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I mulini degli enti ecclesiastici a Calci tra XI e XIII secolo.

territorio toscano medievale.

5. I mulini dei monasteri e degli altri enti ecclesiastici in Toscana tra XI e XIV secolo.

5.1. I mulini degli enti ecclesiastici a Calci tra XI e XIII secolo.

Il territorio di Calci è situato tra le città di Pisa e Lucca ai piedi del Monte Pisano ed è parte della Valgraziosa. Il Monte Pisano ha da sempre occupato una posizione non marginale, trovandosi in un’area di confine tra i territori delle città di Pisa e Lucca e delle rispettive diocesi e dunque al centro di un continuo processo di espansione e contrazione dei due comitati. L’importanza strategica del rilievo, che raggiunge una altezza di 910 m s.l.m. sul Monte Serra, derivava anche da una efficace azione di controllo della viabilità, non solo terrestre ma anche fluviale e lacuale. Il Monte Pisano era infatti circondato da vie d’acqua navigabili che facilitavano il trasporto di persone e di merci lungo il suo perimetro, attraverso i fiumi principali e i canali che mettevano in collegamento laghi e paludi, anch’esse in buona parte usate per la navigazione locale. I fiumi che scorrevano, e che scorrono ancora pur con qualche variazione, alle pendici del rilievo collinare erano l’Arno e l’Auser, quest’ultimo con almeno due rami secondari nel Val di Serchio pisano: il Tubra e l’Auserclus. Nella piana lucchese l’Auser era l’immissario principale del lago di Sesto. Il lago di Sesto era unito verso sud all’Arno grazie al canale navigabile del Cilecchio, che sboccava a Bientina, mentre a nord con l’Auser si rendeva raggiungibile Lucca per via d’acqua. Le principali vie di terra che tracciavano un percorso tra Pisa e Lucca con il medio e basso Valdarno, con Firenze e con la Francigena, e che in pratica circondavano il Monte Pisano lungo le sue pendici, erano la Strata Vallis Arni,

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sulla sinistra d’Arno, la via Pedemontana lungo il lago di Sesto e la strada lungo monte attraverso la valle del Serchio.

Il toponimo Calci è attestato con certezza nei documenti dell’IX secolo ma fino all’XI secolo la documentazione relativa a questa comunità è molto scarsa. La fondazione della pieve di Calci è da attribuire alla volontà di Daiberto, arcivescovo di Pisa dal 1088 al 1098. Infatti, in una “recordationis cartula”, redatta a futura memoria nel gennaio 1174 i canonici della pieve di Calci riconoscevano i diritti di patronato che spettavano su di essa al vescovo di Pisa. Il documento ci informa che, il luogo in cui sorgeva la pieve, era stato precedentemente occupato da una cappella vescovile denominata Santa Maria “ad Curtem”. Tutta l’area occupata dalla chiesa e dagli edifici annessi (chiostro, campanile, ospedale e cimitero) era in origine di proprietà vescovile. Nei secoli XII e XIII, oltre alle notizie riguardanti la pieve si trovano molti documenti relativi ad un’altra importantissima chiesa calcesana: Santa Maria a Villarada.

Alla fine del Duecento nel territorio di Calci erano presenti ben 18 chiese. Di esse oggi ne rimangono solo otto: San Martino di Montemagno; Sant’Andrea a Lama; San Michele di Castelmaggiore, San Pietro di Vicascio; Santa Maria di Montemagno; San Salvatore del Colle; San Bartolomeo di Tre Colli e Sant’Agostino di Rezzano. Nel territorio calcesano esistevano anche alcuni monasteri tra i quali ricordiamo San Michele alla Verruca e la Certosa, oltre alla già ricordata canonica di Sant’Agostino di Nicosia.

Dal Monte Pisano scende il torrente Zambra che attraversa il territorio di Calci. Questo corso d’acqua costituì la fonte di approvvigionamento idrico necessaria per la nascita e lo sviluppo dei mulini calcesani.

A Calci è quasi impossibile identificare qualche resto dei mulini calcesani medievali. Solo attraverso l’analisi della documentazione d’archivio possiamo conoscere il nascere e lo svilupparsi degli impianti molitori di Calci nel Medioevo.

Il più antico documento che fa riferimento ad un mulino è una pergamena datata 15 dicembre 958, nella quale si parla di un mulino donato dal vescovo Grimaldo ai Canonici della cattedrale pisana, posto in Calci e confinante con terre della chiesa di Santa Maria a Villarada. Questa pergamena è l’unica testimonianza relativa al X secolo.

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L’attestazione successiva risale, infatti, ad un secolo dopo ed è datata 13 dicembre 105733. Si tratta di una “venditionis cartula” redatta in un non meglio identificabile “loco et finibus Castilione” con la quale Ugo del fu Guido e Adaleita, sua moglie e figlia del fu Ranieri, vendevano a Uberto “filio Imille” la loro porzione della chiesa di “sancte Marie Villarade et sancti Martini” in Calci. La pergamena specifica che la quota in oggetto era «de tertiam portionem, quartam portionem» della chiesa; veniva inoltre venduta la «quartam portionem de uno molendino que dicitur sancte Marie, qui est posito prope suprascripta eclesia sancte Marie». Oltre a questi, Ugo e Adaleita vendevano anche altri beni (“res”) che la suddetta chiesa “in beneficio abet”, dislocati tra la vallata calcesana e la piana dell’Arno, «in loco et finibus Calci in loco ubi dicitur a Villa, quas condam Chetio massaio abuit et detinuit et in loco Castagneto seo in orto que dicitur suprascripta eclesia sancte Marie et in loco ubi dicitur a Sancto Vito seo in loco Tianula adque in loco Crispiniano et in Aquafrivilam et in loco et finibus Campo seo in loco Crunulo adque in loco et finibus Mediana seo in loco et finibus Pratale». Questo mulino, posto direttamente lungo il corso dello Zambra e nelle immediate vicinanze dell’edificio religioso, serviva probabilmente alla macinazione dei cereali prodotti nell’ambito degli stessi possedimenti della chiesa ed era utilizzato da diversi proprietari. Infatti, Ugo ed Adaleita non detenevano tutta la proprietà del mulino, ma sola la quarta parte34.

Nel XII secolo la diffusione dei mulini dovette subire un incremento notevole, determinato probabilmente dalla crescita demografica, testimoniata nel XII secolo in tutta l’area pisana.

Il primo atto del XII secolo è dell’8 novembre 1115, con il quale un certo Uguccione del fu Seretto vendeva a Pietro, priore della chiesa pisana di San Pietro in vincoli, le sue «partes integras de uno molendino cum aqueducio et sepe atque omne instrumentum ad eundem molendino pertinente, que est posito in Calci prope ecclesiam sancte Marie et nominatur in loco Guilierade». Nel documento si precisava: «Predictas meas portiones integras de predicto molendino [...] conpeti exinde mihi unu die et tertia

33 T. Panduri, “Como acqua de mola”. Mulini ad acqua nel territorio di Calci in

età medievale, Edizioni Plus, Pisa 2001 (Studi pisani 2), p.51.

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portione alio die [...] vendo et trado, pro qua recepi decem solidos de moneta Lucca»35. Inizia con questo documento, la lunga serie di acquisizioni attraverso cui la canonica di San Pietro in Vincoli cercò di “controllare” la maggior parte dei mulini della Valgraziosa. Analizzando i documenti del XII si nota come la canonica cercò di acquistare diverse quote dei mulini calcesani arrivando quasi ad avere un monopolio sugli impianti molitori. A tal proposito una “cartula venditionis” datata 27 aprile 1126 con la quale due fratelli Lamberto e Ranuccio, figli del fu Sigerio, insieme con Gemma, figlia del fu Pagano e moglie di Ranuccio, con Mingarda, moglie di Sigerio, e figlia del fu Tebaldo, vendettero, per cinquanta soldi, a Pietro, priore della canonica di San Pietro in Vincoli, un pezzo di terra a Calci in luogo detto “sancta Maria Aguiliarada”36. Si trattava di una “una petia de terra cum vinea et aqueductu”, cioè un appezzamento di terra destinato alla coltivazione della vite, ma solcato da un canale. I suoi confini erano così descritti: «unum caput in Sambra et aliud in via publica, latus in botro Bonni es aliud latus in cimitero ecclesie sancte Marie».

Non molto lontano da lì, probabilmente, era situato un mulino di proprietà della stessa canonica, alimentato da quell’acquedotto. Infatti, tramite il possesso dell’acquedotto, il priore voleva essere certo che il suo mulino avesse sempre acqua a sufficienza e che nessuno potesse impedire il regolare funzionamento dello stesso37.

Un documento del 14 gennaio 1139 attesta uno dei pochissimi casi in cui un ente ecclesiastico vendeva un mulino. E’ un atto di vendita redatto a Riglione, con il quale: «Martinus abbas monasteri Sancti savini sito valle Arni ad aliam terram emendam monasterio satis necessariam, consilio et auctorictate Uberti sui camerarii, Athonis aliorumque quorum confratrum et fidelium, vendit Helena abatisse monasteri Sancti Mathei posito in Pisa ubi dicitur al Poio, unam integram petiam de terra cum molendino posito et edificato super eam et aqueducio iuxta plebem de Calci vocatur Molendinum

35 R. Nardi, Le pergamene dell’Archivio di Stato di Pisa dal 1115 al 1130, tesi di

laurea, Pisa, a.a. 1964/65, rel. C. Violante, n. 2, pp. 5-7, in Panduri, “Como acqua de

mola”, cit. p. 55.

36 Nardi, Le pergamene dell’Archivio di Stato di Pisa, cit. p. 57. 37 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 58.

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Salvestri: caput unum in viis carrariciis, aliud in terra Sancte Marie; latus unum in viis carrariciis, aliud in terra monasteri Sancti Savini. Recepit ab eo pretium DXL sol.»38.

La vendita testimonia dunque la cessione di un pezzo di terra con mulino che l’abate di San Savino vendeva alla badessa di San Matteo, ma nel documento si specificava che la vendita avveniva “ad aliam terram emendam monasterio satis necessariam”, dunque era una vendita dettata dalla volontà, da parte dell’abate, di compiere un altro acquisto. La necessità di giustificare la vendita è facilmente comprensibile ricordando che i beni ecclesiastici erano inalienabili, a meno che dalla loro cessione non derivassero innegabili vantaggi patrimoniali. E proprio dell’abate Martino sappiamo che cercò di concentrare i possedimenti del monastero nelle località più vicine ad esso liberandosi nello stesso tempo di beni più dispersi e meno controllabili. Mise in piedi una politica di riorganizzazione patrimoniale, testimoniata anche da un altro documento che vede protagonista sempre l’abate Martino. Si tratta di una “venditionis cartula”, redatta “apud Calci” il 10 ottobre 1147, con la quale Martino vendeva a tale Adulino detto Cicala del fu Ranieri 6 pezzi di terra a Calci posti in luogo “ubi dicitur Sala”, per il prezzo di 70 denari lucchesi dati «pro acquirenda terra et molendino quod est posita in Calci prope castello de vicecomes a Guiscardo quondam Benedicti Sclani». Questo significa che l’abate Martino vendeva i 6 pezzi di terra per comprarne un altro, dotato di mulino, ubicato “prope castello de vicecomes” nella zona dell’attuale Castelmaggiore39.

Al 26 marzo 1159 risale poi un “laudamentum” redatto “in villa que nominatur Calcis, infra claustrum ecclesie sancte Marie a Guiliarada”, con il quale i consoli calcesani decisero sulla vertenza in corso tra Signoretto, priore della chiesa di san Pietro in Vincoli che agiva per la sua chiesa, e Ugo, prete della chiesa di Santa Maria a Villarada. La disputa riguardava il possesso di un “aqueducio et terra ipsius aquiducii veteris molendini suprascripte ecclesie Sancti Petri”. Prete Ugo sosteneva che: «suprascriptam aquiducii terram prenominate sue ecclesie tum proprietario iure partim quoque pro canonicis sancte Marie de Pisa esse dicebat velut eam nuper suo muro cluserat».

38 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 58. 39 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 58.

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Tuttavia non era in grado di dimostrare i propri diritti (“Non tamen inde proprietatiis cartulas nec possesionem ostendebat”)40.

I consoli venuti a conoscenza dei fatti disposero che: «Sancti Petri eclesie de cetero habeat ac possideat prefatum aquiducium et terram a parte meridie, a termino quem nos posuimos usque ad murum novi aquiducii alterius molendini sancti Petri manentis ultra Sambra».

Altra importante testimonianza è un “breve recordationis” del primo giugno 1173 rogato in Calci. Si tratta di una pergamena contenente due atti: con il primo, i canonici di Santa Maria di Pisa stipulavano un patto con Ildebrandino di Calci per costruire un mulino; con l’altro mettevano in possesso Ildebrandino della parte a lui spettante del mulino costruito. Entrambi gli atti furono redatti dal notaio Uguccione Familiato, rispettivamente a Pisa il 28 marzo 1173 e a Calci in data 1 giugno 1173. Forse il documento fu scritto a giugno quando il mulino era già stato costruito ed il notaio, in quell’occasione, stese anche il documento precedente, aggiungendolo al nuovo atto. Dall’analisi del documento risulta che Villano arciprete e i suoi confratelli stipulavano con “Ildebrandino de Calci de loco qui dicitur Cerbaia, quondam Bonfilii” il patto di “facere molendinum comune, nostrum pro tertia parte et tuum pro duabus partibus, in loco Cerbaia ubi dicitur Valle da mulino”. I canonici s’impegnavano a “mittere de terra nostre canonice tantam quanta ibi necessaria fuerit ad domum edificandam et ad faciendum aquiducium ipsius molendinii”. Ildebrando, a sua volta, prometteva “mittam de mea terra ad edificandam domum ipsius molendini et ad faciendum aquiducium ipsius molendini tanta quanta ibi nocesse fuerit”. Il documento specificava che il mulino “debent facere canonici pro tertia parte et Ildebrandiis pro duabus partibus”41.

Il vescovo di Pisa Ubaldo si occupò di una questione legata ai mulini, in un documento del 11 febbraio 1187. Si tratta di una “cartula promissionis” con la quale Ugolino, figlio del fu Ildebrando, Sinibaldo, figlio del fu Ferruccio, e Peregrino, figlio del fu Ranieri, promettevano al presule di “tenere, laborare, meliorare et edificare molendinum in una petia de terra” appartenente all’arcivescovo e posto in Calci, “iuxta

40 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 59. 41 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 60.

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eclesie sancti Michaelis de Plasaula”. Era previsto un censo annuo di 28 stariora di grano da consegnarsi a Pasqua42.

All’inizio del XIII secolo risale una controversia tra fratelli per il possesso di un mulino, come testimonia una pergamena de 12 luglio 1204. Il documento attesta che Gerardo di Moneta e Roberto di Marignano, cancellieri pubblici, "cognitori" e giudici degli appelli, dovevano decidere in merito alla controversia tra Amato del fu Giovanni e i fratelli Rodolfino e Palarmino per il possesso della terza parte di un mulino a Calci “in loco et finibus ubi dicitur via Cava”. I “cognitores” pubblici confermarono la sentenza di Ranieri Tinti e gli altri giudici della nuova curia, favorevole ad Amato43.

Tra i documenti degli inizi del XIII secolo troviamo poi un “cartula divisionis” datata 30 maggio 1212 che ci da notizia dell’esistenza a Calci di altri due mulini. In questo documento Uguccione del fu Bulgarino di Caprona, per metà, e i fratelli Bulgarino e Uguccione, per l’altra metà, cedevano ad Ormanno del fu Ugo de Bello di Caprona trenta pezzi di terra in Montemagno, ricevendo in cambio altrettanti pezzi di terra posti nello stesso luogo. Tra i confini degli appezzamenti di terra compaiono due mulini: uno “quod Bene quondam Perfecti libellario nomine tenet” per conto di Uguccione e di Ormanno, l’altro “quam tenet Petrus de Ressano quondam Buttari”. Si tratta di una “cartula divisionis” tra membri della stessa famiglia, i ‘da Caprona’, proprietari del castello di Caprona e membri dell’aristocrazia consolare. Questa famiglia dunque possedeva a Calci due mulini dati in gestione a loro dipendenti44.

Un altro documento relativo ai mulini è datato 28 agosto 1237 e si tratta di una vendita che vede come acquirente la canonica di San Pietro in Vincoli e come venditore prete Villano, pievano della pieve di San Giovanni di Calci, che agiva col consenso dell'arcivescovo di Pisa. La transazione aveva come oggetto tre intere settimane continue, incluse le notti, di un mulino posto in Calci vicino alla chiesa di Sant'Andrea di Lama, in luogo detto ‘Parcanneto’, per il prezzo di lire 20 di buoni denari di “nova niger moneta pisana”. Molto interessante è notare che si parli di tre settimane continue,

42 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 62. 43 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 64. 44 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 64.

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comprese le notti, elemento questo che sta ad indicare come i mulini lavorassero in continuazione45.

Un atto del 1239 con il quale Bartolomeo e Upezino “gastaldi et negotiorum gestores” dell’arcivescovo di Pisa Vitale “locaverunt et locationis titulo dederunt et firmaverunt Ugolino quondam Blanci de Villa, molendinum unum, quod est archiepiscopatus”. Il mulino era “positum in Calci, quod vocatur molendinum de Nuce”. La “locatione” era stata effettuata con uno scopo preciso: Ugolino infatti si impegnava «ad faciendam in dicto molendinum unam gualcheriam ad duas pilas et duas rotas bonas et convenientes, ad pannum altandum et gualcandum, cum aquis et aqueductibus et cum omni iure ad predicto molendino pertinente». Ugolino doveva occuparsi di tutti i lavori relativi alla trasformazione della struttura produttiva. Egli, infatti, doveva «dictam gualcheriam presentialiter construere, ordinare facere, per se vel alium, in dicto molendino […] ad duas rotas et pilas, suis dicti Ugolino, expensis ipsamque bene murare ex latere via et alibi ubi fuerit necessarium». La costruzione della gualcheria doveva avvenire «sine lesione tamen et dampno aliorum molendinorum archiepiscopatus, positorum superius et inferius in aqua dicta Sambra, ubi dicta gualcheriam est construenda»46. Il nuovo impianto produttivo era concesso in locazione per cinque anni. Bartolomeo e Upezino permettevano a Ugolino di: «habere et tenere et construere et facere dictam gualcheriam […] ipsumque tenere in toto termino et spatio predictorum V annorum et gaudere et usufructare». La pergamena indica anche i tempi stabiliti per la realizzazione della gualchiera, poiché Ugolino «convenit et promisit […] ad proximum festum sancti Michaelis mensis septembres, facies vel fieri facies predictam gualcheriam, bene parata […] sine damno et lesione aliorum molendinorum archiepiscopatus […] inferius et superius positorum». Passati i cinque anni Ugolino si impegnava a restituire l'impianto al vescovo in perfette condizioni47.

ll documento esaminato è molto interessante perché ci consente di trovare anche a Calci, come in genere in tutta Europa, le diverse funzioni degli impianti molitori.

45 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 65. 46 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 66. 47 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 66.

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I documenti relativi ai mulini idraulici calcesani sono scarsi, ma consentono di tracciare a grande linee la storia degli opifici idraulici medievali in Valgraziosa. In generale la nascita dei mulini è legata all’associarsi di ricchi possidenti, ma soprattutto si deve all’iniziativa di un ente religioso. Già nel secolo XI si può notare nel territorio calcesano la presenza degli enti ecclesiastici pisani che cercarono di controllare questa zona del contado, fonte di potere e di guadagno. Calci era vicinissima alla città di Pisa e dunque i suoi contatti con essa erano piuttosto rapidi, anche nel Medioevo. Per la città, possedere terreni a Calci, non significava solamente controllare una fertile vallata, ma anche avere a disposizione un approvvigionamento di prodotti di prima necessità veloce e poco costoso, perché erano facilmente reperibili.

In conclusione si può affermare che gli enti ecclesiastici proprietari della quasi totalità dei mulini calcesani erano due: il vescovo di Pisa e la canonica di San Pietro in Vincoli. Il vescovo di Pisa indirizzava la sua politica nel costruire nuovi mulini e migliorare gli impianti molitori già esistenti (quasi sempre è il livello lo strumento giuridico di cui il vescovo si serve per realizzare il suo scopo). San Pietro in Vincoli, l’ente che possedeva il maggior numero di mulini, tramite una sapiente politica di acquisto questa canonica arrivò a sfruttare, nel corso del XII secolo, ben cinque diversi mulini. La politica di acquisto continuò nel XIII secolo, ma la reale portata dell’intervento di San Pietro in Vincoli, si comprende appieno considerando anche tutti gli acquisti fatti da questa canonica nel territorio calcesano, oltre a quelli riguardanti i mulini.

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5.2. I mulini dell’abbazia di San Salvatore al Monte Amiata.

Il monastero di San Salvatore del Monte Amiata è situato tra le attuali province di Siena e Grosseto nella parte orientale del monte, quella senese, su di un pianoro alla base del cono vulcanico e a dominio della Valle del Paglia. La fondazione dell’abbazia benedettina di San Salvatore al Monte Amiata, avvenuta verso la metà dell’ottavo secolo, rispondeva alle necessità strategiche del tardo regno longobardo, quando il bisogno di collegare stabilmente la Tuscia all’area padana si fece più