo testo segna la fine di un lungo percorso di riflessione sul potere del sovrano e i suoi limiti, di cui nella prima parte di questo lavoro abbiamo visto gli inizi. L’affermazione della maggiore importanza del potere sovrano come riflesso della potenza di Dio, maggiore di ogni altra autorità terrena dello Stato, raggiunge qui il suo massimo grado, lasciandosi dietro definitivamente ogni considerazione legata al carattere del sovrano che siede sul trono. È in questo periodo che i vescovi della Chiesa anglicana rielaborano, come ha notato Maynard Mack,257 la teoria dei “due corpi” della Chiesa, riferendola direttamente alla persona del re, e istituiscono così una differenza fra la persona

256 Cfr. Armstrong 1946: 163-5. 257 Cfr. Mack 1973: 74.

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concreta, fisica, del sovrano, e il re in quanto espressione della sovranità del paese. Rispettando e obbedendo al re terreno, i sudditi rispettano e obbediscono all’altro re astratto, che Dio nella Sua infinita saggezza ha stabilito come forma di governo ‘naturale’. Se il re abusa del suo potere, sarà compito di Dio (unica autorità rimasta al di sopra del re) di rimediare. Le tendenze assolutistiche dei Tudor, iniziate con l’Atto di Supremazia del 1534, giungono qui al loro pieno compimento.

La Homilie costistuisce però anche un testo di radicale e decisa opposizione agli avvenimenti politici dell’epoca e ai loro effetti sulla cultura protestante inglese. In quello stesso 1571 che vede la stampa della Homilie, il reggente di Scozia, James Douglas conte di Morton, inviava a Elisabetta un documento che costituiva la difesa più lunga e articolata della deposizione di Maria Stuart dal trono di Scozia. Questo documento era, per il momento, l’ultimo atto di una complicata azione politica degli ultimi tre anni, che aveva visto Maria chiedere un aiuto a Elisabetta per tornare sul trono, il ‘processo’ che ne era seguito (1568), e, alla fine, l’intervento militare inglese a favore dei nobili protestanti contro i partigiani di Maria.258 Contemporaneamente, la Francia andava verso la guerra civile, che sarebbe scoppiata l’anno dopo con il massacro di San Bartolomeo, e in Olanda ferveva la ribellione contro la corona spagnola. Le fazioni protestanti implicate in tutti questi conflitti giustificavano la loro azione in base alla teoria politica della resistenza che, negli ultimi quindici anni si era sviluppata all’interno della cultura protestante di ispirazione calvinista, e il cui punto centrale era il diritto dei sudditi a ribellarsi ai magistrati ingiusti, di qualsiasi ordine e grado, che abusassero del loro potere. Questa teoria aveva iniziato a svilupparsi una ventina d’anni prima, nel gruppo di esuli protestanti inglesi radunati a Ginevra attorno alla figura di John Knox, futuro protagonista della Riforma protestante in Scozia. Molti dei membri di questo gruppo, come Christopher Goodman e Anthony Gilby, erano intellettuali educati a Cambridge e a Oxford, e in seguito avevano fatto parte della Chiesa protestante sotto il breve regno di Edoardo. Costretti alla fuga sotto Maria Tudor, questi autori iniziarono a sviluppare una linea di pensiero politico con cui tentare di scuotere la coscienza protestante inglese, per indurla alla ribellione contro la regina tiranna, che governava in disobbedienza alla vera religione. Tale teoria è sostenuta soprattutto tramite esempi scritturali, anche se talvolta non mancano riferimenti alla letteratura latina e alla storia medievale inglese.

Il testo più rappresentativo di questa linea è il trattato How Superior Powers oght to be obeyed di Christopher Goodman (1558). Partendo dall’esempio biblico di Pietro e Giovanni che, di fronte al Sinedrio disobbediscono espressamente all’ordine di non predicare il Vangelo (Atti 5: 27-36), Goodman dimostra che “to obeye man in anie thinge contrary to God, or his precepts thoghe he be in hiest auctoritie, or never so orderly called there unto […] is no obedience at all, but disobedience” (Goodman 1558: 42-3). Dal momento che nessuno è nato re, ma riceve questo potere da Dio, nel momento in cui lo usa contro le norme istituite dalla divinità egli diventa a sua volta un ribelle; quando questo succede, il popolo ha il dovere morale di resistere e disobbedire. Goodman dedica anche un intero capitolo a confutare quella che, anni dopo, sarà la tesi principale della Homilie, e all’interpretazione della Lettera ai Romani di Paolo che ne è alla base:

All men are bownd to obey such Magistates, whome God hathe ordeyned over us lawfully according to his worde, which rule in his feare according to their office, as God hathe appoynted. For thogh the Apostle saith: There is no power but of God: yet doth he not here meane anie other powers, but such as are orderly and lawfullie institute of God. Ether els shulde he approve all tyranny and oppression, which cometh to anie commonwealth by means of wicked and ungodlie Rulers, and subversions in common welthes, and not Gods ordinaunce. For he never ordeyned anie lawes to approve, but to reprove and punishe tyrants, idolaters, papistes and oppressors. Then whey there are suche, they are not Gods ordinaunce. And in disobeying and resisting

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such, we do not resiste God ordinaunce, but Satan, and our synne, which is the cause of such. (Goodman 1558: 109-10)

Le stesse posizioni si ritrovano nel sermone The First Blast of the Trumpet Against the

Monstruous Regiment of Women di John Knox, pubblicato lo stesso anno. Questo testo ha la

particolarità di essere l’unico ad affrontare esplicitamente la questione della femminilità di Maria, presentandola come una delle cause per cui il suo potere regale è illegittimo e tirannico.259 Dopo aver dimostrato con prove apportate in buona parte da testi biblici (senza dimenticare un’autorità pagana, ma tradizionale, come Aristotele), che Dio ha reso le donne, per natura, sottomesse al potere dell’uomo, Knox conclude che pertanto il governo di Maria rompe le leggi stabilite da Dio. Per questo motivo, i sudditi sono giustificati nel disobbedirle e ribellarsi:

If any thinke, that because the realme and estates therof, have geven their consentes to a woman, and have established her, and her authoritie: that therefore it is laufull and acceptable before God: let the same men remember what I have said before, to wit, that God can not approve the doing nor consent of any multitude, concluding any thing against his worde and ordinance, and therefore they must have a more assured defense against the wrath of God, then the approbation and consent of a blinded multitude, or ells they shall not be able to stand in the presence of consuming fier: that is, they must acknowledge that the regiment of a woman is a thing most odious in the presence of God. And finallie they must studie to represse her inordinate pride and tyrannie to the uttermost of their power. (Knox 1558: 52-3)

Il più radicale fra questi testi è il Short Treatise of Politike Power (1556) di John Ponet, che giustifica apertamente non solo la ribellione al re tirannico, ma anche la sua uccisione.260 Il principio da cui parte è lo stesso della Homilie: i sovrani ricevono da Dio un’autorità sul popolo “to be ministers here in earthe, in ruling and governing his people” (A.vv); pertanto è dovere del popolo “[to] obeye

them, and have them in honour and reverence, according to his ordinaunce” (ibid.). Da questo stesso principio, Ponet trae conseguenze diamentralmente opposte: proprio perché ordinato da Dio a tutelare la legge, il re non ha il diritto di modificarla (“kinges and princes are not ioyned makers herof with God, so that therby of themselves they might clayme any interest or autoritie to dissolve or dispense with them”, B.iiir). A maggior ragione, quindi, non ha il diritto di infrangerla; al contrario, egli deve

diventare, nel suo comportamento l’incarnazione stessa della legge, perché anche i re, come tutti, sono “subiecte and ought to be obedient to Goddes lawes and wordes” (C.iir). Nel caso in cui questo

succeda, Ponet non ha dubbi su che comportamento debbano tenere i sudditi:

If any christian prince should goo about to redresse the abuses of the Sacraments (brought in and devised by the papistes to maintene their kingdome) to correcte their abominable life, their hooredome, buggery, dronkennesse, pride, and suche like vices: that is be another Ozias, another Osa, an heretike, a schismatike, cursed from toppe to too, with boke, bell, and candle, as blacke as a potte fide: no obedience of the subiectes ought to be geven unto him. (Ponet 1556: C.viiiv).

259 Un punto presente anche in Goodman: “Yf women be not permitted by Civile policies to rule in inferior offices, to be

Counsellors, Pears of a realme, Iustices, Sheriffs, Baylives and such like: I make your selves judges, whither it be mete for them to governe whole Realmes and nations?” (Goodman 1558: 52). In Goodman, tuttavia, tale argomento serve a evidenziare come il governo di una donna metta a rischio l’indipendenza del regno, in seguito a un suo possibile matrimonio: l’ecclesiastico non affronta specificamente il tema del governo di una donna. Cfr. Jordan 1987: 431, n. 17.

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E questo cattivo re, che Ponet chiama espressamente tiranno, può essere deposto e addirittura ucciso dai propri sudditi, come, in assenza di una legge espressamente stabilita (di cui Ponet riconosce la mancanza), dimostrano innumerevoli esempi dalla storia biblica (Achab, Gezabele, Atalia), romana (Nerone, Caligola) e inglese (Edoardo II, Riccardo II):

Forasmuche as ye have allready sene, wherof politike power and governement groweth, and thende whereunto it was ordained: and being it is before manifestly and sufficiently proved, that kinges and princes have not an absolute power over their subiectes: that they are and ought to be subiecte to the lawe of God, and the holsome positive lawes of their country: and that they maie not laufully take or use their subiectes goods at their pleasure: the reasons, argumentes and lawe that serve for the deposing and displaceing of an evil governour, will doo as muche for the proofe, that it is laufull to kill a tiranne, if they maie be indifferently hearde. As God hathe ordained Magistrates to heare and determine private mennes matiers, and to punishe their vices: so also will he, that the magistrates doings be called to accompt and reckoning, and their vices corrected and punished by the body of the hole congregacion or common wealthe. (ibid.)

Dieci anni dopo, quando la nobiltà scozzese si ribellò contro Maria, buona parte di questa stessa teoria non solo venne utilizzata per legittimare e giustificare l’azione concreta dei nobili, ma venne anzi sviluppata da George Buchanan, nel De Iure Regni Apud Scotos Dialogus, per sviluppare una più ampia teoria costituzionale. Nel dialogo, stampato per la prima volta nel 1576, ma scritto all’epoca della rivolta e poi circolante in numerose copie manoscritte, Buchanan stesso discute con Thomas Maitland dei fatti della rivolta, e di come interpretare questa improvvisa libertà che si sono presi i nobili di Scozia nei confronti della loro regina. Dopo che entrambi hanno riconosciuto che la regalità è un’istituzione escogitata dal popolo per far rispettare la legge, e aver convenuto che quindi il potere del re non può essere sciolto dall’obbedienza alla legge, Buchanan chiede al suo interlocutore allora a chi dovrebbe spettare l’eventuale funzione di controllo del potere del sovrano. Maitland, da buon inglese, non ha dubbi: “Ego, si me interrogas, ipsum regem” (“Se me lo chiedi, io dico il re”,

De Iure 31),261 perché, dice Maitland, come gli artisti conoscono le regole della propria arte e ne fanno uso per regolarsi al meglio nel loro lavoro, così farà anche il re. Buchanan si dichiara contrario: “Ego contra nihil interesse video, regemne liberum et solutum legibus relinquamus an ei tribuamus legum iubendarum potestatem. Nemo enim se sponte vinculis induet” (“Io invece, non vedo alcuna differenza tra lasciare il re libero e non sottomesso alle leggi e dargli il potere di farle; nessuno, infatti, si mette volontariamente in catene”, ibid.). Eleggere il re come controllore di sé stesso significa, di fatto, tornare al punto di partenza, e concedere di nuovo a un uomo (essere fallibile e soggetto a tentazione) un potere assoluto, mettendo così in pericolo lo stato. Al contrario, deve essere il popolo, che gli ha concesso il potere regale, a controllarlo:

neminem ego ei dominum impono, sed populo, qui ei imperium in se dedit, licere volo ut eius imperii modum ei praescribat, eoque iure quod populus in se dederit ut rex utatur postulo. Neque has leges per vim, ut tu interpretaris, imponi volo, sed communicato cum rege consilio communiter statuendum arbitror quod ad omnium salutem communiter faciat. (De Iure 32)

[Non voglio imporre nessun signore su di lui; io voglio che al popolo, che gli ha dato autorità su di sé, sia permesso di fissare un limite al suo potere, e ritengo che il re debba esercitare le proprie prerogative solo all’interno di quei limiti che il popolo ha fissato. Non desidero nemmeno che queste leggi siano imposte con

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la forza, come sembri credere tu; al contrario, io credo che si debbano prendere decisioni in comune, dopo che il re si è consultato in consiglio, per quegli argomenti che riguardano il benessere di tutti.]

Da questa stessa base teorica procede la giustificazione del diritto del popolo a ribellarsi al governo di un tiranno, ovvero di un uomo che non governa con il suo consenso. In questa categoria, Buchanan comprende non solo chi, come Ierone di Siracusa o Cosimo de’ Medici, ha guadagnato il proprio potere “non populi voluntate … sed vi … vel fraude” (“non per volontà del popolo, ma con la forza o l’inganno”, De Iure 53), ma anche, più in generale, tutti gli uomini di potere che “non patriae sed sibi gerunt imperium neque publicae utiliatis sed suae voluptatis rationem habent, qui stabilimentum suae auctoritatis in civium infirmitate collocant quique regnum non procurationem a Deo creditam sed potius praedam sibi oblatam credunt” (“quanti detengono il potere non per il loro paese ma per sé stessi, che non tengono conto del comune interesse ma solo del proprio piacere, basano la propria autorità sulla debolezza dei sudditi, e considerano la loro regalità non come un incarico datogli da Dio ma piuttosto come un bottino di guerra a loro consegnato”, De Iure 54). Usurpando in tal modo il potere, questi uomini, sostiene Buchanan, si escludono da soli da ogni vincolo con l’umanità, diventando “Dei et hominum hostes maxime omnium capitales” (“i peggiori e più terribili nemici di Dio e degli uomini”, ibid.). Il popolo ha pertanto tutto il diritto di deporli e processarli, dal momento che essi, usurpando il potere o esercitandolo ingiustamente, sono venuti meno a quella stessa legge con cui il popolo ha garantito loro autorità:

B. Uter auctoritatem habet ab altero? Rexne a lege, an lex a rege? M. Rex a lege.

B. Unde id colligis?

M. Quia non rex legi sed lex regi coercendo quaesita est. Et a lege id ipsum habet quod rex est, nam absque ea tyrannus esset.

B. Lex igitur rege potentior est ac velut rectrix et moderatrix et cupiditatum et actionum eius.… In rege creando quid potissimum spectarunt homines?

M. Populi, ut opinor, utilitatem.

B. Quod si nullus hominum coetus esset, regibus non foret opus ? M. Nihil prorsus.

B. Populus igitur rege praestantior. M. Necesse est.

B. Si praestantior est, etiam et maior. Rex igitur cum ad populi iudicium vocatur, minor ad maiorem in ius vocatur.

(De Iure 85-7)

[B. Chi è dei due che riceve la propria autorità dall’altro? Il re dalla legge, o la legge dal re? M. Il re dalla legge.

B. E perché, secondo te?

M. Perché non è il re a essere stabilito per limitare la legge, ma la legge per limitare il re. Ed è la legge che definisce cos’è un re, mentre colui che se ne stacca è un tiranno.

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B. La legge quindi è più potente del re, e agisce come controllo e moderatrice delle sue azioni e dei suoi desideri. … E gli uomini, cosa speravano di ottenere quando elessero un re?

M. Credo qualcosa che fosse utile al popolo.

B. Quindi se nessuno degli uomini dovesse essere, non ci sarebbe bisogno di un re? M. Non credo proprio.

B. E allora il popolo è più potente del re. M. Per forza.

B. E se è più potente, allora la sua autorità è maggiore. Quindi il re sottostà al giudizio del popolo, così come ogni inferiore è sottoposto al giudizio del suo superiore.]

Allo stesso modo, aggiunge poi Buchanan, essi hanno il diritto di ribellarsi e uccidere il re che “facit quae sunt solvenda societati humanae, cuius continendae causa fuit creatus” (“agisce in un modo che infrange la società che è stato eletto per tenere insieme”, De Iure 97), cioè, come riconosce lo stesso Maitland, un tiranno. La guerra contro quest’ultimo, infatti, è una guerra giusta, fatta “ob graves et intolerabiles iniurias” (“a causa di offese gravi e intollerabili”, ibid.), contro un “totius humani generis hoste” (“nemico dell’intera razza umana”, ibid.). Il tiranno, che con il suo comportamento si è posto al di fuori della società umana alla stregua di un qualunque criminale, può quindi essere ucciso anche da singoli individui: un fatto riconosciuto da quasi tutte le civiltà di ogni tempo, come Maitland è costretto a riconoscere (“Video nationes fere omnes in ea fuisse sententia”, “E vedo che quasi tutti i popoli sono d’accordo su questo”, ibid.).