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Lo strano caso del manoscritto dello Ierone

3.3 E LEMENTI DI STILE

Dopo che Leicester Bradner ha negato l’appartenenza ad Elisabetta del manoscritto, nessun’altra identificazione è stata proposta. Ciò è senza dubbio in parte dovuto al fatto che, come ho accennato nell’introduzione, il testo non ha suscitato molto interesse da parte della critica; è però anche vero

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che, dal punto di vista dell’analisi del manoscritto, il testo non presenta caratteristiche tali da far riconoscere la presenza di una mano autorevole. Senza dubbio il testo è appartenuto a qualcuno che gli ha dedicato particolare cura e attenzione, come testimoniato non solo dalla presenza di una rilegatura che unisce i fogli, ma anche dall’attenzione, evidente nella calligrafia, che l’autore/gli autori hanno dedicato perché il testo fosse chiaro e leggibile; e da questo punto di vista, come vedremo fra poco, è possibile fare alcune osservazioni interessanti riguardo all’ambiente in cui la traduzione è stata prodotta. Tuttavia, mancano alcuni elementi distintamente personali che, confrontati con altri manoscritti, ci diano quantomeno un’ipotesi fondata su chi potrebbe essere l’autore cui la traduzione andrebbe assegnata.324

L’analisi che seguirà di alcuni degli aspetti più interessanti della scrittura del manoscritto non è quindi volta a fornire una proposta di attribuzione a un singolo autore, per cui, a mia opinione, non sussistono abbastanza elementi. Scopo delle successive osservazioni sarà invece quello di notare, e riflettere, su come alcuni elementi del manoscritto rendano possibile posizionare quest’ultimo, almeno come ipotesi, all’interno di un determinato contesto culturale medio-alto, quello degli studenti universitari di lettere classiche di Cambridge, dei loro interessi letterari e della posizione politica che emerge da questi ultimi. Tale contestualizzazione del testo è importante soprattutto alla luce del capitolo successivo, quando questo contesto sarà messo in relazione (e/o in contrasto) con il contesto politico più generale dell’Inghilterra dell’ultimo periodo elisabettiano e dei primi anni del regno di Giacomo. Gli elementi che citerò di seguito potrebbero potenzialmente puntare a un utilizzo politico, in chiave ‘sovversiva’, del testo stesso, in un’epoca dove iniziavano ad accumularsi le tensioni che, nel giro di una cinquantina d’anni, avrebbero portato alla guerra civile e dove la censura esercitata dal nuovo re (Giacomo) operava un controllo molto stretto su quanto veniva stampato.

Il primo elemento da considerare è il nome che si ritrova sul primo foglio, nell’angolo destro in alto, del manoscritto, e che è l’unico altro dato a noi disponibile per azzardare un’identificazione: Edmund Hills. Nei registri dell’università di Cambridge, questo nome è associato a quello di uno studente che, dopo avere iniziato gli studi a Oxford, alla Madgalen Hall, nel 1610 (a quindici anni), si è poi trasferito nell’altra università, e lì ha conseguito una laurea in antichità classica nel 1616.325

Nessun’altra notizia è nota di lui in seguito, così come nessun altro testo di sua mano ci è stato conservato. Non è quindi possibile dire che l’autore del manoscritto sia questo Hills, il quale potrebbe essere stato semplicemente il suo ultimo proprietario; è comunque vero che, come notava sempre Bradner, la scrittura della prima pagina del testo sembra essere effettivamente molto simile a quella della firma di Hills nell’alto della pagina (fig. 1). Pur non costituendo una prova definitiva, questo quantomeno ci apre alla possibilità che in questo Hills sia possibile riconoscere l’autore, e questo, unito a un’altra caratteristica rintracciabile nella prima pagina, ci consente di abbozzare un’ipotesi riguardante la natura di questo testo.

324 Questa sezione del lavoro deve molto alla collaborazione della dottoressa Elisabeth Leedham-Green, archivista al

Green College di Cambridge, che ha gentilmente accettato di mettermi a disposizione la sua esperienza per la lettura del manoscritto.

176 Fig. 1.

Mi riferisco al fatto, da me già citato, che sopra la prima riga del testo inglese si ritrovi sovrascritta la prima frase del testo greco, in un modo che pare suggerire un tentativo, da parte dello scrittore, di far coincidere i due testi quasi parola per parola. Una tale operazione sembrerebbe suggerire un utilizzo del testo da parte dell’autore come esercizio o di traduzione, oppure di comprensione, del testo greco. La prospettiva cambia a seconda che riconosciamo in Hills il traduttore originale, o un suo ricevitore, che sta utilizzando l’inglese per comprendere il testo greco. La calligrafia del testo greco è effettivamente molto simile a quella della firma di Hills in questa pagina, così che questa seconda ipotesi parrebbe più probabile; resta però il fatto che questa prima frase è l’unica volta in tutto il testo in cui questa operazione viene compiuta in maniera estesa.326 Il resto del

testo presenta quasi nessuna correzione, il che sembrerebbe suggerire che, o Hills ha trovato un altro supporto su cui scrivere le sue osservazioni rispetto al testo greco, oppure nello scrivere il resto della traduzione si era sentito relativamente sicuro della sua traduzione. Le ipotesi restano entrambe aperte, e personalmente non credo abbiamo abbastanza elementi per proporre una soluzione definitiva.

Vi è però un altro elemento da considerare: la calligrafia, e lo stile di scrittura, del testo, presenta notevoli inconsistenze nel corso della scrittura, che sembrerebbero suggerire la presenza di più mani al lavoro sullo stesso testo. La cosa risulta evidente se confrontiamo la scrittura della pagina iniziale con quella della parte centrale del manoscritto (fig. 2).

326 L’unica altra volta in cui questo avviene è nel f. 42r, dove la parola greca κόλυτικὰ si ritrova scritta al di sopra della

177 Fig. 2.

Numerosi i punti in cui questo stile di scrittura differisce da quello di inizio testo. Gli spazi bianchi fra le righe sono molto aumentati, consentendo al testo di espandersi con più fluidità sulla pagina, senza essere costretto tutto assieme all’interno della pagina, come all’inizio. Le estremità delle lettere lunghe, come le s e le y, sono più corte e meno disegnate, e puntano invece verso uno stile di scrittura più severa, con meno orpelli. L’inchiostro stesso è meno scuro rispetto a quello iniziale, differenza che può essere dovuta a una diversa condizione della penna da parte dell’autore, ma anche all’uso di una penna diversa da parte di più persone. C’è anche una cura più attenta alle lettere maiuscole all’inizio delle frasi, al contrario che nella pagina iniziale dove, anche dopo i punti, le prime lettere continuano a restare in minuscola. In poche parole, lo stile con cui è scritta la parte centrale del manoscritto sembra essere più controllata, sicura e ponderata rispetto allo stile iniziale del testo, che sembra invece più raffazzonato.

Questa differenza fra l’inizio e la fine del manoscritto si presenta anche come il risultato ibrido fra due stili di scrittura praticati tra la fine del XVI e l’inizio del XVII: la “secretary hand” (il cui nome deriva dal suo uso originale nelle cancellerie, ma poi diventata una sorta di scrittura franca dei manoscritti inglesi del periodo) e l’“italic”, ovvero uno stile più raffinato ispirato allo stile di scrittura degli umanisti italiani. Tratti tipici del primo stile, come la doppia ll intrecciata e la s corta dopo la t o in doppia s, sono rintracciabili lungo l’intero arco testuale, anche nei punti dove il testo sembrerebbe vertere verso il secondo stile di scrittura. Tuttavia, nella parte centrale del manoscritto la calligrafia del testo sembra virare decisamente verso la scrittura più elegante e controllata tipica dell’“italic”, di cui adotta alcuni tratti distintivi quali la mancanza delle estremità arricciate, le vocali più ampie, il tratto più largo nella scrittura con spazi bianchi di maggior rilievo. L’impressione è quella di un tentativo, forse da parte dell’autore del testo, di alzare lo stile della traduzione, aiutato forse anche da

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una maggiore calma derivante dal procedere della traduzione e dalla maggiore confidenza da lui sentita nel riscrivere il testo greco.

Confidenza che sembra però sparire nell’ultima parte del testo, almeno a giudicare dallo stile di scrittura delle pagine finali (fig. 3), dove ulteriori cambiamenti intervengono.

Fig. 3.

Vediamo qui che le righe di separazione tornano a essere molto strette, così che di nuovo il testo sembra essere costretto nella pagina. Anche i margini di pagina sono cambiati: quello di sinistra si è molto allargato, mentre quello di destra si è ristretto, producendo quasi un effetto di ‘schiacciamento’ del testo sulla parte destra del foglio. Tornano qui le estremità arzigogolate e sviluppate delle lettere g, y, k, anche se stavolta in forma meno sviluppata rispetto all’inizio del testo. Le vociali contemporaneamente tornano a essere più schiacciate, strette tra le righe. Il risultato è uno stile che, pur non essendo quello dell’inizio del testo, condivide con quest’ultimo molti punti in comune, e al tempo stesso mantiene almeno una porzione dello stile più ampio della parte centrale del testo.

Da un lato, tali inconsistenze non sembrano costituire una prova definitiva della presenza della mano di più autori, anche per mancanza di altri testi con cui operare un confronto. È infatti possibile pensare all’opera di un solo autore, Hills o altri, molto giovane, che dopo aver iniziato la traduzione in uno stato di ansia da prestazione, abbia poi acquisito maggior fiducia man mano andava avanti e che poi, verso la fine del testo, si sia di nuovo affrettato a terminare la traduzione nello spazio che gli restava. La mancanza di tre pagine alla fine, strappate dal quaderno, potrebbe essere un’ulteriore conferma che l’autore, una volta riuscito a finire il testo prima dei fogli a disposizione, abbia poi voluto disfarsi delle pagine in più semplicemente buttandole via.

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Vi è però un’altra possibilità, ovvero quella di più autori che hanno collaborato al testo, e nel farlo hanno cercato, per quanto possibile, di scrivere in uno stile più o meno uniforme. Questo spiegherebbe per quale motivo lo stile di scrittura, nonostante i consistenti elementi che rimangono invariati, cambi così tanto dall’inizio alla fine del testo: si tratta della presenza di più mani, impegnate in un progetto comune. Tale ipotesi apre peraltro uno squarcio interessante, perché, se il testo è un lavoro collettivo, allora dobbiamo presumere la presenza di un vero e proprio gruppo di studenti interessato a tradurre un testo come lo Ierone – la cui particolarità come testo sul potere assoluto di un monarca/tiranno, e il modo in cui possa essere rivolto al bene dello Stato, abbiamo avuto modo di vedere nel corso del primo capitolo di questa parte. Anche accettassimo l’idea di un solo autore, questo interesse continuerebbe a essere significativo, specialmente tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, quando l’Inghilterra iniziava ad affrontare la prospettiva molto concreta del governo di un re la cui fede politica assolutista era stavolta dichiarata ed evidente.

Ed è questo, a mio parere, il punto interessante che emerge dall’analisi del manoscritto. Sia che si tratti di un lavoro collettivo, sia che si tratti di un lavoro individuale, siamo comunque di fronte al fatto che uno studente di lettere classiche, o più studenti, abbiano sentito il bisogno di tradurre per la prima volta in inglese un testo che, nella tradizione culturale umanistica, era profondamente collegato a una posizione critica, o di riconsiderazione, del potere assoluto nelle mani di una persona sola. Tutti i dati del testo, così come il suo ambiente, puntano a indicare degli autori di livello culturale comunque medio-alto, che almeno in un punto del testo hanno cercato di scrivere con uno stile ‘elevato’, come solo personaggi dotati di un certo livello culturale avrebbero pensato. D’altra parte, è pur sempre vero che l’unico personaggio cui possiamo riferire questo testo, se non come suo autore almeno come suo ultimo proprietario, è uno studente che si laurea in Lettere Classiche proprio l’anno della morte di Shakespeare, e che prima di laurearsi a Cambridge è passato a Oxford, in circoli universitari dove ormai lo studio del greco era ben affermato, un secolo dopo i primi sforzi dei

graeculi, e i cui appartenenti già da tempo avevano una tradizione di profondo interesse e intervento

in ambito politico e culturale (ricordo il caso di Thomas Preston, che abbiamo visto nel precedente capitolo). Che un uomo del genere scriva, o erediti dimostrandosene interessato, un testo che affronta i problemi del potere assoluto e del suo rapporto con lo Stato, è una coincidenza interessante, specie nel contesto storico che analizzeremo nel prossimo capitolo, dominato dalla figura di Giacomo VI e dal suo assolutismo incombente.