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3.1 La cittadinanza

Dopo aver cercato di inquadrare giuridicamente il protagonista soggettivo di questo elaborato, esaminando quella che è la condizione giuridica, appunto, del minore straniero nel nostro ordinamento e su un piano sovranazionale, dobbiamo adesso addentrarci nel cuore di questo lavoro e cioè approfondire proprio quale sia il rapporto tra i minori stranieri e il tema della cittadinanza in Italia.

Quando si decide di affrontare un tema come quello della cittadinanza, ci si deve subito rendere conto della portata “universale” di tale concetto126 e che per tale motivo investe

in maniera trasversale tutti gli ambiti del sapere. Oltre alle diverse angolature riferibili a questo tema, vi sono poi i diversi momenti storici e i diversi ambiti sociali e territoriali, che risultano essere fattori distinti, ma tutti ugualmente incidenti sul concetto stesso.

È significativo però, al fine di comprendere meglio la situazione attuale, mettere in luce quelli che sono stati i modelli di riferimento storicamente verificatisi rispetto al concetto di cittadinanza e quindi quelle che sono state le

126 Grosso E., Le vie della cittadinanza, le grandi radici i modelli storici di

66 sfumature che hanno assunto, le differenziazioni più rilevanti

e le radici comuni.

Un giurista della portata di Santi Romano definiva la cittadinanza come “una condizione giuridica di contenuto variabile, che non può né determinarsi a priori, né scomporsi interamente in singoli diritti e doveri, da ciò la difficoltà della sua definizione”.127 La difficoltà nel sintetizzare e definire un

concetto come questo, è dovuta anche, evidentemente, al continuo mutare del suo contenuto, che è strettamente legato al continuo evolvere anche di un certo sentire, sia da un punto di vista sociale, che culturale e quindi giuridico.

Il tentativo che si vuole fare, è proprio quello di un “discorso della cittadinanza”, che si ponga quindi come un’analisi dei modelli principali, ma tenendo sempre presente la grande complessità ed interdisciplinarietà del tema.128

Il termine cittadinanza deriva dal latino civitas, sostantivo astratto a sua volta derivante dal termine civis e cioè “cittadino”129. È infatti, proprio dalla “città”, che parte la mia

analisi, come l’archetipo organizzativo delle società precedenti alla costituzione dello Stato in senso moderno.

Il punto di partenza di questo excursus si rinviene negli scritti di Aristotele, in particolare nella sua Politica130, dove egli

127 Romano S., Il diritto pubblico italiano, Giuffrè, Milano 1988, pag.66.

128 Costa P., Cittadinanza, Editori Laterza, Bari 2009 pag. 6.

129 In latino civitas indica sia, concretamente, la comunità dei cittadini,

degli individui che abitano nella città, sia, in astratto, la condizione qualificante del civis.

130 Con il Libro III, nei capitoli tra il primo e il quinto, si entra nella parte

centrale dell'opera e si dà una definizione di “cittadino”. Aristotele definisce la costituzione, politeìa, come “una determinata organizzazione di persone abitanti lo stato” e il cittadino come “colui che può accedere alle attività di governo o di giudice nella città”. Esclude poi da quest’ultima definizione gli schiavi, i meteci, i giovani non ancora maggiorenni e le donne. Aristotele suddivide le funzioni di governo a tempo determinato (come gli arconti) da quelle a tempo indefinito (come

67 parte proprio dall’esperienza della politeìa greca, per

sviluppare un’idea di cittadinanza in una dimensione fortemente partecipativa. Quella che ci descrive Aristotele è una comunità di cittadini, che in quanto tali, in maniera libera ed eguale partecipano attivamente alla vita politica della città. Tale ordine poggia però su una struttura gerarchica della società, dove sono invece nette le disuguaglianze fra le diverse classi di appartenenza. Ecco che il paradigma partecipativo, si scontra con uno schema fortemente diseguale, dove gli individui che non sono liberi di per sé e che quindi sono, ad esempio, schiavi o donne, non accedono in alcun modo alla cittadinanza declinata come la virtuosa partecipazione alla vita della città. 131

In questo disegno, la pòlis, si presta a divenire un contenitore capace sì, di includere, ma che per sua stessa identità, esclude al suo interno, dato che certi individui che fisicamente la compongono, non vi appartengono, non accedono all’essere “cittadino”. 132

i membri dell'assemblea popolare): cittadino è chi svolge questo secondo tipo di mansioni, i quali deliberano sugli affari della città, ma propriamente non governano.

131 Costa P., Cittadinanza, Bari, Editori Laterza 2009 pag.9-11.

132Aristotele, Politica, cap. III: “E tuttavia si tiene in pregio la capacità di

comandare e di obbedire e <par> che sia virtù del cittadino rispettabile un'adeguata capacità a ben comandare e ad obbedire. Ora se ammettiamo che virtù dell'uomo buono è quella del comando, e virtù del cittadino entrambe, le due virtù non saranno egualmente pregiate. E poiché si ritiene talora che comandante e comandato debbano apprendere cose diverse e non le stesse e che il cittadino deve conoscerle e averle entrambe, si può capire quel che segue. C'è il comando padronale: diciamo che sua materia sono i lavori necessari per la casa: non è indispensabile che il padrone sappia farli, ma piuttosto impiegarli a proprio uso. L'altro è servile e per 'l'altro 'intendo la capacità di sbrigare i mestieri servili. Distinguiamo vari tipi di schiavi giacché varie sono le faccende da compiersi. Una parte ne sbrigano i manovali: costoro, come indica da sé la parola, sono quelli che vivono col lavoro delle mani: rientra in questi l'operaio meccanico. Per tale motivo, un tempo, presso alcuni popoli, i lavoratori non erano ammessi alle cariche, prima che si sviluppasse la democrazia nella forma più spinta. I lavori di questi,

68 In tal senso, oltre a questa differenziazione che potremmo

definire interna, tra coloro che sono uomini liberi e chi vive una condizione di schiavitù e quindi non partecipa in alcun modo alla vita della politica della città, vi sono importanti distinzioni da fare verso l’esterno, prendendo sempre la pòlis come riferimento. Il cittadino Greco si distingue, infatti, dai cittadini Greci provenienti da altre città, su un piano puramente politico, poiché vi è “un’appartenenza ad un’organizzazione più o meno omologa”133, ma si distingue

anche e soprattutto da coloro che definisce “barbari”, i quali rappresentano invece “la negazione, l’esatto contrario”134; si

tratta in questo caso, di una contrapposizione su un piano culturale.

Ne deriva un concetto di cittadinanza che si alimenta grazie a queste stesse contrapposizioni: da un lato la schiavitù è strumentale all’esercizio della politica in un senso pratico, dall’altro il dovere preminente del cittadino libero di combattere il nemico barbaro, che una volta vinto, diviene anch’egli schiavo sottomesso. È quindi evidente come le donne e i fanciulli fossero esclusi dalla cittadinanza, quest’ultimi eventualmente la ottenevano, se e in quanto maschi, al momento dell’utilizzo delle armi.135

soggetti a tale forma di comando, non li deve apprendere il bravo uomo di stato né il bravo cittadino, se non per il suo esclusivo uso privato, occasionalmente, perché in tal caso non c'è più da una parte il padrone, dall'altra lo schiavo.”

133 Così Moggi M., Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in Lo

straniero, ovvero l’identità culturale a confronto, op. cit. pag. 53.

134 Ibidem.

135 Brook Manville, The origins of Citizenship, cit. pag. 13: “Ai fanciulli

maschi era riservata una posizione giuridica simile a quella delle donne: fino alla maggiore età erano affidati normalmente al padre che ne rappresentava l’identità legale nella polis”.

69 In tal senso ci perviene, dall’età classica, un concetto di

cittadinanza svincolato dall’appartenenza etnica al popolo della città e altresì dall’appartenenza ad un ordine giuridico preciso, bensì completamente aderente all’idea di partecipazione politica alla vita della pòlis ed è infatti grazie ad essa, che derivavano come suo corollario, una serie di situazioni giuridiche strettamente legate alla sfera pubblica.136

Se ne ricava, quindi, una forma di cittadinanza che non è improntata sull’individuo appartenente ad una comunità etnica o che risponde di un legame biunivoco e verticale tra lui e le autorità, ma piuttosto, un’idea di sfera pubblica che predomina il singolo, il quale non esiste se non in funzione della cosa pubblica stessa e che quindi non divide gli aspetti civili e gli aspetti politici, ma che vive unitariamente tali aspetti. Ovviamente si era sviluppato un naturale senso di comunanza culturale dei Greci rispetto ai nemici Barbari, ma non è l’appartenenza etnica ad un popolo a far discendere il godimento della cittadinanza, “tale sentimento di appartenenza a un popolo non si trasforma mai in strutture giuridiche che ne precisino il contenuto e che attribuiscano alla grecità un vero e proprio carattere nazionale”.137

La civiltà romana, invece, ribalta completamente questo schema, elaborando per prima il concetto di status, come vedremo meglio, con la conseguenza che anche la cittadinanza muta il suo contenuto e si traduce in un fascio di

136 Grosso E., Le vie della cittadinanza, cit. pag. 57-58: “Soltanto i cittadini

possono avere accesso alla proprietà terriera, la quale sembrerebbe rappresentare quasi un nesso di unione fisica e materiale del cittadino al suolo della città: la pòlis esiste in quanto vi sono i suoi cittadini, che ne possiedono la terra (…) L’attribuzione della proprietà fondiaria ai soli cittadini non ha tuttavia l’esclusiva funzione di rappresentare un nesso di ideale unione fra il territorio e la comunità. Essa è vista, in termini assai più pratici, come lo strumento economico necessario a consentire che i cittadini si dedichino con sufficiente continuità e impegno all’esercizio dell’attività politica.”

70 situazioni giuridiche soggettive che l’autorità riconosce

all’individuo.

Ecco che la civitas per i romani, non è più una relazione di tipo orizzontale che si identifica nel riconoscimento di una soggettività politica, ma bensì è il fondamento di un rapporto verticale basato proprio sullo status stesso che rappresenta. 138 Lo status civitatis non trae dall’esercizio dei diritti politici il suo elemento più pregnante, poiché a differenza di ciò che valeva per le istituzioni greche prima descritte, l’individuo non è tale attraverso la partecipazione alla sfera pubblica ed in particolare all’esercizio appunto di questi diritti politici, ma è il possesso degli iura privata e di altre garanzie che gli vengono riservate, le quali divengono la struttura stessa della sua soggettività giuridica.139

È chiaro che parlare di un unico modello di riferimento intorno all’idea di cittadinanza rispetto alla civiltà Romana, è una semplificazione enorme, soprattutto in riferimento alle diverse fasi che si sono verificate storicamente: dall’età arcaica, a quella repubblicana, al principato e fino al tardo impero e con tutto ciò che ogni fase ha significato da un punto di vista sociale, culturale e quindi giuridico.

In tal senso è importante sottolineare il passaggio, che viene attuato con i Romani, nell’individuare la capacità giuridica come la conseguenza del riconoscimento di uno status preciso, il quale viene efficacemente definito da Betti come “la speciale posizione giuridica che la persona assume, per una necessità superiore al suo interesse e indipendentemente dal suo volere, rispetto a una comunità di persone organizzata ad ordine giuridico, della quale fa parte”.140

138 Ivi, pag. 134.

71 Gli individui erano quindi individuati attraverso le due

principali strutture di riferimento della società romana: lo status familiae e il loro status civitatis, dove quest’ultimo era la condizione per essere quindi un soggetto con capacità giuridica.141 Ecco che i cives romani si distinguevano dagli

stranieri peregrini proprio in ragione dello ius civile al quale accedevano grazie allo status civitatis stesso, anche se progressivamente anche gli stranieri conquistarono diritti importanti, è chiaro però fin dalle origini che la cittadinanza romana classificava gli individui, escludendone gli stranieri dall’accesso ai diritti romani stessi e creava una soggezione di tipo verticale dei cittadini romani all’ordinamento giuridico romano.142

La civitas diviene quindi lo status capace, nel tempo, di assicurare l’uguaglianza dei cittadini romani di fronte alla legge: celebre è la conquista dei cittadini romani dell’istituto della provocatio ad populum che diviene lo strumento estremo per limitare l’imperium dei magistrati.143 È anche in una serie

di garanzie giurisdizionali che si sostanzia il contenuto stesso

140 Betti E., Istituzioni di diritto romano, op. cit. 38.

141 Ivi, pag. 40 “La libertas non è uno status nel senso di posizione giuridica

della persona rispetto a una comunità giuridicamente organizzata. Chi è libero è necessariamente cittadino di uno Stato o suddito di Roma; e la sua posizione giuridica e la protezione a lui accordata dipendono non dal fatto ch’egli è libero, ma dal suo status civitatis”; si pone invece con una tesi opposta Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, Jovene 1949, pag. 48 e ss. che invece riconosce autonomia allo status libertatis.

142 Nicolet C., Citoyennetè française et citoyennetè romaine, pag. 167.

143 Cicerone, Le orazioni, cit. vol. 1 pag. 1277 e ss. ci riporta l’episodio di

Gavio, il quale pur essendo cittadino romano, venne denudato e picchiato in piazza dopo essere stato portato fuori di prigione: “O dolce nome della libertà! O bel privilegio dei nostri cittadini! O legge Porcia e leggi Sempronie! O potere dei tribuni fortemente rimpianto e finalmente restituito alla plebe romana! Tutte queste garanzie dovettero dunque scadere fino al punto che un cittadino romano, in una provincia romana, in una città federata, venne legato e fatto fustigare da colui al quale il popolo aveva concesso l’onore dei fasci e delle scuri? Hai tu avuto il coraggio di far mettere in croce uno che si proclamava in possesso della cittadinanza romana?”.

72 della cittadinanza romana. insieme allo ius civile, oltre che a

tutta una serie di privilegi economici, fiscali e sociali.

Sarà però con i mutamenti politici che si verificheranno nell’età imperiale che i privilegi connessi con la cittadinanza si assottiglieranno. In particolare con la celebre Contitutio Antoniniana144, si avrà l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti, o quasi, dell’Impero. Questo comporterà lo svuotamento dello status civitatis, che potremmo definire classico, in favore di un cosmopolitismo che non vedrà più differenze tra cittadini e stranieri, i quali solo apparentemente sembreranno acquisire qualcosa. In realtà questo nuovo status civitatis universale appare più come un comune e indistinto assoggettamento all’impero. Si costituisce sempre di più un regime politico di tipo assoluto, che verrà poi integrato dalla costituzione di Caracalla, prima, e dalle Istituzioni di Giustiniano dopo, e lo status di cittadino diverrà parzialmente svuotato e trasformato in una condizione di sostanziale dipendenza dall’imperatore. La libertas che nell’età repubblicana era figlia dello stesso status civitatis, diventa passività, diventa soggezione.145

L’elemento politico, che era predominante nell’idea greca riguardo al concetto di cittadinanza, era venuto meno con l’elaborazione dello status romano, come abbiamo visto, in favore di una cittadinanza come conseguenza di questo status stesso. Il tramonto tardo imperiale della civiltà romana cambierà nuovamente il contenuto dello status civitatis e lascerà in eredità al Medioevo uno status svuotato dalle conquiste in termini di situazioni giuridiche attive che aveva

144 Risalente al 212 D.C.

145 Gaudemet J., Les Romains et les autres, cit. 9:” Dopo la costituzione

Antoniniana, la qualità di civis ha perduto molto del suo valore. Dal punto di vista affettivo, essa non è più in grado il titolo prestigioso del popolo dominante. I provinciali, i vinti di ieri, vi hanno avuto globalmente accesso.”

73 fatto e che, nel viaggio che condurrà fino alle soglie della

modernità, vivrà anche momenti particolarmente bui.

Con ciò nel parlare del Medioevo, che individua un ampissimo lasso temporale con al suo interno più fasi e diverse anime, non voglio ridurre il discorso al solo momento del feudalesimo e quindi ad un’idea di cittadinanza in termini di sudditanza, anche se questa è stata molto diffusa specie nell’Alto Medioevo.

In tal senso è interessante l’utilizzo che Pietro Costa fa della “metafora corporatista” per spiegare quella che era la gerarchia del mondo medievale, infatti egli afferma che: “La differenziazione dei soggetti e la gerarchizzazione delle parti sono strutture portanti tanto della società quanto della cultura medievale. Il rapporto dei soggetti con la civitas non è un’eccezione alla regola: è un rapporto che presuppone e valorizza la differenziazione delle componenti e l’indiscussa preminenza di una pars principans. Prende però campo nella rappresentazione della civitas un’antica metafora: la metafora del corpo, che induce a pensare la comunità come un corpo vivente. La civitas è un corpo vivente; e il corpo ha alcune caratteristiche fondamentali: è composto di parti nobili-la testa, il cuore-che devono comandare e di parti meno nobili- le mani, i piedi- che devono obbedire.”146

La metafora del corpo mi sembra davvero calzante nell’esaltare sia la struttura gerarchica della società medievale, ma anche allo stesso tempo, della sua unità, dell’importanza di appartenere ad un corpo e quindi della complementarietà stessa fra le parti e l’insieme. Ecco che fare parte di una civitas dà identità all’individuo stesso, seppure in un punto preciso di una scala di gerarchie stabilite. Le mura delle città medievali ci consegnano un’idea precisa di quello

74 che si sviluppa come l’arroccamento culturale per eccellenza,

ma anche della chiusura rispetto a tutto ciò che resta “fuori” e che quindi è diverso e pericoloso in qualche misura, poiché rappresenta una minaccia all’ordine interno.147

Durante il feudalesimo, quindi, in quello che è un potere pubblico suddiviso in modo personalistico tra i vari signori e vassalli, non si può certo parlare di uno status civitatis, ogni individuo possiede oneri e onori relativamente al suo ceto di appartenenza, la popolazione intesa come plebe, si trova semplicemente in un rapporto di soggezione rispetto al suo signore di riferimento.148

Sarà fondamentale, per la formazione di uno Stato moderno, l’opera di Jean Bodin, risalente al sedicesimo secolo. In particolare l’opera di riferimento sono i suoi Les sixes livres de la Rèpublique 149, dove la sua riflessione riuscirà a porre la basi verso l’idea di un potere forte e centrale, abbandonando progressivamente le varie istituzioni medievali tra cui le città, i ceti, la chiesa e le corporazioni.150

È proprio questo il tratto essenziale del pensiero bodiniano, quello di aver dato alla nozione di sovranità un significato preciso e nuovo, che è stato in grado di interpretare i mutamenti che stavano avvenendo nella società medievale. Bodin definisce la sovranità come “puissance absolue et perpetuelle d’une République”151 ed è proprio nei concetti di

“assoluto” e “perpetuo”, che si racchiude il salto di qualità

147 Ivi, pag. 19.

148 Grosso E., Le vie della cittadinanza, pag. 144.

149 Pubblicato in Francia nel 1576.

150 Tarello G., Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e

codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna 1976, pag. 48.

75 rispetto all’impostazione feudale del potere, personalistica e

frammentata. Bodin riesce a cogliere il profondo mutamento dell’ordine politico e sociale che condurrà poi alla formazione dello Stato in senso moderno, proprio perché coglie nell’evoluzione della cittadinanza, l’insufficiente rapporto di interdipendenza tra il soggetto e la città, tipico dello schema feudale.

La frammentarietà di istituzioni e di privilegi e di rapporti non riescono più a dare una connotazione precisa dell’essere cittadino, l’elemento identificativo è rappresentato dalla sudditanza al sovrano, indipendentemente dai rapporti vassallatici, i quali comunque permangono. L’appartenenza del citoyen si individua quindi nella matrice comune dell’esistenza di un nuovo ordine fondato su un rapporto di comando-obbedienza tra l’individuo e il sovrano.152

È interessante come lo stesso Bodin, nella sua riflessione sulla centralità e assolutezza del potere sovrano, parta dall’istituzione della famiglia153 per poi arrivare all’idea di

Stato, sottolineando come siano entrambe costituite da soggetti che comandano e soggetti che obbediscono e come quindi per l’autore ogni possibile relazione sociale si costituisca in modo verticale e potestativo.154

Ne deriva un’idea di cittadinanza svincolata dai rapporti orizzontali tra i vari individui, tipica della politeìa greca, ma bensì fondata su relazioni di tipo verticale tra chi ha il potere

152 Costa P., La cittadinanza, pag. 24.

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