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L A TIRANNIDE AL TEMPO DI G IACOMO

Lo strano caso del manoscritto dello Ierone

3.4 L A TIRANNIDE AL TEMPO DI G IACOMO

Per l’inizio del XVII secolo, il dibattito politico sulla definizione di ‘tiranno’ e sul diritto alla ribellione dei sudditi poteva considerarsi concluso. Gli ultimi trent’anni del XVI secolo vedono un progressivo consolidamento dell’ideologia ufficiale del regno Tudor, e per il 1603, l’anno dell’ascensione di Giacomo al trono, che il re regnasse per diritto divino e che la ribellione contro di lui fosse un atto empio, che andava contro non solo la legge umana, ma anche contro quella divina e/o naturale, erano idee normalmente accettate e diffuse.327 La difficile situazione internazionale

dell’Inghilterra negli ultimi anni di regno di Elisabetta, e soprattutto le relazioni tese con le potenze cattoliche, soprattutto la Spagna, avevano fornito in questo senso un utile aiuto. Fedeli al loro compito

327 Cfr. Bushnell 1990: 72-4 su questa parte. L’analisi di quest’ultima si basa sullo studio di Judson 1964, specialmente i

capp. V, VI e VIII che ha fornito una presentazione complessiva di tutti i concetti principali del dibattito politico inglese nella prima metà del XVII secolo, nel quadro di analizzare la ‘crisi costituzionale’ che coinvolse l’Inghilterra Stuart portandola alla guerra civile. Anch’io farò riferimento a questo studio nelle successive pagine, per la descrizione della cultura politica di quest’epoca nei suoi aspetti principali.

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di venire in aiuto alla propria sovrana, i vescovi e i predicatori anglicani, nell’ultimo quarto del secolo, predicarono più volte a favore dell’obbedienza del popolo al potere del sovrano, presentandolo come il modo migliore per difendere e proteggere l’autonomia e l’indipendenza dell’isola contro nemici esterni e interni. Il regno doveva rimanere unito al proprio sovrano così come il mondo, e l’umanità, erano uniti a Dio in obbedienza: disobbedire significava macchiarsi del peccato più grave, quello di ribellione, e provocare la rovina di quell’ordine gerarchico che Dio aveva stabilito nella sua Provvidenza.328

Fu lo stesso nuovo sovrano a fornire alla nazione il testo in cui queste idee trovarono la loro massima espressione. Cinque anni prima di diventare re d’Inghilterra, nel 1598, il sovrano scozzese intervenne nel dibattito politico facendo dare alle stampe un trattato, The Trew Law of Free

Monarchies, che forniva le sue idee sulla questione. Nell’opera, Giacomo argomentava il diritto

divino dei re partendo dal passo biblico (1 Sam. 8) in cui il profeta Samuele descriveva un re tirannico ai capi degli Israeliti, venuti a chiedergli di avere anche loro un re, come i popoli circostanti. Nel testo biblico, tale ritratto è inteso come un’ammonizione: se il popolo desidera un re, deve essere pronto a tollerarne il potere, anche quando questo si rivela oppressivo e ingiusto, e non potrà rivolgersi di nuovo a Dio per esserne liberato. Da questo passo, Giacomo ne traeva la conseguenza che anche il potere di un re ingiusto è comunque un potere legittimato da Dio, e pertanto nessun suddito ha il diritto di ribellarsi:

What liberty can broiling spirits, and rebellious minds claime justly to against any Christian Monarchie; since they can claim no greater libertie on their part, nor the people of God might have done, and no greater tyranny was ever executed by any Prince or tyrant … if tyrannizing over mens persons, sonnes, daughters and servants; redacting noble houses, and men, and women of noble blood, to slavish and servile offices; and extortion, and spoil of their lands and goods to the princes owne private use and commoditie, and of his courteours and servants, may be called a tyrannie? (cit. in Bushnell 1990: 73-4)

Molti pensatori, parlamentari e clerici avrebbero ripreso queste idee del sovrano; di fatto, anzi, i primi trent’anni del XVII secolo avrebbero visto la stesura di molti sermoni e trattati, volti a dimostrare e provare il diritto divino del re, e a condannare con decisione ogni iniziativa dei sudditi che potesse qualificarsi come ribellione.329 Sia Giacomo sia poi Carlo I ne avrebbero ampiamente

incoraggiato la stampa e la diffusione, anche come mezzo per vincere l’opposizione parlamentare ai propri progetti militari e politici: fra le dottrine diffuse e sostenute in questi scritti, c’era infatti anche l’affermazione che non venire in soccorso del re dal punto di vista finanziario quando questi lo richiedeva per difendere il paese era da ritenere peccato (“ayde and supply for the defence of the Kingdome, and the like affaires of State … are due to the King from his People, by all Law both of God and men”).330 Sostenuti in tal modo dalla corona, numerose voci si alzarono a sostenere e

diffondere il ‘vangelo’ del potere assoluto del re, fondato da Dio e contro cui nessun suddito poteva muovere la propria mano, a prezzo di rompere e infrangere la concordia e l’unità che doveva regnare nel paese come nel mondo creato da Dio. “If we break into tumult and disorder, we resemble those

328 Cfr. Judson 1964: 176-8.

329 Per una descrizione più particolareggiata, rimando a Judson 1964: 178-94, che fornisce molteplici esempi di questo

tipo di letteratura. Alcuni testi saranno citati di seguito da me.

330 La citazione viene dalle Instructions ai vescovi d’Inghilterra emanate da Giacomo nel 1626, citato in Judson 1964:

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Giants of whom the Poets write; who making offer to scale the skies, and to put Jupiter out of his throne, were overwhelmed in a moment with the mountaines which they had heaped together”, scrive James Hayward, avvocato e politico, nel 1603, in un discorso per l’ascesa di Giacomo al trono, denunciando l’inutilità e anzi la peccaminosità di ogni ribellione, che si scontrava con il volere di Dio.331 Lo stesso concetto sarebbe stato ripetuto undici anni dopo da John Rawlinson, cappellano di Elllesmere, in uno dei suoi sermoni: “Let him [il re, N.d.R.] rage, kill, Massacree … we may not conspire against them; our hands bound, we may not so much as lift up our little finger against them” (cit. in Judson 1964: 181).

Sulla scorta di alcune posizioni tradizionali, alcuni pensatori iniziarono a sviluppare una vera e propria teoria politica dell’assolutismo, presentando il re, in quanto istituzione politica, come un corrispondente umano della legge naturale, connaturata al corpo politico dello Stato come l’anima lo è al corpo fisico dell’essere umano. Così scrive il predicatore William Dickinson, nel suo sermone

The Kings Right (1619):332

As in the body of man the soule is said to be at once in the whole and every part … even so it is in the Republike, the King is not limited, his power is diffused through the whole and every particular, and according to the instruments hee works by, so is his power denominated. In the Chauncery he is called Lord Chancelour, in other courts Judge, Justice, and so of the rest … from him that rideth on the Kings horse unto the petty

Constable the worker & moover is the same, all are as it were animated & enabled in their places and offices

by one and the same Soule, the King. (cit. in Judson 1964: 193)

In questo brano, il re non è più semplicemente l’uomo cui è stato dato da Dio l’incarico di governare il regno, rappresentante in terra, umano, della Sua potenza. Egli è diventato, quasi letteralmente, l’incarnazione dello Stato, anima e principio vivificante di quest’ultimo così come avviene, per natura, nel corpo umano: il re è un’istituzione naturale quanto l’anima umana. Era una posizione che portava all’estremo alcuni concetti fondamentali dell’ideologia Tudor, fino alle loro logiche conseguenze: ribellarsi al re non era possibile perché la monarchia è, semplicemente, il regime naturale in cui devono vivere gli uomini; colui che lo fa, non solo va contro le leggi divine, ma tenta di combattere la stessa natura dell’uomo, che, come tutta la natura, è chiamato a essere governato da un sovrano.

Vi furono alcuni che, su questa base, andarono ancora oltre, e proclamarono che il potere del re non era soggetto alle leggi. Questa la posizione di William Goodwin, sacerdote e Dean del college di Christ Church (Oxford), che in un sermone del 1614 tenuto davanti al sovrano affermò apertamente che il re è “ipse solutus Legibus, himselfe exempted from his lawes, not from the Direction, and Observance of them, but from the Punishment and penalty of them” (cit. in Judson 1964: 200). Otto anni dopo, R. Willan, cappellano di Carlo I, avrebbe riformulato lo stesso pensiero in un altro sermone: “Lawes were not written for them [the Princes, N.d.R] … of good Princes their high calling makes them above Law” (ibid.). Tali affermazioni erano una sorta di soddisfazione, ritardata, del sogno proibito di tutti i sovrani inglesi del XVI secolo, a partire da Enrico VIII: l’affermazione di un potere assoluto del re sul proprio regno e sui propri sudditi, fuori dal controllo non solo delle potenze

331 Testo citato in Judson 1964: 182. Hayward era stato messo in prigione da Elisabetta, sospettato di tradimento, per aver

scritto nel 1599 una vita di Enrico IV dedicata a Essex, ed era rimasto rinchiuso in cella fino all’anno prima. Con questo pamphlet, Hayward mirava a conquistarsi il favore del re.

332 Per una considerazione più precisa della teoria della monarchia come conseguenza della legge naturale, cfr. Judson

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esterne, ma anche da quello dei propri sudditi, che avevano affermato a più riprese, e in vario modo, la propria intenzione di porre dei limiti al potere del sovrano.

In un contesto del genere, la vecchia discussione umanista sui caratteri del re e del tiranno perse rapidamente di valore: una volta accettato che il carattere del re era ininfluente ai fini di una discussione della sua autorità, la contrapposizione tradizionale perdeva il suo valore originario di giustificazione della ribellione dei sudditi. Violento e oppressore, il tiranno rimaneva sempre un re legittimo, e in quanto tale il suo governo era sempre preferibile a quella che, senza di lui, sarebbe stata l’anarchia. Questo disse Henry Valentine, uno dei sostenitori più dichiarati e violenti di Giacomo, in un sermone presentato di fronte al Parlamento nel 1624: “A bad King is a Thing which the oldest man here cannot remember, yet let me tell you that Tyranny is rather to be chosen than Anarchie … Better it is to feare one, then many, better one Lion, then all the Beares, and Bores, and wilde beasts of the Forrest” (cit. in Judson 1964: 194). E questa stessa posizione fu sostenuta dall’anonimo autore del trattato Nero Caesar (1624),333 che, nel riprendere la classica figura tirannica

di Nerone, se ne servì per dimostrare che, nonostante il suo carattere, questo non portò la fine dell’impero a Roma, al contrario la rafforzò: “That sacred monarchie could preserve the people of Rome from final ruine, not-withstanding all the prophanations, blasphemies, and scandals of tyrannous excess, wherewith Nero defiled and defamed it, is the wonder which no other forme of government could performe” (cit. in Judson 1964: 194). L’esempio che, in tempi passati, era stato usato da alcuni scrittori di resistenza per dimostrare che Dio condannava il tiranno, e a volte lo consegnava alla vendetta popolare, veniva ora utilizzato per rafforzare e solidificare una posizione diametralmente opposta: quella del potere regale.

Ci fu anche chi andò oltre e condannò apertamente quella stessa letteratura di resistenza del XVI secolo. David Owen, cappellano di John Ramsay, visconte di Hadington, in un trattato del 1610, dal titolo Herod and Pilate reconciled, or, the concord of Papist and Puritan for the Deposition, and

Killing of Kings (1610), espresso apertamente la teoria di una congiura ‘puritano-papista’, volta a

negare il potere del sovrano.334 Tale congiura si incentrava sull’idea, da lui bollata come empia, che le leggi di un paese fossero una sorta di contratto fra i sudditi e il re, che in caso di mancato rispetto da parte del re scioglieva i sudditi dall’obbedienza:

The Puritan-Papists tell us the Fundamentall Laws, are (I know not what) contracts, or conditionall Covenants, betwixt the King and the People, entred, and establish by Oath at the Kings first Inauguration; which being broken, they will have the People free, and loose from all Bonds of Allegiance and Religion to their Soveraignes. (cit. in Judson 1964: 203-4)

In questa pericolosa congiura erano coinvolti, a parere di Owen, tutti gli scrittori di resistenza del XVI secolo: Ponet, Knox, Goodman, Buchanan, vengono da lui nel testo apertamente condannati come gli esponenti più pericolosi di queste idee che i sudditi hanno il diritto di ribellarsi contro un re che non rispetta le leggi. In questo senso, Owen costituisce l’altra faccia della medaglia rispetto a Valentine e all’anonimo autore del Nero Caesar, in quanto presenta la logica conseguenza della loro posizione. Se il cattivo governo di un tiranno non minaccia il potere del re, allora chiunque dice il contrario è per forza un traditore e un nemico dello Stato, e come tale va punito. In tal modo, le tesi

333 Il trattato è attribuito, nel catalogo della Huntington Library, a Edward Bolton o Boulton, un antiquario, storico e poeta

di fede cattolica, e reca nel frontespizio una dedica al duca di Buckingham.

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della teoria di resistenza del XVI secolo vengono messe da parte e scartate dalla ‘nuova’ ideologia politica, incentrata sul diritto divino del re, slegato dalla punizione della legge. Come risultato di questa situazione, il problema della tirannide come inteso fino a quel momento (ovvero la contrapposizione caratteriale, di radice umanista, fra un re giusto e uno ingiusto) sparisce quasi del tutto dalla discussione politica – con l’eccezione (che vedremo dopo) della letteratura puritana, la quale resterà però abbastanza isolata fino alla crisi degli anni ’40, che scatenerà la guerra civile. Per il resto, la figura del tiranno che aveva dominato la letteratura politica del XVI secolo scompare da quasi tutta la letteratura dell’epoca, con un’unica, significativa eccezione: il teatro.

A teatro, la figura del tiranno gode, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, di una grande popolarità. Personaggi identificati con questo nome ricorrono costantemente in tragedie e commedie, a volte in funzione di antagonisti rispetto all’eroe, ma altre volte in funzione di protagonisti. La loro popolarità contribuisce alla creazione di un vero e proprio ‘tipo’ teatrale, in possesso di determinate caratteristiche psicologiche, che ricorrono di opera in opera.335 Prima fra tutte è l’ambizione: il tiranno è colui che desidera il potere (e spesso il trono di un regno), e per giungere a possederlo è pronto a utilizzare ogni mezzo, e a tessere ogni intrigo, in completo spregio di qualsiasi norma etica o legge umana.336 Una volta giunto al potere, egli si comporterà nel modo più oppressivo e sanguinoso possibile: farà uccidere i suoi avversari politici (e anche i suoi sostenitori, se non si fida più di loro) e instaurerà un regime di terrore nei confronti dei suoi sudditi, convinto che, facendosi temere da loro, li indurrà a non ribellarsi. Non rispetterà le proprietà di questi ultimi, si arricchirà per sé stesso e si prenderà le loro donne se lo desidera. In poche parole, egli si comporterà come un uomo che ha per guida soltanto il proprio piacere personale, e che per soddisfare quest’ultimo è pronto a sacrificare qualsiasi cosa e infrangere qualsiasi legame.

D’altra parte, proprio questa basilare caratteristica psicologica del tiranno garantisce, agli occhi del pubblico, la sua infelicità. A meno che il tiranno non sia completamente avvolto nel suo piacere personale da essere sordo ad ogni altra voce interiore (come di solito avviene ai tiranni delle commedie, che ricoprono però il ruolo di antagonisti, e in quanto tali difficilmente ottengono spazio per un approfondimento psicologico), il tiranno è infatti presentato come profondamente insoddisfatto della propria situazione. Non essendo amato dai propri sudditi che ha oppresso, egli deve guardarsi a sua volta dalla loro reazione, senza potersi fidare nemmeno dei propri cari. Costretto a una sorveglianza perpetua nei confronti dei propri sudditi, egli sperimenta una condanna alla solitudine che non fa che acuire l’insoddisfazione per il potere acquisito, e aumentare un desiderio, quasi patologico, di maggior sicurezza. Preso in mezzo fra il proprio desiderio di potere e l’incapacità di affrontare le conseguenze di quest’ultimo, il tiranno consuma così i propri giorni nel dolore, in attesa della punizione che inevitabilmente giungerà per i suoi crimini, e che coinciderà con la perdita, al tempo stesso, del suo regno e della sua vita per mano di un vendicatore.

Queste le caratteristiche principali del ‘tipo’ teatrale del tiranno che, nelle sue molteplici incarnazioni (fra cui bisogna ricordare almeno il Tamburlaine di Marlowe, il Mordred di The

335 Il successivo elenco delle caratteristiche del tiranno a teatro è stato delineato nella sua compiutezza da Armstrong

1946, e ad esso farò riferimento nel successivo, breve elenco dei tratti fondamentali. L’analisi dello studioso è stata di seguito ampliata ed espansa, soprattutto in Bushnell 1990 e, per quel che riguarda i personaggi shakespeariani, in MacGrail 2001.

336 Caratteristica che il tiranno condivide con un altro personaggio ‘tipico’ del teatro elisabettiano, il ‘machiavellico’. Su

quest’ultimo, sui punti di contatto fra le due figure, e più in generale sull’influenza delle teorie di Machiavelli sulla figura del tiranno, cfr. Armstrong 1948: 25-32. Cfr. anche MacGrail 2001: 47-60 per quanto riguarda, in particolare, il personaggio di Riccardo III, descritto dalla studiosa come un seguace impefetto delle teorie di Machiavelli come venivano intese all’epoca.

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Misfortunes of Arthur di Thomas Hodge, e gli shakespeariani Riccardo III e Macbeth), è presente

praticamente in tutto il teatro elisabettiano e giacomiano fino agli inizi del XVII secolo. Esse sono tutte riprese, in vario modo, dalla tradizione teatrale precedente, quella dei mystery plays prima e del teatro umanista poi,337 ma, nelle mani dei drammaturghi del teatro elisabettiano, esse sono utilizzate in un modo profondamente nuovo. La loro assunzione all’interno di una pratica teatrale che non ha più evidenti scopi pedagogici o religiosi, come in precedenza, permette agli autori di sperimentare con questo ‘tipo’, di svilupparne le caratteristiche in funzione di un maggiore approfondimento, quando questi è protagonista della scena. Al tempo stesso, e su un piano più generale, questo permette loro di indagare i problemi e le tematiche connesse alla figura del tiranno, in un modo più libero e completo di quanto sarebbe stato possibile in altra forma. In questo senso, essi continuano quanto Preston, Puckering ed Edwards avevano iniziato: utilizzare il teatro (il genere letterario che, proprio per il suo aspetto di intrattenimento, è ‘autorizzato’ a infrangere, in qualche misura, le regole codificate) come forma di analisi e dibattito su problemi contemporanei.338

Questo è reso possibile dal fatto che, a teatro, il tiranno viene identificato da autori e pubblico come un ‘tipo’ psicologico ben definito, al di là della natura del suo potere, che può essere sia di natura legittima sia frutto di un’usurpazione.339 Anche in quest’ultimo caso, comunque, è frequente

che il tiranno presenti caratteristiche psicologiche ‘tiranniche’ anche prima di accedere al trono, in modo che l’azione scenica (l’usurpazione) finisce per essere presentata come l’effetto, e non la causa, della sua personalità. È questo il caso di Riccardo III, che rivela al pubblico la propria tirannide ‘congenita’ ben prima di iniziare attivamente la propria scalata verso il trono, e di Tamburlaine di Marlowe, la cui scalata al potere è presentata come il risultato di un feroce e indomabile desiderio di gloria. Per entrambi i personaggi, la violenza e la conquista hanno radici nel proprio carattere personale, non in una qualche circostanza esterna, così che a emergere, alla fine, è il ritratto psicologico di un uomo che continuamente desidera, e non la condanna moralistica dell’inferiore che ha osato occupare un posto che non gli compete. Tale enfasi sul carattere ha l’effetto di aprire alla possibilità che il carattere psicologico del tiranno venga assegnato a un personaggio il cui potere sia però di natura legittima, e pertanto non tacciabile della colpa di avere usurpato un trono. In quest’ultima categoria si situa lo stesso Macbeth, che all’interno della sua tragedia detiene un potere