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I mulini di Firenze tra il XIII e XIV secolo.

XII e il XIV secolo.

8. I mulini a Firenze, Bologna e nei Comuni lombardi.

8.1. I mulini di Firenze tra il XIII e XIV secolo.

Gli studi sulle città dell’Italia centrosettentrionale hanno messo in evidenza lo stretto rapporto tra lo sviluppo di alcune aree urbane e la volontà di diverse città comunali di edificare impianti idraulici. A partire dalla fine del Duecento le città detenevano ingenti capitali che in parte destinati all’acquisizione dei diritti d’uso delle acque e, in seguito all’edificazione dei mulini. La dimensione delle strutture, come il loro livello produttivo, crebbe notevolmente sotto la spinta cittadina. Già dalla fine del XII secolo e soprattutto nel XIII, in gran parte delle città dell’Italia centro settentrionale è possibile identificare i primi tentativi da parte dei Comuni di acquisire terre e diritti sui fiumi, con l’intenzione di impiegare l’acqua sia a scopo di difesa e per il trasporto di merci, lo smaltimento delle acque nere e come forza motrice. Il primo passo per crearsi una certa autonomia in campo di approvvigionamento idrico fu quello di acquisire, nel corso del Duecento, i diritti d’uso delle acque spesso vincolati per i fiumi da concessioni imperiali e inizialmente detenuti da vescovi ed enti ecclesiastici. Infatti, dopo la pace di Costanza i diritti sulle acque e sui mulini non erano più di pertinenza regia ma comunale. I comuni si attivarono ben presto nel fare diversi tipi di opere e investimenti sulle acque: lavori di manutenzione e costruzione di canali, manutenzione e costruzione di ponti, controllo del letto dei fiumi ed espropriarono e acquistarono diversi mulini dentro e attorno alle città di proprietà di enti religiosi.

La storia dei mulini idraulici fiorentini non si discosta molto dalle linee di sviluppo e di affermazione che caratterizzarono il processo di acquisizione e affermazione fino ad ora descritto. Nel XIII secolo intorno alla città furono costruite una serie consistente di strutture, per lo più mulini natanti, la cui proprietà era concentrata, come

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frequentemente accadeva (a Bologna, Reggio Emilia, Padova, Venezia, Milano), nelle mani di enti ecclesiastici e di alcuni ricchi proprietari laici.

Firenze sorge in un punto leggermente rialzato della piana, in origine circondato da acquitrini formatisi per effetto dello svuotamento del bacino a causa dell’azione erosiva dell’emissario presso la stretta della Gonfolina. In età antica e medievale il corso dell’Arno, innalzato per il costante deposito di detriti, si presentava articolato da più canali intrecciati, isole e secche sabbiose, doppi alvei, meandri e terre impaludate165. Nonostante l’instabilità del suo carattere torrentizio, il fiume aveva da sempre attratto intorno alle proprie rive numerosi gruppi di persone, che vi praticavano la pesca e l’agricoltura e ne sfruttavano la forza motrice. Il delicato equilibrio fra attività umana e potenza del fiume fu via via alterato dalla realizzazione di sbarramenti per convogliare la corrente verso mulini, da ponti per facilitare il collegamento fra le rive e la prosecuzione di importanti strade, di argini per proteggere i manufatti dalle esondazioni e per restringere l’alveo. Tali riduzioni e interruzioni del flusso della corrente provocavano l’aumento della pressione idrica, l’innalzamento del fondo e pericolosi punti di accumulo di detriti e legna.

Nel 1250 la piena travolse mulini galleggianti e traghetti. Questo dimostra un grande sfruttamento dell’alveo a fini produttivi in un momento di espansione economica.

Le continue inondazioni, causate dal regime torrentizio e stagionale dell’Arno, e l’idromorfologia del bacino del fiume nel tratto cittadino dovettero favorire la collocazione delle strutture nei pressi dei ponti e ai margini della città. Un primo nucleo di opifici dovette essere concentrato tra la foce del Mugnone e il ponte alla Carraia, identificabile in quel gruppo di mulini di proprietà della congregazione degli Umiliati detti di Santa Lucia Ognissanti e collocati sulla riva destra dell’Arno. Dalla parte opposta dovevano esserci nel Duecento altri opifici in borgo San Frediano, appartenenti anch’essi alla medesima congregazione. L’azione del Comune fu da subito rivolta all’acquisizione

165 G. Papaccio, I mulini del Comune di Firenze: uso e gestione nella città

trecentesca, in La città e il fiume, (Secoli XIII-XIX), a cura di M. Travaglini, Roma 2008

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di questi due nuclei produttivi, collocati in una zona strategica, ai margini della città e nei pressi di un ponte. La politica comunale passò dalla semplice gestione delle strutture al loro acquisto nel corso Trecento, quando si registrano in quest’area sette mulini natanti e un porto.

La presenza a Firenze anche di proprietari laici di mulini è dimostrata nel XIII secolo. Infatti, un documento del 1290 testimonia una lite nata per l’impiego delle acque sulla riva destra del fiume tra il Castello di Altafronte, presso cui vi era il porto omonimo, e il Ponte di Rubaconte (l’attuale ponte alle Grazie) tra la famiglia Bagnesi e il Comune di Firenze. Dalla fine del Duecento la riva sinistra dell’Arno era per lo più controllata dalla Congregazione degli Umiliati166.

Gli opifici idraulici nel Duecento a Firenze erano di tre specie. Alcuni in legno sospesi sul fiume, ma costruiti lungo il greto (molendinum pendulum), altri erano galleggianti ancorati alle rive (molendinum in navibus), entrambi con ruota verticale. Eistevano poi i cosidetti mulini terranei o “terragni”, quelli con ruota orizzontale e edificati sulle sponde.

Altri due gruppi di mulini, fin dalla fine del Duecento, si possono identificare lungo il fiume: uno nei pressi del Corso dei Tintori, sulla riva destra dell’Arno e l’altro sulla sponda opposta, servito dalla stessa pescaia, nei pressi di porta San Niccolò, dove si hanno le prime attestazioni documentarie dell’impiego di mulini orbici (1329-1330 due mulini). Già documentati in ambito urbano nel 1282 per il popolo di Santa Maria Sopr’Arno, queste strutture, studiate dal Müendel, si possono identificare con opifici a ruota verticale per di sotto, il cui impiego rappresenta il primo tentativo indirizzato al migliore sfruttamento dell’energia idraulica per una maggiore produttività.

A partire dal XIV secolo il Comune attuò una politica di progressiva acquisizione di questi opifici, a danno dei proprietari laici ed ecclesiastici. Le autorità provvidero alla solidità delle strutture e alla loro fortificazione per difenderli in caso di assedio. Inoltre il Comune si orientò per una gestione pubblica dei mulini (Statuti 1325) e verso norme di prevenzione come il divieto di realizzare e tenere pescaie e mulini a ridosso a monte

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della città (1330), ma non ebbe la forza di farle rispettare. Le pescaie a valle responsabili dell’innalzamento del letto fluviale rimasero al loro posto. All’inizio di novembre del 1333 Firenze fu colpita da una rovinosa alluvione che uccise diverse persone e distrusse diverse case, ponti e opifici. All’indomani della sciagura, il 12 novembre 1333 fu deliberata una vasta area di rispetto dal ponte della Carraia verso il monte per 2000 braccia e verso valle per 4000 braccia. In questa area venne vietata la costruzione di mulini, pescaie, gualchiere e palizzate.

Il Comune procedette quindi ad un’operazione di concentrazione in grandi edifici in muratura di impianti atti sia alla macinazione del grano che alla gualcatura dei panni, regolati nell’uso delle acque dall’impiego di canalizzazioni e pescaie che venivano costruite e mantenute dal Comune stesso.

L’edificazione nel 1356-57 di una gora che partendo dai mulini di San Niccolò giungeva a quelli collocati presso la chiesa di San Gregorio (vicino al ponte alle Grazie), testimonia l’azione programmatica del Comune, che concentrò forti investimenti allo scopo di valorizzare e proteggere due sole strutture, ciascuna contenente sei ruote e protetta da alti muri merlati. Nel corso del 1377-79 i registri degli ufficiali indicavano la presenza di quattro nuclei produttivi comunali: i mulini di San Gregorio e i mulini di S. Niccolò, collocati sulla riva sinistra dell’Arno, alimentati dalla stessa pescaia e gora, i mulini del Corso, collocati sulla sponda destra del fiume, alimentati da una pescaia collocata a valle rispetto alla prima, probabilmente di più antica origine e i mulini fuporta san Niccolò.

La gestione dei mulini da parte del Comune di Firenze è testimoniata da una registrazione sistematica, per lo più mensile, di tutte le spese effettuate dagli ufficiali dei mulini. Venivano registrati sia i compensi di coloro che lavoravano intorno a queste strutture produttive (mugnai, portareche, capomugnai, fabbri, legnaioli etc.), sia i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria degli opifici e dei loro meccanismi di macinazione. A capo di tutto c’erano i 6 ufficiali dei mulini che rivestivano una carica semestrale e controllavano un gruppo di scrivani incaricati di tenere l’amministrazione del mulino e che ruotavano mensilmente all’interno degli opifici comunali.

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Dai registri di pagamento e di spese degli ufficiali si può in parte delineare quale dovesse essere la manutenzione dei mulini e la loro struttura. Tra le spese frequenti vi era l’acquisto di olio per la lubrificazione degli ingranaggi e per la reactatura della lanterna e del rocchetto, quel meccanismo che rendeva possibile il passaggio da un movimento rotatorio di un asse orizzontale ad uno verticale. Tra le spese straordinarie invece vi era l’acquisto delle macine e la manutenzione delle pescaie e delle gore, che prevedevano l’impiego di un numero consistente di manovali, capomastri, ficcatores, legnaioli e trasportatori di pietre e legname atto all’edificazione delle strutture di canalizzazione.

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8.2. I mulini del Comune di Bologna e dei Comuni lombardi.

A Bologna invece il controllo delle strutture molitorie e di tutte le fasi di commercializzazione del grano e della farina era molto più diretto. A partire dal XII secolo fino al 1288 il Comune di Bologna si distingue per una precisa legislazione in materia che fissa regole e sanzioni.

Si stabilirono, ad esempio, le quote da pagare agli ufficiali della gabella da parte di chi andrà a macinare. Anche i proprietari dei mulini pagavano al Comune una certa somma per ciascun opificio (circa 3 lire secondo il De gabella molendinorum comitatus

Bononiae).

Ai mugnai si ordina di mantenere efficienti e funzionanti i loro esercizi, prevedendo anche una contravvenzione ad arbitrio del Comunei. Soprattutto dovranno custodire e mantenere gli impianti nello stato nel quale erano stati loro consegnati: ogni danno doveva essere restaurato entro tre giorni, non senza avere corrisposto allo stesso Comune la perdita subita per il mancato introito delle gabelle e per la mancata macinazione in quei giorni167.

Il fenomeno che causava le maggiori perdite per le casse comunali era il contrabbando. Attraverso questa pratica si eludevano i pagamenti dei dazi e si riuscivano a vendere importanti quantità di frumento sui mercati esteri per spuntare prezzi più vantaggiosi. Per questo le autorità comunali emanarono una serie di disposizioni che ebbero lo scopo di limitare il fenomeno e di consentire il controllo in un settore di capitale importanza per la sussistenza della popolazione.

ll mugnaio rivestiva il ruolo principale in questo sistema comunale di controllo: non poteva accogliere e macinare nel proprio mulino alcun tipo di granaglie se i sacchi non erano stati preventivamente bollati con l’apposito sigillo degli ufficiali addetti alla pesatura che ne confermasse l’avvenuta operazione: quindi svolgeva un’ulteriore

167G. M. Sperandini, Mulini ad acqua tra Samoggia e Panaro. Editore:

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verifica per non essere lui pure multato. Nella stessa rubrica è contemplata la normativa che regola l’afflusso ai mulini ed il turno spettante a ciascuno: chiunque andrà a macinare, a prescindere dalla quantità, dovrà mantenere l’ordine di arrivo all’impianto, per cui chi primo sarà arrivato per primo macinerà: e ancora una volta il mugnaio cambia ruolo e diventa arbitro.

Nella rubrica LII, De molendinis de novo non construendis, si sottolineava la volontà comunale di non concedere facoltà di costruire nuovi mulini «in flumine Reni vel alio flumine vel aliqua aqua» senza che sia prima stato acquisito il permesso del Consiglio del Comune e del popolo bolognese: 100 lire di contravvenzione per ogni costruzione abusiva e l’abbattimento dell’immobile sono le conseguenze da subirsi dai trasgressori168.

Nella rubrica LIII, De blado non exportando extra comitatum Bononie ad

molendum, si vieta a chiunque di andare fuori dal territorio bolognese per la molitura

di qualsiasi tipo di biada e si fissa la contravvenzione nella cospicua somma di 25 lire e nella perdita degli animali da traino, del carro e della merce, come a dire un deterrente capace di convincere chiunque, specialmente a quei tempi, in cui questi beni potevano costituire l’intera ricchezza di una famiglia169.

Gli Statuti del 1288 evidenziano la ferma volontà di controllare e coordinare tutta l’operazione della molitura, il cui volume di affari stava crescendo grazie allo sviluppo demografico e al gran numero di dazi e gabelle.

Dopo circa un secolo con gli Statuti del 1376 avvenne la riorganizzazione del lavoro di tutti gli operatori addetti al controllo: mugnai, vetturali, pesatori, bollatori. Dapprima valide solo per la città di Bologna, queste norme saranno poi estese anche al contado.

Si stabiliva l’elezione annuale da parte del Consiglio dei 4000 di due officiales seu

suprastantes molendinorum che resteranno in carica sei mesi ciascuno ed il cui compito

168 Sperandini, Mulini ad acqua tra Samoggia e Panaro, cit. p. 16. 169 Sperandini, Mulini ad acqua tra Samoggia e Panaro, cit. p. 17.

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consisteva nella taratura delle stadere e nel controllo di tutti coloro che entravano nell’ingranaggio molitorio, sia come funzionari ed addetti sia come utenti.

Limitatamente alla città, perché nel contado vi provvedono direttamente i contadini, i victurales bladi trasportavano i sacchi di frumento, già pesati, bollati ed affrancati dal dazio, al luogo di macinazione e, ultimata questa, li riportavano alle stadere comunali per il controllo del peso della farina che dovrà rispettare la percentuale calante di 8 libre ogni 100 di frumento. Ognuno di essi era assegnato ad un solo mulino prescelto dagli organi comunali ed incorre nella contravvenzione di cinque lire in caso sia trovato a lavorare per altri170.

Anche questi Statuti ribadivano il divieto di andare a macinare fuori del territorio e di costruire nuovi impianti senza l’assenso degli Anziani. I massari del contado saranno obbligati a denunciare le costruzioni abusive, incorrendo loro stessi nell’ammenda di 100 lire, se inadempienti, mentre i colpevoli ne pagheranno 500. Prevedono inoltre l’innovazione del metodo di riscossione dei dazi sulla macina, che non è più funzione esclusiva degli ufficiali comunali, ma può essere appaltata a privati.

Si calcolava un preventivo dell’entrata ed in base a esso si stabiliva il prezzo iniziale dal quale sarebbe partita l’asta: al miglior offerente sarà concesso l’appalto che normalmente durerà un solo anno, comunque rinnovabile. Il Comune potrà così acquisire entrate nette, non gravate dal peso di salari che il conduttore provvederà a pagare in proprio ai soprastanti, i quali sono incaricati del buon andamento dell’esercizio, insieme al depositario custode della cassa.

La macinatura dei grani era avvertita nelle città dell’Italia comunale e signorile come servizio di interesse pubblico, in cui l’autorità era chiamata a rispondere con efficienza e determinazione.

In Lombardia, tranne alcune eccezioni, non si arriva all’appropriazione diretta degli impianti di macinazione da parte dell’autorità comunale, come avvenne invece in diverse città dell’Emilia, o a Torino in età signorile. Molto spesso nelle città lombarde la proprietà degli impianti molitori rimase in mani private. Il mulino e la macinatura erano

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comunque sottoposti ad una sorta di tutela e gli impianti idraulici divennero luoghi di controllo e di prelievo fiscale.

Negli statuti delle città lombarde non si ha traccia del lungo percorso che porta al controllo dei diritti sulle acque pubbliche. Lo stesso accadde per le acque private, ossia tutti quei corsi d’acqua non navigabili o non determinanti per la navigazione, ovunque considerati pertinenza dei terreni rivieraschi: teoricamente qualunque proprietario ne poteva derivare acqua o modificare il corso, purché fossero salvaguardati i diritti consuetudinari degli altri utenti171. Si può affermare che tanto più il contado fosse ricco d’acqua e il rifornimento per gli usi primari agevole, tanto più scarne fossero le competenze che trovano espressione negli Statuti.

In Lombardia la proprietà dei mulini rimase suddivisa tra una molteplicità di soggetti tra i quali è difficile rintracciare presenze egemoni o protagonisti indiscussi. Neppure il monopolio signorile della macinazione è chiaramente documentato, almeno non lo è nel Milanese, Comasco, Pavese, Cremonese e tanto meno nelle zone prossime alle città, dove i mulini sono più numerosi e la loro presenza è ben documentata.

Anche in questa regione, come già avevamo visto nella Toscana del XII secolo, ordini religiosi come i Cistercensi, i Vallombrosani, Umiliati e Canonici investirono molte risorse nello sfruttare le potenzialità delle acque. Nella “corsa all’acqua” che pervase la Lombardia del XII e XIII secolo, essi si affiancarono così ai tanti imprenditori laici, dei quali purtroppo non sono rimaste negli archivi che scarse tracce172.

In conclusione, essendo numerosi i soggetti che esercitavano attività legate allo sfruttamento dei corsi d’acqua ed essendo numerosissimi sia gli impianti che i corsi d’acqua in Lombardia non si riscontra un controllo così forte da parte dei comuni come avveniva soprattutto in Emilia ma anche in Toscana.

171 L. Chiappa Mauri, Acque e mulini nella Lombardia medievale, Alcune

riflessioni, in I mulini nell’Europa medievale, a cura di Galetti-Racine, Bologna 2003, p.

239.

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Conclusione.

Lo studio dei mulini ad acqua nella Toscana medievale si è rivelato difficile, ma nello stesso tempo molto interessante. Ho cercato di trattare la presenza di impianti molitori in tutta la regione cercando di seguire un ordine geografico e cronologico. Le principali notizie arrivano dagli archivi degli enti religiosi e dagli statuti di alcuni Comuni toscani. Gli studi svolti in passato sui mulini in Toscana non sono numerosi, anche perché la documentazione sull’argomento per il periodo compreso tra XI e XIV secolo è davvero scarsa. La documentazione risulta lacunosa in special modo nella descrizione tecnica dei mulini ad acqua. Neanche l’archeologia medievale aiuta nella ricostruzione della struttura e della collocazione degli impianti molitori. Infatti, gran parte dei mulini non sono arrivati ai giorni nostri e le strutture ancora esistenti hanno subito trasformazioni nel corso dei secoli.

Nella documentazione consultata risultano esigue le notizie sull’importante figura del mugnaio. Dico questo perché il mulino non era soltanto un impianto atto alla trasformazione di cereali e castagne in farina, ma era anche un luogo di incontro. Al suo interno o accanto vi era una abitazione dove alloggiava il mugnaio con la sua famiglia. Presso il mulino si incontravano tutti i protagonisti della società medievale (monaci, artigiani, ufficiali, contadini, signori ecc.) e facilmente si possono immaginare liti, discussioni ma anche la nascita di amicizie o di rapporti d’affari in quelle lunghe ore di attesa durante la macinazione. La gestione dei mulini medievali cambiò la vita della gente, perché fu costretta a consegnare il frutto del proprio lavoro ai mulini dei signori o delle istituzioni cittadine. Il controllo diretto da parte delle istituzioni laiche e religiose su tutti i cereali suscitò non pochi malumori nella popolazione dall’XI secolo fino all’età contemporanea. La stessa figura del mugnaio passò dall’essere un semplice artigiano a quella di controllore per conto delle autorità. Da qui infatti nacquero continui tentativi da parte del popolo e da parte degli stessi mugnai di sfuggire a questo sistema di controllo. Infatti le maggiori preoccupazioni nei diversi statuti cittadini erano le frodi da

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parte dei mugnai, che a volte, attraverso pesature contraffatte derubavano i contadini, o con diversi stratagemmi cercavano di non dichiarare tutte le quantità di prodotto trasformato alle autorità per poter contrabbandare fuori dalla città. Diffusa era anche la mancata macinazione presso gli impianti molitori signorili o comunali dell’intero raccolto da parte dei contadini. Spinti dalla necessità, i contadini spesso macinavano parte della propria produzione clandestinamente in casa eludendo i controlli. Per questo le autorità facevano distruggere le mole domestiche a mano dei contadini, per obbligarli a servirsi del mulino signorile o comunale e pagare la tassa di macinazione.

Durante le ribellioni del Medioevo i luoghi presi di mira erano i mulini e i magazzini di derrate alimentari, perché avvertiti come la causa di ogni male. Molte carestie, infatti, erano causate da speculazioni provocate dalle autorità comunali e non dalle avverse condizioni atmosferiche. La strategia era quella di trattenere il grano nei