INDICE
1. Introduzione ………1
2. Breve storia dell’origine del mulino ad acqua e della sua
diffusione in Europa e in Italia tra il I sec. a. C. e l’XI sec.
d. C.. ……….4
2.1. Storia del mulino ad acqua in epoca romana ………….4
2.2. Diffusione dei mulini ad acqua in Europa ed in Italia tra
il VI e l’XI secolo ………6
3. Descrizione e funzionamento delle diverse tipologie di
impianti molitori presenti in Italia e in Europa ………11
4. Origine del mulino in Toscana tra l’VIII e l’XI secolo ……21
4.1. Breve
descrizione
delle
caratteristiche
idro-morfologiche del territorio toscano medievale ………21
4.2. Origine e diffusione del mulino ad acqua in Toscana tra
l’VIII e l’XI secolo ...24
5. I mulini dei monasteri e degli altri enti ecclesiastici in Toscana
tra XI e XIV secolo ………..27
5.2. I mulini dell’abbazia di San Salvatore al Monte Amiata …..36
5.3. I mulini dell’abbazia di San Galgano tra XIII e XIV secolo …44
6. I mulini dei monasteri nella zona di Firenze………54
6.1. I mulini e l’uso delle acque del monastero di S. Michele a
Passignano in Val di Pesa tra XI e XIII secolo ……….54
6.2. I mulini del monastero di San Cassiano a Montescalari nel
Valdarno tra XII e XIV secolo ………..60
6.3. I mulini della Badia a Settimo tra XIII e XIV secolo ………64
7. Politica e gestione dei mulini nei Comuni toscani ………71
7.1. I mulini del Comune di Siena tra l’XI e il XIV secolo ………..71
7.1.1. I “Constituti” del Comune di Siena e lo statuto degli
“Ufficiali sopra i mugnai” redatto nell’anno 1281 ………74
7.2. I mulini del comune di Pistoia e della montagna pistoiese tra
il XII e il XIV secolo ……….80
7.3. Mulini e gualchiere a Colle Val d’Elsa tra XII e XIV secolo …89
7.4. I mulini del Comune di Fucecchio tra XIII e XIV secolo …….94
8. I mulini a Firenze, Bologna e nei Comuni lombardi …………101
8.1. I mulini di Firenze tra il XIII e XIV secolo ………101
8.2. I mulini del Comune di Bologna e dei Comuni lombardi …106
9. Conclusione ………...110
10. Bibliografia………114
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I mulini ad acqua in Toscana tra XI e XIV secolo.
1. Introduzione.
In un’epoca di sfide energetiche come quella che stiamo vivendo dove l’uomo è impegnato nella continua ricerca di fonti di energia rinnovabili, è interessante per uno studente di storia medievale imbattersi nello sviluppo delle tecnologie legate allo sfruttamento della forza motrice dell’acqua.
La storia dell’umanità, del resto, è stata caratterizzata da sempre dalla ricerca di nuove tecnologie nel tentativo di migliorare e semplificare il lavoro e la vita dell’uomo. L’importanza della tecnologia la si nota fin dall’antichità anche e le prime epoche storiche infatti le dividiamo in base alle tecnologie sviluppate: Età della Pietra, Età del Ferro, Età del Bronzo. Dopo la scoperta del fuoco e l’invenzione della ruota senza ombra di dubbio lo sfruttamento della forza dell’acqua attraverso i mulini cambiò la vita del mondo greco-romano e del mondo cinese. L’ uso dell’energia idraulica ha in effetti stimolato il dibattito tra gli storici, perché è la prima energia non biologica che gli uomini hanno utilizzato per mettere in moto delle macchine. Fino all’invenzione delle macchine a vapore alimentate a carbone si può affermare che per 2000 anni (circa dal II sec. a. C. al XIX sec. d.C.) l’energia venne creata nei seguenti modi: attraverso il lavoro dell’uomo, sfruttando il lavoro degli animali, usando la forza del vento (vele sulle navi, mulini a vento), ma soprattutto grazie all’uso di ruote e macine azionate dal passaggio di acqua portata da canali e corsi d’acqua. Quello dei mulini, infatti, è un tema storiografico trasversale, dalle molteplici valenze, che permette di indagare le lontane premesse della rivoluzione industriale e sul quale l’approfondimento può prendere le mosse dall’età medievale. Fu nel Medioevo, ed in particolare dopo il X secolo, che i mulini si diffusero in maniera massiccia in tutta l’Europa occidentale contribuendo in modo decisivo allo sviluppo tecnologico e all’arricchimento di questa parte del vecchio continente. Il mulino ad acqua è quindi un’invenzione antica che trova il suo pieno impiego durante il
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medioevo, dal momento che non erano più a disposizione grandi quantità di schiavi come durante l’impero romano.
La fortuna storiografica del mulino è stata inaugurata negli anni Trenta del secolo scorso da Marc Bloch con il suo: “Avvento e conquiste del mulino ad acqua”. La ricerca di Bloch è incentrata soprattutto sul legame mulino-società, in una prospettiva socio-economica. Negli ultimi quindici anni ci si sta allontanando dalla problematica feudalità-mulino per concentrarsi sulla struttura della macchina. La tendenza è di evitare generalizzazioni e di restringere a studi regionali e locali.
Questa tesi si propone di descrivere l’importanza del mulino ad acqua partendo da una breve storia sull’origine del mulino, per poi descrivere la sua diffusione nell’Europa occidentale e quindi in Toscana. Nel corso della mia trattazione parlerò anche delle diverse tipologie di mulino ad acqua e del loro funzionamento soffermandomi in particolare sulla descrizione del mulino usato per la macinazione di cereali. Dopo aver trattato gli aspetti tecnologici del mulino, cercherò di spiegare il suo ruolo politico-istituzionale e socio-economico. L’unità molitoria non era soltanto una struttura che conteneva meccanismi atti allo sfruttamento della forza motrice dell’acqua, ma al suo interno lavoravano persone ed era anche punto di incontro e di commercio. Inoltre non si deve dimenticare che il lavoro dei mugnai era ed è l’ultimo passaggio prima della produzione del pane. La disponibilità di grano e il costo della farina infatti segnavano e segnano in parte ancora oggi le condizioni di vita della gente. Le stesse politiche signorili furono indirizzate dopo l’XI secolo all’approvvigionamento, alla vendita, alla tassazione e al controllo della trasformazione dei prodotti agricoli. I mulini che servivano alla trasformazione dei prodotti della terra (grano, orzo, castagne, noci ecc.) in farina vennero ben presto controllati e la loro attività venne regolamentata. Tutto questo all’interno di una più vasta politica signorile che fissava i diritti sulle acque e tassava le unità produttive e commerciali presenti lungo il loro corso.
Nell’ultima parte parlerò dell’evoluzione in senso industriale del mulino idraulico e farò un confronto tra la situazione dei mulini in area toscana e quella di altre zone della Penisola. Gran parte degli studi fatti sui mulini infatti provengono dall’area padana dove i mulini erano diffusissimi e su di essi molte ricerche sono state portate avanti da diversi
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studiosi. Per la Toscana la documentazione non è copiosa e fare un confronto con altre regioni della penisola può aiutare a colmare le lacune delle fonti sul ruolo dei mulini ad acqua in ambito toscano. Un’ indagine sulla diffusione e la destinazione del mulino ad acqua nel medioevo, non può prescindere da fonti scritte, materiali, iconografiche e archeologiche. I gravi ritardi nell’archeologia medievale in Italia, i profondi cambiamenti del paesaggio e spesso la ricostruzione dei mulini toscani in epoca moderna portano a basare la mia ricerca sulle fonti scritte.
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2. Breve storia dell’origine del mulino ad acqua e della sua
diffusione in Europa e in Italia tra il I sec. a. C. l’XI sec. d. C.
2.1. Storia del mulino ad acqua in epoca romana.
Il primo mulino ad acqua ricordato nelle fonti, come sostiene lo storico francese Marc Bloch, sorgeva attorno al 18 a. C. a Cabiria, nel Ponto, tra le dipendenze del palazzo da poco elevato da Mitridate ed è probabile che fosse stato eretto contemporaneamente al complesso delle costruzioni “tra l’anno 120 e il 63 a. C.”. Nella stessa epoca tra i latini Marco Vitruvio Pollione nel De Architectura, libro X cap. X descrive delle macchine idrauliche ed in particolare un mulino idraulico mosso da una ruota verticale1:
«Anche sui fiumi vi sono delle ruote dello stesso tipo di cui si è detto sopra. Sulle loro corone sono infisse delle palette che, colpite dalla forza della corrente avanzando fanno girare la ruota così pure attingendo acqua con i recipienti e portandoli verso l’alto senza spinta di alcuno ma con la sola forza dell’acqua forniscono il necessario al lavoro. Con lo stesso principio girano ruote idrauliche del tutto simili eccetto che all’estremo dell’asse è fissato un timpano dentato. Questi, posto in verticale, a mo’ di coltro gira contemporaneamente alla ruota. In rapporto a questo timpano più grande è posto in posizione orizzontale un timpano più piccolo in cui s’ingranano i denti del timpano fissato all’asse: in modo che con la loro spinta i denti determinano la circolazione orizzontale delle mole. In questa macchina una tramoggia sospesa somministra il frumento e per mezzo della rotazione esce la farina»2.
Come testimonia in questa descrizione Vitruvio il mulino idraulico era già conosciuto nel I secolo a. C. in tutto il Mediterraneo. Lo stesso nome greco (hydraletes)
1 M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari-Roma, Ed. Laterza 1984, p. 74. 2 Vitruvio Pollione, L’Architettura di Vitruvio, nella versione di Carlo Amati
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del mulino ad acqua mostra indirettamente la sua provenienza da area ellenistica. Il mulino ad acqua però si diffuse soprattutto dopo il IV sec. in modo particolare a causa del riconoscimento della religione cristiana nell’impero romano che proibì l’impiego degli schiavi per macinare il grano.Quasi tutti i mulini di epoca romana erano alimentati da acquedotti: la ragione principale era probabilmente economica, in quanto era più facile usare canalizzazioni pubbliche già esistenti che costruire un sistema indipendente di alimentazione. Il più grande esempio di mulini di epoca romana è il complesso di Barbegal presso Arles in Francia. Il complesso risale alla fine del III secolo d.C., posto su di un pendio, era composto da due serie parallele di otto ruote alimentate da due canali derivati dall′acquedotto di Arles. Un carrello che si muoveva su un piano inclinato consentiva di far salire e scendere i carichi attraverso un meccanismo idraulico. Anche se con la caduta dell’impero romano il progresso fu ostacolato dalle successive vicende storiche, i mulini ad acqua continuarono a diffondersi, tanto che per dirla come Marc Bloch: «invenzione antica il mulino ad acqua è medievale dal punto di vista della sua effettiva diffusione»3.
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2.2. Diffusione dei mulini ad acqua in Europa ed in Italia
tra il VI e l’XI secolo.
Gregorio di Tours (540-594) parla di mulini idraulici presso Digione e più o meno contemporaneamente il poeta Venanzio Fortunato ne cita uno sulla Mosella. Al tempo dei Merovingi tali meccanismi erano abbastanza importanti da essere protetti nelle leggi saliche e compaiono come fonte di reddito fiscale nel Capitulare de villis di Carlomagno. In Svizzera il più antico mulino conosciuto risale al VI sec., nella Germania meridionale si ha una rapida diffusione dopo le invasioni di VII, nell’VIII mulini compaiono nelle leggi alamanna e bavara, mentre comincia una più lenta diffusione verso nord. Ruote idrauliche erano usate in Belgio alla metà del VII sec., in Olanda nell’VIII, in Austria e nelle Alpi orientali nel IX. Per l’Inghilterra il primo riferimento attendibile ad un mulino idraulico compare nel 762 e nel X sec. tali meccanismi avevano invaso l’Irlanda4.
Per quanto riguarda i territori dell’attuale Francia, come per l’Italia, molte testimonianze provengono dai monasteri ed in particolare dai monasteri dell’ordine cistercense. Del resto una delle più note ed esplicite testimonianze letterarie medievali dell’ attenzione con cui si guardava all’ impiego dell’ energia dell’ acqua, viene proprio da questo ordine: si tratta di un famoso e spesso citato brano di Arbois de Jubainville, monaco del XIII sec., che dedica ampio spazio ad una accurata descrizione di come i confratelli di Clairvaux avevano organizzato il complesso degli edifici in modo da sfruttare le acque del fiume Aube, che scorreva nelle vicinanze, deviandolo e canalizzandolo per irrigare gli orti del monastero e per far funzionare le mole per il grano, la gualchiera, la birreria e la conceria. Ai mulini per il grano si erano dunque affiancati quelli per la birra, per le olive, per la follatura, per la concia, per la lavorazione del ferro. Tutti i monasteri maschili francesi si dotarono di almeno un mulino entro i primi 2 o 3 decenni che seguirono alla fondazione, ma nella maggior parte dei casi la
4 M. E. Cortese, L’acqua, il grano, il ferro. Opifici idraulici medievali, nel bacino
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quantità fu molto più elevata: gli impianti andavano da 2 a 3 per moltissime abbazie, a 5 o 6 per le più ricche5. I grandi proprietari terrieri, laici ed ecclesiastici, individuando nelle strutture produttive una nuova e redditizia fonte di guadagno, investirono i loro capitali per l’acquisto o la realizzazione dei mulini. I proprietari dei terreni dove sorgevano i mulini istituirono i loro diritti su queste strutture, facendone dei beni signorili ed imponendo ovviamente dei balzelli.
Il mulino idraulico si diffuse prima del X secolo sulle rive del Mediterraneo, in Germania e nelle isole britanniche mentre presso i popoli slavi e scandinavi nel XII secolo. Anche la linguistica ci aiuta a seguire questo percorso, infatti, nelle lingue germaniche e celtiche e in diverse lingue slave il termine designante il mulino ad acqua è mutuato direttamente o indirettamente dal latino6. I termini più diffusi nelle fonti scritte altomedievali per indicare il mulino sono quelli classici, molinus/mulinus,
molendinus, con il focus incentrato sulla mola, la macina; troviamo spesso aquimolus/aquimulus, laddove significativamente la “mola” si unisce ad aqua7. È
interessante notare che i due termini potevano essere usati insieme nello stesso contesto. Allora presentavano una differenziazione di significato: il molendinus/molinus era la struttura molitoria, mentre il termine aquimolus indicava, probabilmente, il condotto d’acqua, naturale o artificiale, che ne permetteva il funzionamento. Così il
Chronicon Farfense di Gregorio di Catino segnala la presenza di molendini e aquimoli
separatamente, ma anche insieme di molinis et aquimolis su beni di proprietà dell’abbazia di Farfa nel Reatino8. A tale riguardo è significativo un documento dell’anno 967 tratto dal Regesto Sublacense relativo al monastero di Subiaco (Lazio). Si specifica:
5 A. De Jubainville, Descriptio, pp. 570-571, citato in Cortese, L’acqua, il grano,
il ferro, cit. p. 62.
6 Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, cit. p. 77.
7 P. Galetti, La forza delle acque: i mulini nell’Italia Medievale, «Riparia», 2014,
p. 102.
8 Gregorio di Catino, Il Chronicon Farfense, a cura di E. Balzani, II, Roma, 1903,
citato in P. Galetti, I mulini monastici tra IX e XI secolo, tecnologia e organizzazione del
lavoro e della produzione, in E. Pani, Teoria e pratica nel monachesimo altomedievale,
8
«in quibus aquimolis nullo modo quilibet audeat molam facere. Si vietava cioè di costruire una struttura molitoria su condotti d’acqua»9.
Nella penisola italiana è poco comune molendinus, mentre è molto più diffuso il termine molinus e suoi derivati come Molino, Molini, Mulinaccio, Molinello, Mulinetto e tanti altri. Gli archivi monastici, conservando la documentazione pubblica e privata a partire dalla seconda metà del IX secolo aumentano le testimonianze della presenza di mulini nella penisola italiana. Gli archivi monastici, conservando la documentazione pubblica e privata relativa al patrimonio, ai diritti e privilegi dei singoli enti, oltre che alla gestione degli stessi, rappresentano un punto di partenza imprescindibile per approcciarsi al tema molitorio. Interessanti sono i polittici di grandi enti monastici che risalgono in Italia al periodo IX-X secolo, a testimonianza di un tentativo di razionalizzazione delle modalità gestionali proprietarie. Se consideriamo, ad esempio, gli inventari di beni che si riferiscono a due importanti monasteri, quello femminile di Santa Giulia di Brescia, compilato tra 879 e 906, e i quattro di San Colombano di Bobbio, rispettivamente dell’862, 883, del periodo a cavallo tra IX e X secolo e tra X e XI secolo, possiamo contare, su diversi singoli possedimenti, tra la fine del secolo IX e del secolo seguente, numerosi mulini. Si trattava di complessi di beni organizzati secondo il modello curtense, per cui gli estensori degli inventari registravano separatamente redditi e risorse di pars dominica e pars massaricia. I mulini erano sempre ubicati sulla parte dominica. I costi di impianto e di costruzione, i diritti di controllo del corso d’acqua e successivamente i costi per le eventuali riparazioni costituivano ostacoli superabili solamente se il mulino operava su un’area sufficientemente estesa tanto da garantire una quantità abbastanza rilevante di prodotti da macinare. Per questo non è un caso che i primi mulini ad acqua fossero di origine signorile e che molti dipendessero dai monasteri.
Se consideriamo l’ubicazione dei mulini inventariati in Italia (fine IX sec. inizio XI sec.) possiamo notare che le curtes dotate di impianti molitori erano soprattutto quelle situate tra Brescia e il lago di Garda o nella bassa pianura, tra Piacenza e Mantova, con
9 Il Regesto Sublacense, a cura di L. Allodi-G. Levi, Roma, 1885, n.3, a. 967, citato
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una maggiore produzione di cereali e che potevano trovare senza troppa difficoltà nelle acque dei fiumi (Oglio, Mella, Chiese) una facile alimentazione per le macine dei loro mulini. Laddove quindi la produzione di cereali era abbondante e maggiore doveva essere la richiesta di farina, laddove l’ambiente solcato da numerosi corsi d’acqua non presentava difficoltà tecnicheparticolari per il buon funzionamento degli impianti, là i mulini dovevano essere più numerosi oltre a presentare una maggiore densità10.
In conclusione il mulino è un’invenzione antica che i Romani non hanno sfruttato a fondo, preferendo il ricorso alla spinta energetica di uomini o animali. Con la crisi del mondo antico, si sostituì l’energia prodotta da uomini e animali con quella prodotta dallo sfruttamento dell'acqua. La grande diffusione del mulino si ebbe invece in età post-carolingia, in una fase in cui si ha la piena affermazione della media-grande proprietà fondiaria nella sua forma gestionale curtense, dal momento che la presenza del mulino è testimoniata soprattutto su terre signorili. Inoltre dopo il X secolo si ha un miglioramento delle tecniche agricole che aumentavano la produzione, migliorando la nutrizione della popolazione. Alla crescita della popolazione dal X secolo in poi in tutta Europa fece fronte innanzitutto la moltiplicazione degli spazi coltivati. L’affermazione dei campi a spese dell’incolto non presentava difficoltà a quell’epoca, considerate le tante foreste a disposizione. Per coltivare più terra fu poi necessario uno sfruttamento della forza degli animali assai più intensivo di quanto non fosse mai accaduto prima. Fu questa, durante i secoli intorno al Mille, la conquista più importante, in termini quantitativi, nel campo dell’energia meccanica. Sembra che nel Mezzogiorno del continente i buoi si siano moltiplicati11.
Per molti secoli a causa dell’irregolarità dei corsi d’acqua, delle possibili gelate, secche o piene che spesso impedivano l’utilizzo della forza motrice dell’acqua si continuò ad usare anche il mulino spinto a braccia o da animali. La piena diffusione e utilizzazione del mulino ad acqua si ha alla fine del XI secolo in corrispondenza di un periodo di prosperità economica e, come analizzeremo più avanti, con le sue
10 L. Chiappa Mauri, I mulini ad acqua nel milanese (secc. X-XV), Roma 1984, p.
11.
10
applicazioni industriali” favorite dall’introduzione di innovazioni tecnologiche legate allo sfruttamento dell’acqua. L’utilizzo del mulino idraulico dopo l’XI secolo non era più legato solo alle attività molitorie, ma anche a quelle industriali come la manifattura laniera, l’industria della carta, le segherie e l’attività siderurgica e mineraria.
Gli ostacoli si dovettero già avvertire nel tardo Medioevo, quando le autorità cercarono con interventi legislativi di porre freno alla distruzione dei boschi. I campi e, insieme ad essi, i cantieri cittadini per costruire case e navi e le officine metallurgiche erano i pericoli maggiori per le foreste. Occorreva trovare qualche nuova fonte di energia che non provenisse dal suolo come le altre. Fu in questo contesto che gli uomini del Medioevo fecero ricorso allo sfruttamento dell’acqua e del vento, e cioè di due risorse energetiche non organiche, non provenienti dalla terra. Si passava dallo sfruttamento di convertitori organici dipendenti dal suolo, allo sfruttamento di convertitori inanimati12.
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3. Descrizione e funzionamento delle diverse tipologie di
impianti molitori presenti in Italia e in Europa.
Secondo le fonti scritte medievali il mulino era fornito di una ruota e anche di diverse ruote per uno stesso impianto, anche se è difficile capire che tipo di ruota prevalesse e soprattutto in che modo fosse azionata dalla corrente: ruota orizzontale o verticale; mossa ‘per di sotto’, ‘per di sopra’, ‘per di fianco’. La ricerca si trova ad affrontare le stesse difficoltà interpretative in relazione al funzionamento dell’apparato macinante interno al mulino per i secoli dell’alto medioevo. Nei documenti i riferimenti alla parte tecnica dei mulini è molto scarna. Solo più tardi, tra XIV e XV secolo, l'attenzione al particolare tecnico si accentuò, come si è già detto, con la puntuale elencazione dei meccanismi che costituivano la macchina/mulino. Poco numerosi sono i riferimenti più specifici ai meccanismi di funzionamento. Sono presenti termini come
molas o macina, la stanga che le faceva muovere, e lo scutus (lubecchio), cioè il
meccanismo a farfalla incastrato nel palmento mobile, che con la rotazione lo trascina con sé imprimendogli il movimento rotatorio13.
Il tipo più semplice di mulino era quello a ruota orizzontale o “ritrecine”: all’estremità inferiore di un albero verticale era fissata una piccola ruota sistemata orizzontalmente, detta appunto ritrecine, composta da pale, piatte o a cucchiaio, che venivano colpite e fatte girare da un getto d’acqua a forte pressione. L’estremità superiore dell’albero passava attraverso la macina inferiore fissa ed era ancorata, mediante una barra trasversale, alla macina superiore rotante. Poiché non era necessario ribaltare il piano di macinazione rispetto a quello di rivoluzione della ruota idraulica, l’impianto non necessitava di meccanismi, ma funzionava meglio se dotato di un bacino di riserva e di una condotta forzata.
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L’asse verticale del mulino era costituito da un grosso palo, chiamato appunto
palus, che poteva essere di ferro o di legno. L’estremità superiore di questo palo passava
attraverso un foro aperto nella volta del carceraio (ambiente seminterrato stretto e lungo simile ad una galleria, il cui arco d’uscita si trova in asse con l’ingresso del mulino), poi attraverso l’occhio della macina inferiore, ed era fissata alla macina superiore mediante una barra trasversale, detta nottola o noctola. Ciò permetteva alla macina superiore, mobile, di ruotare liberamente sopra la macina inferiore, che rimaneva fissa. Fra le due macine c’era una grande differenza di spessore: mentre la superiore si aggirava intorno ai 10 cm, l’inferiore poteva raggiungere anche il mezzo metro. La pietra da cui erano ricavate doveva, ovviamente, essere durissima ed era quindi importante che cave adatte all’approvvigionamento di nuove mole non fossero troppo lontane. Dei grandi cerchi in ferro, detti circuli, circondavano ciascuna mola per proteggerla dalla rottura; inoltre, se le macine si fossero fessurate, queste bande avrebbero impedito loro di cadere in pezzi. Appesa al di sopra delle macine, si trovava la tremogia, contenitore in legno a forma di imbuto che portava il grano da macinare ed alimentava dall’alto l’apertura della macina rotante. Generalmente un contenitore in legno di forma circolare, detto palmentus, circondava la coppia di macine in modo tale che la fuoriuscita della farina poteva avvenire soltanto da un’apposita apertura praticata nel palmento stesso14.
All’estremità inferiore dell’albero motore si trovava il meccanismo cruciale per il movimento del ritrecine. Quest’ultimo era assicurato saldamente al palus, e poteva muoversi appoggiandosi al puntaruolus, una sporgenza di ferro sagomata a punta con la quale in basso terminava l’albero. Il puntaruolo girava su un perno di ferro, la ralla, a sua volta inserito in un ceppo fissato al pavimento del carceraio.
L’acqua, dal bacino di raccolta, entrando in una apertura, detta doccia o duccia, probabilmente dotata di paratoia, arrivava alla ruota acquistando velocità e pressione tramite la caduta attraverso una condotta forzata, di lunghezza variabile, inclinata e strombata. La parte finale di questo canale, nel punto in cui sfociava sulla parete di fondo del carceraio, presentava una bocca di legno sporgente. Questo tipo di mulino aveva il
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vantaggio della semplicità: era facile e poco costoso da costruire e da mantenere, non prevedeva complicati ingranaggi da riparare continuamente a causa dell’attrito.
Questo tipo di impianto poteva macinare modeste quantità e poteva funzionare con piccoli volumi d’acqua a flusso rapido ed era quindi adatto anche per le zone montane e per quelle prive di fiumi e torrenti di una certa consistenza15.
Questo tipo di mulino orizzontale “per di sopra” era il più diffuso in Toscana, in Grecia, in Provenza ed in Scandinavia. Diffuso in tutte le zone impervie del continente europeo veniva anche definito “mulino greco o scandinavo”. Quasi tutti i mulini pistoiesi presi in esame dal Muendel, ad esempio, erano a ruota orizzontale e non possedevano meccanismi.
Il mulino descritto da Vitruvio in epoca romana era invece verticale, di tipo azionato “per di sotto”: si trattava, cioè, di una ruota a palette radiali piane fissate alla circonferenza, azionata dall’impatto dell’acqua che fluiva lungo la sua parte inferiore spingendo contro le palette stesse. Le principali componenti consistevano nell’albero orizzontale terminante in un mozzo, in un numero variabile di bracci radiali che da questo si dipartivano, in un cerchione esterno entro il quale si incastravano i bracci e su cui erano fissate le pale per mezzo di supporti sporgenti in legno o metallo, in eventuali cerchioni laterali per rendere più compatto l’insieme. Questo tipo di ruota poteva funzionare in qualsiasi corso d’acqua dotato di un flusso discretamente costante, che scorresse a velocità piuttosto rapida, ma lavorava con il massimo rendimento in un canale limitato, possibilmente fornito di una saracinesca che regolasse l’afflusso dell’acqua contro la ruota16.
La grande novità, rispetto al mulino a ritrecine, era la presenza di ingranaggi che permettevano di ribaltare su un asse verticale il movimento fornito da un albero orizzontale: questo era possibile grazie ad una ruota dentata, il lubecchio, fissata ad una delle estremità dell’asse della ruota idraulica, i cui denti si incastravano nella lanterna, ingranaggio costituito da due dischi di legno collegati da fuselli e a sua volta fissato su un asse verticale. Il sistema lubecchio-lanterna permetteva anche di aumentare la
15 Cortese, L’acqua, il grano, il ferro, cit. p. 47. 16 Cortese, L’acqua, il grano, il ferro, cit. p. 49.
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velocità di rotazione delle macine rispetto a quella della ruota idraulica, in quanto il rapporto tra il numero dei denti del lubecchio e quello dei denti della lanterna poteva variare. Ingranaggi di tale genere sono già noti a Vitruvio, che li cita all’interno della sua descrizione del mulino “per di sotto”. Naturalmente la costruzione della coppia lubecchio-lanterna richiedeva abilità e conoscenze meccaniche specializzate da parte dei carpentieri; gli ingranaggi erano inoltre sottoposti ad una forte usura che ne provocava spesso il danneggiamento e la sostituzione17.
Per il Medioevo è spesso difficile distinguere, se le ruote verticali fossero colpite dall’acqua in basso o in alto. Le prime raffigurazioni su questo tema cominciano solo nel XII sec. e sono talmente generiche che spesso l’unica informazione da esse ricavabile è se si trattava di mulini orizzontali o verticali e, nel migliore dei casi, se possedevano ruote per di sopra o per di sotto. In genere, comunque, le più antiche ruote idrauliche ad essere raffigurate furono quelle verticali “per di sotto” riguardo alle quali, nonostante alcuni problemi interpretativi, si possono cogliere dei particolari interessanti. Un aspetto simile doveva avere il tipo di mulino denominato orbicum nei documenti medievali pistoiesi: si capisce abbastanza chiaramente che si trattava di un mulino dotato del meccanismo vitruviano e colpito per di sotto, in quanto la terminologia usata lo distingue da quello colpito da sopra, detto molendinum franceschum18. Esso sembra
essere posto sempre su fiumi navigabili o alle bocche di tributari dove la corrente era costante, ed appare sconosciuto nel territorio di Firenze per quasi tutto il Duecento. Nei documenti bolognesi, invece, la terminologia usata nel XIII sec. indica con una certa chiarezza che le ruote di questo tipo erano le più diffuse. È da citare, infine, per il suo carattere eccezionale, un documento lombardo del 918 d.C.: la menzione dello scutus, termine che in molti dialetti dell’Italia settentrionale indica ancor oggi il lubecchio, induce a supporre che in questo mulino le ruote esterne fossero in posizione verticale, sebbene manchi la citazione dell’altro elemento essenziale per la trasformazione del moto, cioè la lanterna. Se questa ipotesi è corretta ci troveremmo di fronte, fin dall’inizio del X sec., ad un livello di specializzazione tecnologica sorprendente.
17 Cortese, L’acqua, il grano, il ferro, cit. p. 49. 18 Cortese, L’acqua, il grano, il ferro, cit. p. 50.
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Illustrazioni medievali di ruote per di sopra esistono, ma non prima del XIII-XIV sec., mentre il loro numero aumenta notevolmente nel XV secolo.
In Toscana il mulino per di sopra è talvolta identificabile nei documenti grazie alla definizione molendinum franceschum. Con tale termine si designava un mulino che aveva sì la coppia lubecchio-lanterna come il già citato molendinum orbicum, ma che se ne distingueva semplicemente per la direzione dell’acqua sulla sua ruota esterna; Taccola aveva infatti disegnato una ruota a cassette colpita dall’alto definendola mulino
francese o gallicano. Il primo documento in cui compare un mulino di tale tipo si ha per
Lucca nel 1195, in seguito lo troviamo a Firenze nel 1312 ed un altro esempio, del 1315, è noto per Prato. Rimane il problema di quando avvenne questa innovazione e se tale tipologia fosse conosciuta in altre parti della Toscana prima che a Firenze, dove l’influenza francese sembra arrivare solo quando la città aumenta di importanza ed inizia ad espandere la sua industria laniera incorporando metodi di manifattura nord-europei. Sembra quindi che le ruote verticali, sia per di sotto che per di sopra (e di conseguenza il meccanismo vitruviano), fossero impiegate nella macinazione piuttosto tardi in Toscana. Il mulino orbicum era diffuso lungo le sponde di fiumi navigabili come l’Arno o l’Elsa, mentre quello franceschum nei piccoli torrenti delle colline o montagne del contado. Essi non sostituirono affatto i preesistenti ritrecini, ma li affiancarono, cosicché alla fine del XV sec. si arrivò ad applicare il meccanismo vitruviano anche al ritrecine per modificare la velocità delle macine19.
La più antica modifica della ruota verticale tradizionale che permise di sfruttare direttamente l’acqua di grandi fiumi navigabili, nonostante le variazioni di flusso, fu il mulino su nave. Durante il Medioevo se ne svilupparono essenzialmente due tipi: il primo prevedeva due ruote montate su entrambi i lati di una nave, il secondo una sola ruota verticale che girava in mezzo a due navi, comunicando il moto ad una o due coppie di macine. Quest’ultimo era il tipo più efficiente, in quanto i fianchi delle navi incanalavano l’acqua verso la ruota, che poteva essere anche molto grande e quindi più
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potente e più stabile. Tali imbarcazioni venivano spesso ancorate sotto grandi ponti, i cui archi offrivano un attracco sicuro e funzionavano contemporaneamente da diga.
In Toscana numerosi mulini galleggianti si trovavano lungo il corso dell’Arno. I mulini galleggianti sono detti in navibus quando avevano una sola ruota, mentre sono detti in navim, ad navem, a nave quando prevedevano o due ruote su una sola barca, oppure che uno dei due lati della nave fosse fissato ad un attracco o ad un ponte. Essi sparirono dal territorio di Firenze alla metà del XV secolo. Sempre sull’Arno, presso Signa, una grande quantità di mulini su nave si concentrava in un tratto di fiume lungo 1,5 Km nella prima metà del XIII secolo. Data la grande diffusione di questi congegni durante il Medioevo, non si può assolutamente pensare ad una soluzione tecnica di ripiego: essi infatti per molte comunità rappresentarono la risposta tecnicamente ed economicamente più adeguata alla necessità della molitura. Questo tipo di mulini presentavano diversi inconvenienti: la mancanza di stabilità, la facilità con cui potevano venire distrutti dalle piene, la difficoltà di controllarne i movimenti, che li rendeva un pericolo per le altre imbarcazioni; inoltre erano poco produttivi e troppo dipendenti dalle variazioni di corrente. Molto spesso l’impianto era dislocato nella parte interna di un’ansa più o meno ampia del fiume o torrente, la quale veniva in un certo qual modo ‘tagliata’ dal canale che conduceva l’acqua all’edificio e da quello di rifiuto, così che l’impianto veniva in pratica a trovarsi posizionato su una porzione di terreno completamente delimitata, su tutti i lati, da acqua corrente. Altre volte, quando l’edificio si trovava nelle vicinanze di un tratto rettilineo del corso d’acqua, i canali che servivano l’impianto, scorrendo parallelamente al fiume, venivano a delimitare un’angusta striscia di terra, larga talvolta pochi metri; ciò si verificava soprattutto in situazioni morfologicamente accidentate ed in aree in cui mancavano zone pianeggianti di una certa estensione20. Per quanto riguarda il rifornimento idrico, possiamo distinguere fra le opere di intercettazione delle acque e le opere di derivazione. Le prime sono quelle che sbarrano il corso del fiume in parte o totalmente e servono per innalzare il livello del pelo dell’acqua, assicurando una efficiente derivazione e nello stesso tempo creando
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una zona di relativa calma a monte. Al di sopra dello sbarramento, infatti, l’alveo si presenta in genere piuttosto profondo, compatto, non eccessivamente largo; a valle dello sbarramento, invece, l’acqua cade formando piccole cascate e si disperde su un alveo notevolmente allargato, dividendosi in diramazioni separate da isolotti ed aree asciutte talvolta coperte da vegetazione. Lo sbarramento, se sviluppato in altezza, poteva servire anche per aumentare la caduta. La presenza dello sbarramento, elemento fondamentale per l’attività dell’impianto, viene sempre citata nelle fonti medievali in connessione con l’opificio vero e proprio. Il termine che ricorre nei documenti consultati è esclusivamente steccaria, sia per il periodo medievale che per quello successivo21. Già la parola stessa suggerisce che doveva trattarsi di una struttura in cui non erano previste parti in muratura, ma piuttosto semplici palificazioni con impiego di materiali deperibili. La tecnica costruttiva utilizzata consisteva nell’infiggere profondamente entro il letto del fiume numerosi grossi pali, disposti in file parallele, in modo tale che sporgessero in parte al di sopra del livello naturale dell’acqua. Gli spazi fra i pali venivano riempiti con fascine, intrecci di giunchi e sassi; il fiume stesso, poi, trasportando fango e pietrisco, contribuiva a rendere più solida la struttura. I vantaggi principali di una struttura come la steccaia, rispetto ad una vera e propria diga in muratura, consistevano essenzialmente nel fatto che era relativamente semplice e poco costosa da costruire, non necessitava di conoscenze tecniche troppo complesse per la messa in opera, era meno pericolosa in caso di piena perché il fiume, tracimando con facilità al di sopra delle palificazioni, più difficilmente provocava allagamenti a monte. D’altra parte, però, necessitava di una continua manutenzione, era meno efficace e più dispersiva nell’innalzare il livello dell’acqua in caso di scarsa portata, veniva facilmente distrutta dalle piene stesse.
Le opere di derivazione erano quelle che consentivano di far arrivare l’acqua dal fiume alimentatore fino all’edificio vero e proprio e consistevano nella presa, nel canale di alimentazione e nel bacino di raccolta22.
21 Cortese, L’acqua, il grano, il ferro, cit. p. 57. 22 Cortese, L’acqua, il grano, il ferro, cit. p. 58.
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La presa era semplicemente il dispositivo che, posto poco più a monte dello sbarramento permetteva all’acqua di immettersi nel canale adduttore. In molti casi era costituita soltanto da un imbocco scavato nel terreno, privo di qualsiasi struttura muraria.
Il termine torcitorium ricorre spesso nella documentazione scritta, quasi sempre in associazione con termini quali steccaia, gora, fuitum, all’interno di elenchi degli elementi accessori di un mulino. Tuttavia non risultano del tutto chiare la struttura e la funzione di questo dispositivo: sembra comunque che si trattasse di un’opera atta a captare l’acqua di un canale comune deviandola verso le condotte di ciascun edificio; in pratica una presa d’acqua, forse dotata di palificazione e paratoia regolabile.
Il canale di alimentazione degli opifici, viene quasi esclusivamente definito gora, sia in epoca medievale che moderna. Il termine gora, nel significato di canale artificiale, non compare nel repertorio romano, bensì nel latino medievale. La struttura materiale consisteva in un semplice canale scavato artificialmente nel terreno, la cui lunghezza poteva variare notevolmente: si va da poche decine di metri fino a diversi chilometri, ma naturalmente sono più frequenti le situazioni intermedie. Il percorso poteva costeggiare il fiume oppure allontanarsene notevolmente dopo il tratto iniziale: è possibile che ciò non dipendesse esclusivamente, come si potrebbe pensare in un primo momento, da fattori morfologici di pendenza del terreno, ma anche da questioni riguardanti le confinazioni delle proprietà ed i diritti sulle acque. La gora era scavata a sezione rettangolare con fondo piatto ed era delimitata da semplici argini di terra senza rivestimento. Periodicamente l’afflusso dell’acqua alla gora, così come agli altri canali, doveva essere interrotto, ed essi dovevano venire svuotati e ripuliti.
Talora lungo il percorso della gora sono presenti delle prese laterali secondarie, da cui poteva essere prelevata acqua per l’irrigazione, oppure per tenere ulteriormente sotto controllo il livello nella gora e quindi l’afflusso all’opificio; anche in questo caso la regolazione della luce di accesso avveniva per mezzo di paratoie lignee. L’acqua proveniente dalla gora, passando talvolta attraverso tratti sotterranei, o bocchette che potevano essere dotate di griglie, si immetteva di solito in una grande vasca, chiamata
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l’acqua, per permetterne un ulteriore controllo prima della caduta sulle ruote. Inoltre, nel caso di modesto apporto del fiume o torrente alimentatore, il bottaccio serviva per accumulare le acque in determinati periodi dell’anno, quando la portata naturale non era più sufficiente per creare l’energia idraulica necessaria al funzionamento degli impianti. Nei periodi di magra o di insufficiente o non continuo afflusso delle acque, queste venivano raccolte fino a completo riempimento del bottaccio, dopodiché esso veniva svuotato del tutto permettendo la macinazione per alcune ore. La vasca poteva essere semplicemente scavata nel terreno, e quindi delimitata solo da argini di terra, o più spesso essere circondata almeno in parte da muri; era comunque sempre situata ad un certo dislivello rispetto all’edificio, per permettere la caduta dell’acqua sulle ruote. Le dimensioni dei bottacci variavano a seconda dei casi, così come la profondità, che è però impossibile determinare con esattezza poiché si presentano attualmente quasi sempre interrati.
La struttura architettonica del mulino medievale, poteva notevolmente variare a seconda dell’importanza dell’impianto e del numero di macine che ospitava. Tuttavia l’edificio si sviluppava sempre in almeno due livelli: un piano terra, in genere costituito da un unico locale destinato alla lavorazione, nel quale si trovavano le macine, ed un piano inferiore, cioè un vano seminterrato occupato interamente dall’alloggiamento delle ruote e dei meccanismi. Questo vano rappresenta un elemento caratteristico delle strutture in cui era adottato il meccanismo di macinazione a pale orizzontali anziché verticali. Si tratta di un ambiente stretto e lungo, simile ad una galleria, sottostante al locale dove erano posizionate le macine. Il nome che gli viene attribuito generalmente, sia nella letteratura tecnica che nel linguaggio popolare, è “carceraio”
Quasi sempre, però, il mulino doveva prevedere anche un piano superiore, destinato ad abitazione per il mugnaio. A questo proposito è interessante vedere come nei documenti medievali si specifichi spesso che il molendinum è cum domo, evidentemente alludendo ad una distinzione fra i locali destinati alla macinazione e l’alloggio che spesso era sopra o adiacente ad essi.
Si è parlato fino ad ora soprattutto di impianti per la molitura. Non si devono però dimenticare gli utilizzi della macchina mulino per attività ‘industriali’: ad esempio,
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cartiere, ma soprattutto manifatture tessili. In questo caso parliamo di gualchiere, termine che indica, come il generico mulino, sia l’impianto che l’edificio che lo contiene. Nelle gualchiere delle manifatture tessili si eseguiva la follatura, cioè l’operazione del finissaggio dei tessuti di lana attraverso il compattamento del tessuto con l’infeltrimento, ottenuto con magli che battevano il panno, imbevuto di soluzioni alcaline, saponose o acide, azionati dalla forza idraulica. Il funzionamento generale delle gualchiere era uguale a quello del mulino per la molitura, solo che la forza idraulica, anziché far girare le macine, faceva muovere i rulli/cilindri (folloni) per compattare i tessuti. La meccanica delle gualchiere si basava su un grosso cilindro orizzontale, mosso da una ruota ad acqua, sulla quale una fila di denti sfalsati imprimeva un movimento alternato ad una serie di aste incernierate, che in tal modo comprimevano i tessuti di lana all'interno di vasche, provvedendo anche ad un'azione di riscaldamento. L’impianto si basava quindi sul follone, che poteva avere aspetti diversi: la posizione dei magli poteva essere orizzontale o inclinata; l’albero a camme poteva avere camme riportate o essere scavato nella massa dell’albero; i tessuti da premere potevano essere disposti contro un paracolpi nel caso di magli verticali o nel caso di magli orizzontali messi in una vasca.
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4.
Origine e diffusione del mulino in Toscana tra l’VIII e l’XI secolo
.
4.1.
Breve descrizione delle caratteristiche idro-morfologiche del
territorio toscano medievale.
Per una migliore comprensione della regione e dei luoghi che andrò a citare descrivendo le strutture molitorie in Toscana credo sia opportuno dare uno sguardo d’insieme al territorio toscano nel medioevo con tutte le sue divisioni, la sua grande varietà e le sue peculiarità idro-morfologiche.
Dal punto di vista orografico la Toscana si caratterizza come terra di colline. Esse coprono all'incirca i due terzi dell'intera superficie, un quinto è montagna, un decimo appena è costituito da pianura. L'area montagnosa si identifica sostanzialmente con l'Appennino, che occupa la parte settentrionale e orientale della regione. Scendendo lungo la dorsale appenninica si incontrano dapprima i monti della Lunigiana e della Garfagnana, con la derivazione, breve ma imponente, delle Alpi Apuane, che degradano poi nel monte Pisano; quindi la montagna pistoiese, dove ha termine la parte più elevata della catena, che in questo tratto si mantiene quasi costantemente sopra i 1.500 metri, con vette che superano spesso i duemila. Più a sud, l'Appennino si deprime sensibilmente nei crinali del Mugello, del Casentino e della Val Tiberina, da cui si staccano i contrafforti del Pratomagno, dell'Alpe di Catenaia, dell'Alpe di Poti. Qui le vette superano raramente i 1.500 metri; i valichi si aggirano intorno ai mille, ma spesso
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scendono sensibilmente al di sotto. Fuori dell'Appennino non vi sono praticamente altre aree montagnose, tranne il cono vulcanico dell'Amiata, la «Montagna» per eccellenza della Toscana meridionale con i suoi 1.738 metri. I monti del Chianti e le colline Metallifere, per quanto sfiorino o superino di poco i mille metri, hanno più le caratteristiche delle zone collinose, grazie al paesaggio fortemente ondulato, che non la struttura aspra della montagna. Una serie di vallate e di conche si insinuano nella catena principale dell'Appennino, o tra questa e i maggiori contrafforti, formando una serie di subregioni che portano spesso nomi di origine antica: Lunigiana, Garfagnana, Mugello, Casentino, Valtiberina. L'area collinare si estende principalmente a sud dell'Arno: il monte Amiata a mezzogiorno, il mare a occidente, la Valdichiana ad oriente, ne segnano all'incirca i confini. Le ondulazioni, più dolci lungo le valli trasversali formate dagli affluenti di sinistra dell'Arno (Greve, Pesa, Elsa, Era), nei dintorni di Siena, nell'alta valle dell'Ombrone, ai margini della Valdichiana, diventano più sensibili lungo i monti del Chianti, nella Montagnola, nelle colline Metallifere, nella Valdorcia. A nord dell'Arno il paesaggio collinare si estende sulle prime propaggini dell'Appennino e del monte Albano, che divide la pianura fiorentino-pistoiese dalla Valdinievole e dalla piana di Lucca23.
La pianura toscana è poca cosa: un lembo, più o meno stretto, lungo il litorale tirrenico, interrotto in alcuni punti (a sud di Livorno, e poi tra Piombino e Talamone) da colline che strapiombano direttamente sul mare; quindi i bacini dei fiumi principali. Lungo il corso dell'Arno sorgono l'ampia conca di Firenze e di Pistoia (formata dagli affluenti di destra, l'Ombrone e il Bisenzio), la striscia pianeggiante del Valdarno di sotto, che si allarga a nord nella Valdinievole e poi, costeggiando il monte Pisano, fino alle porte di Lucca e alla valle del Serchio. Tra gli altri corsi d'acqua, la Cornia, l'Albegna, la Bruna e soprattutto l'Ombrone formano nel tratto terminale pianure alluvionali abbastanza ampie, che sono tra le aree più fertili della Maremma e dell'intera Toscana. All'interno, le aree di pianura sono ancora più ristrette: il piano d'Arezzo e il Valdarno di sopra, la Valdichiana e l'alta Valtiberina, alcune conche nei pressi di Siena, formate da
23 G. Pinto, Un quadro d’insieme, in G. Pinto, Campagne e paesaggi
toscani del Medioevo, Firenze 2002, Distribuito in formato digitale da «Reti Medievali»),
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terreni alluvionali, tra cui, più ampia di tutte, il piano d'Orgia, nella parte inferiore della Val di Merse24.
La pianura di Pisa e la Versilia e il litorale maremmano erano ricoperti da paludi e stagni. I corsi d’acqua che scendevano dalle colline non riuscivano a sfociare direttamente nel mare durante il medioevo e per questo si creavano zone paludose vicino al mare.
Nella parte interna della Toscana, un'altra area paludosa assai ampia era quella formata dalla Chiana, che occupava il fondovalle tra Arezzo e Città della Pieve, creando una serie di conche palustri, tra cui, nella parte centro-meridionale, i laghi o 'chiari' di Montepulciano e di Chiusi. Era così debole la pendenza del fiume verso l'Arno e così lento il suo corso, che Chiana divenne allora sinonimo di palude. La gran parte delle bonifiche, delle costruzioni e dei canali del territorio toscano non vennero realizzate durante il medioevo, ma in epoca moderna e contemporanea.
A sud di Siena si estendeva, e si estende, la più ampia delle pianure interne del territorio senese, eccezion fatta, naturalmente, per la Valdichiana. È formata dalla Merse e dal suo affluente Rosìa; la limitano le colline della Montagnola, il poggio di Siena Vecchia e quelli di San Rocco a Pilli e di Bagnaia. La parte meridionale di questa ampia conca formava il Padule d'Orgia e il piano di Val di Merse.
Alla fine del Medioevo, tra le aree più fertili e più intensamente coltivate della Toscana, spiccavano le pianure che circondavano Lucca, Pistoia e Prato, dove una serie di interventi di regolamentazione e di canalizzazione delle acque resi possibili anche dal fatto che si trattava dei margini più elevati di più vaste pianure alluvionali avevano messo a disposizione terreni freschi e profondi, dalle buone caratteristiche fisiche e chimiche che producevano ottimi raccolti.
In Toscana fatta eccezione per il fiume Arno gli altri corsi d’acqua sono i classici fiumi appenninici a carattere torrentizio. Gli affluenti dell’Arno di sinistra (Greve, Pesa, Elsa, Era) e di destra (Sieve, Bisenzio, Ombrone pistoiese, Pescia, Usciana) nei momenti
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di piena invernali in diverse occasioni hanno fatto straripare l’Arno. Altri fiumi toscani appenninici importanti a nord della regione sono il Magra, il Serchio e Lima, mentre a sud e a ovest il Cornia, l’Ombrone, l’Orcia, Cecina, Merse, Farma e Chiani. Il loro carattere torrentizio causava una bassissima portata d’acqua durante i mesi estivi con conseguente difficoltà di usare la forza dei corsi d’acqua per tutto l’anno.
4.2. Origine del mulino in Toscana tra l’VIII e l’XI secolo.
La più antica carta toscana menzionante un mulino risale al 726: il chierico Filiperto del fu Filimari, fabbro pistoiese, vendeva al medico Guaidaldo diversi beni tra cui «omnem portionem eius de mulino qui edificatus est in flubio qui dicitur Braina»25. Per l’anno 754 abbiamo l’atto di fondazione del monastero di S. Pietro di Monteverdi (Massa Marittima), dove il fondatore Vualfredo precisa che questo «abeat portionem meam de molino et casa de Caldana [...] et omnem adiacentiiam ad ipsa casa vel molino». Verso la fine dello stesso secolo, nel 798, una carta nella quale un certo Willeramo assegna un certo numero di beni a la chiesa di S. Pietro a Vaccoli menziona «alium campum … ubi dicitur ad Molinum». Nell’anno 874 il vescovo di Lucca Gherardo affitta un «fundamento de molino qui esse videtur in aqua que dicitur Teupascio [...]una cum omnii legnamen et machinas»26.
Le fonti scritte del IX e del X secolo mostrano che all’edificio mulino si affiancavano una casa per gli operatori e qualche servizio accessorio. Così, ad esempio, nell’ottobre del 822, un certo Grosso, figlio del defunto Orso, concedeva al prete e preposito del monastero di San Salvatore di Monte Amiata «terrola mea qui posita est in Pantanu, finibus maritime, ad molinum edificandum ... terrola per lungo pedes
25 P. Aebischer, “Les dénominations du "moulin" dans les chartes italiennes du
Moyen Âge”. Bulletin Du Cange, Archivum Latinitatis Medii Aevi, VII, 1932, p. 61.
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quadragenta et per lato pedes trigenta, super ripa [del fiume Marta] ad casa faciendo una cum accessione sua … ipsa terrola ad molino vel ad casa faciendo»27.
L’esempio più antico dell’uso di molendinus in Toscana per indicare il mulino risale al X secolo: si trova in un diploma regio, una donazione di Berengario I a Pietro, vescovo d’Arezzo, nel 916. Inoltre, la parola non appare che nella formula «una cum casis, terris … aquis, aquarumque de cursibus, molendinis, piscationibus»28. Per il X
secolo abbiamo altri due citazioni di mulini in territorio lucchese: un atto del 964 menziona una «casa et molino, cum curte, orto…» a Vorno, e una carta del 983, con la quale il vescovo Teudigrimo concede diversi possedimenti a un certo Domnucio, dona l’indicazione «in loco et finibus Teupascio territurio populonense [...] fundamentum et casalino [...] una cum omnibus casis et cassinis [...], sive cum omni molina et aqueducia»29.
Dopo il X secolo i riferimenti a mulini sono più numerosi nelle fonti scritte toscane, il che dimostra la loro crescente diffusione in tutta la regione. Nel 1003 i fratelli Rainieri e Bernardo donano al monastero dei SS. Salvatore e Alessandro a Fontebuona tutti i loro beni, fra cui «ecclesia Sancti Angeli con donnicato et cum molendino»30. Nel 1028 il vescovo di Arezzo Teodaldo conferma al suo capitolo i suoi possedimenti donati dai suoi predecessori compresi «molendinum unum iuxta pontem istius civitatis aretine31». Nel 1080 Berta vende dei fondi ai canonici d’Arezzo e nell’elenco dei beni cita: «terras, curtes, castella [...] cum omnibus adiacentiis earum, idest casis, vineis … molendinis, aquis». Il primo caso questo di molendinus in una formula locale toscana.
27 W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus, Tubingen, 1974, doc. n. 89, a.822,
citato in Galetti, I mulini monastici tra IX e XI secolo, cit. p. 283.
28 U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo, vol. I, Firenze, 1899,
p. 79, citato in P. Aebischer, Les dénominations du "moulin", cit. p. 64.
29 Aebischer, Les dénominations du "moulin", cit., p. 62. 30 Aebischer, Les dénominations du "moulin", cit., p. 65. 31 U. Pasqui, Documenti, cit., p. 65.
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Accanto a molendinus troviamo usato in Toscana anche aquimolus. L’esempio più antico dell’uso di questo termine lo si ritrova nel 1097 nella zona di Arezzo: figura in uno scritto proveniente dal monastero di Camaldoli: «Cum casis, terris, vineis, pratis, campis, silvis, aquis, rivis, pascuis, molendinis, aquimolis, cespitibus, fontagnis stagnis»32. La maggiore diffusione del termine molendinus tra gli elementi delle formule di pertinenza con le quali i notai indicavano le caratteristiche dei beni che venivano negoziati al fianco degli elementi relativi all’abitazione come gli appena citati casis,
vineis, pratis, pascuis, silvis sono certamente una spia della diffusione del mulino.
Come abbiamo visto in Toscana fino alla fine dell’XI secolo degli opifici idraulici si hanno notizie soprattutto negli archivi monastici. Solo alla fine del XII secolo si ha un maggiore impiego e un perfezionamento degli impianti idraulici a scopi produttivi anche in ambito comunale.
32 Regesto di Camaldoli, a cura di L: Schiaparelli- F. Baldasseroni, vol. I, Roma
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5. I mulini dei monasteri e degli altri enti ecclesiastici in
Toscana tra XI e XIV secolo.
5.1. I mulini degli enti ecclesiastici a Calci tra XI e XIII secolo.
Il territorio di Calci è situato tra le città di Pisa e Lucca ai piedi del Monte Pisano ed è parte della Valgraziosa. Il Monte Pisano ha da sempre occupato una posizione non marginale, trovandosi in un’area di confine tra i territori delle città di Pisa e Lucca e delle rispettive diocesi e dunque al centro di un continuo processo di espansione e contrazione dei due comitati. L’importanza strategica del rilievo, che raggiunge una altezza di 910 m s.l.m. sul Monte Serra, derivava anche da una efficace azione di controllo della viabilità, non solo terrestre ma anche fluviale e lacuale. Il Monte Pisano era infatti circondato da vie d’acqua navigabili che facilitavano il trasporto di persone e di merci lungo il suo perimetro, attraverso i fiumi principali e i canali che mettevano in collegamento laghi e paludi, anch’esse in buona parte usate per la navigazione locale. I fiumi che scorrevano, e che scorrono ancora pur con qualche variazione, alle pendici del rilievo collinare erano l’Arno e l’Auser, quest’ultimo con almeno due rami secondari nel Val di Serchio pisano: il Tubra e l’Auserclus. Nella piana lucchese l’Auser era l’immissario principale del lago di Sesto. Il lago di Sesto era unito verso sud all’Arno grazie al canale navigabile del Cilecchio, che sboccava a Bientina, mentre a nord con l’Auser si rendeva raggiungibile Lucca per via d’acqua. Le principali vie di terra che tracciavano un percorso tra Pisa e Lucca con il medio e basso Valdarno, con Firenze e con la Francigena, e che in pratica circondavano il Monte Pisano lungo le sue pendici, erano la Strata Vallis Arni,
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sulla sinistra d’Arno, la via Pedemontana lungo il lago di Sesto e la strada lungo monte attraverso la valle del Serchio.
Il toponimo Calci è attestato con certezza nei documenti dell’IX secolo ma fino all’XI secolo la documentazione relativa a questa comunità è molto scarsa. La fondazione della pieve di Calci è da attribuire alla volontà di Daiberto, arcivescovo di Pisa dal 1088 al 1098. Infatti, in una “recordationis cartula”, redatta a futura memoria nel gennaio 1174 i canonici della pieve di Calci riconoscevano i diritti di patronato che spettavano su di essa al vescovo di Pisa. Il documento ci informa che, il luogo in cui sorgeva la pieve, era stato precedentemente occupato da una cappella vescovile denominata Santa Maria “ad Curtem”. Tutta l’area occupata dalla chiesa e dagli edifici annessi (chiostro, campanile, ospedale e cimitero) era in origine di proprietà vescovile. Nei secoli XII e XIII, oltre alle notizie riguardanti la pieve si trovano molti documenti relativi ad un’altra importantissima chiesa calcesana: Santa Maria a Villarada.
Alla fine del Duecento nel territorio di Calci erano presenti ben 18 chiese. Di esse oggi ne rimangono solo otto: San Martino di Montemagno; Sant’Andrea a Lama; San Michele di Castelmaggiore, San Pietro di Vicascio; Santa Maria di Montemagno; San Salvatore del Colle; San Bartolomeo di Tre Colli e Sant’Agostino di Rezzano. Nel territorio calcesano esistevano anche alcuni monasteri tra i quali ricordiamo San Michele alla Verruca e la Certosa, oltre alla già ricordata canonica di Sant’Agostino di Nicosia.
Dal Monte Pisano scende il torrente Zambra che attraversa il territorio di Calci. Questo corso d’acqua costituì la fonte di approvvigionamento idrico necessaria per la nascita e lo sviluppo dei mulini calcesani.
A Calci è quasi impossibile identificare qualche resto dei mulini calcesani medievali. Solo attraverso l’analisi della documentazione d’archivio possiamo conoscere il nascere e lo svilupparsi degli impianti molitori di Calci nel Medioevo.
Il più antico documento che fa riferimento ad un mulino è una pergamena datata 15 dicembre 958, nella quale si parla di un mulino donato dal vescovo Grimaldo ai Canonici della cattedrale pisana, posto in Calci e confinante con terre della chiesa di Santa Maria a Villarada. Questa pergamena è l’unica testimonianza relativa al X secolo.
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L’attestazione successiva risale, infatti, ad un secolo dopo ed è datata 13 dicembre 105733. Si tratta di una “venditionis cartula” redatta in un non meglio identificabile “loco et finibus Castilione” con la quale Ugo del fu Guido e Adaleita, sua moglie e figlia del fu Ranieri, vendevano a Uberto “filio Imille” la loro porzione della chiesa di “sancte Marie Villarade et sancti Martini” in Calci. La pergamena specifica che la quota in oggetto era «de tertiam portionem, quartam portionem» della chiesa; veniva inoltre venduta la «quartam portionem de uno molendino que dicitur sancte Marie, qui est posito prope suprascripta eclesia sancte Marie». Oltre a questi, Ugo e Adaleita vendevano anche altri beni (“res”) che la suddetta chiesa “in beneficio abet”, dislocati tra la vallata calcesana e la piana dell’Arno, «in loco et finibus Calci in loco ubi dicitur a Villa, quas condam Chetio massaio abuit et detinuit et in loco Castagneto seo in orto que dicitur suprascripta eclesia sancte Marie et in loco ubi dicitur a Sancto Vito seo in loco Tianula adque in loco Crispiniano et in Aquafrivilam et in loco et finibus Campo seo in loco Crunulo adque in loco et finibus Mediana seo in loco et finibus Pratale». Questo mulino, posto direttamente lungo il corso dello Zambra e nelle immediate vicinanze dell’edificio religioso, serviva probabilmente alla macinazione dei cereali prodotti nell’ambito degli stessi possedimenti della chiesa ed era utilizzato da diversi proprietari. Infatti, Ugo ed Adaleita non detenevano tutta la proprietà del mulino, ma sola la quarta parte34.
Nel XII secolo la diffusione dei mulini dovette subire un incremento notevole, determinato probabilmente dalla crescita demografica, testimoniata nel XII secolo in tutta l’area pisana.
Il primo atto del XII secolo è dell’8 novembre 1115, con il quale un certo Uguccione del fu Seretto vendeva a Pietro, priore della chiesa pisana di San Pietro in vincoli, le sue «partes integras de uno molendino cum aqueducio et sepe atque omne instrumentum ad eundem molendino pertinente, que est posito in Calci prope ecclesiam sancte Marie et nominatur in loco Guilierade». Nel documento si precisava: «Predictas meas portiones integras de predicto molendino [...] conpeti exinde mihi unu die et tertia
33 T. Panduri, “Como acqua de mola”. Mulini ad acqua nel territorio di Calci in
età medievale, Edizioni Plus, Pisa 2001 (Studi pisani 2), p.51.
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portione alio die [...] vendo et trado, pro qua recepi decem solidos de moneta Lucca»35. Inizia con questo documento, la lunga serie di acquisizioni attraverso cui la canonica di San Pietro in Vincoli cercò di “controllare” la maggior parte dei mulini della Valgraziosa. Analizzando i documenti del XII si nota come la canonica cercò di acquistare diverse quote dei mulini calcesani arrivando quasi ad avere un monopolio sugli impianti molitori. A tal proposito una “cartula venditionis” datata 27 aprile 1126 con la quale due fratelli Lamberto e Ranuccio, figli del fu Sigerio, insieme con Gemma, figlia del fu Pagano e moglie di Ranuccio, con Mingarda, moglie di Sigerio, e figlia del fu Tebaldo, vendettero, per cinquanta soldi, a Pietro, priore della canonica di San Pietro in Vincoli, un pezzo di terra a Calci in luogo detto “sancta Maria Aguiliarada”36. Si trattava di una “una petia de terra cum vinea et aqueductu”, cioè un appezzamento di terra destinato alla coltivazione della vite, ma solcato da un canale. I suoi confini erano così descritti: «unum caput in Sambra et aliud in via publica, latus in botro Bonni es aliud latus in cimitero ecclesie sancte Marie».
Non molto lontano da lì, probabilmente, era situato un mulino di proprietà della stessa canonica, alimentato da quell’acquedotto. Infatti, tramite il possesso dell’acquedotto, il priore voleva essere certo che il suo mulino avesse sempre acqua a sufficienza e che nessuno potesse impedire il regolare funzionamento dello stesso37.
Un documento del 14 gennaio 1139 attesta uno dei pochissimi casi in cui un ente ecclesiastico vendeva un mulino. E’ un atto di vendita redatto a Riglione, con il quale: «Martinus abbas monasteri Sancti savini sito valle Arni ad aliam terram emendam monasterio satis necessariam, consilio et auctorictate Uberti sui camerarii, Athonis aliorumque quorum confratrum et fidelium, vendit Helena abatisse monasteri Sancti Mathei posito in Pisa ubi dicitur al Poio, unam integram petiam de terra cum molendino posito et edificato super eam et aqueducio iuxta plebem de Calci vocatur Molendinum
35 R. Nardi, Le pergamene dell’Archivio di Stato di Pisa dal 1115 al 1130, tesi di
laurea, Pisa, a.a. 1964/65, rel. C. Violante, n. 2, pp. 5-7, in Panduri, “Como acqua de
mola”, cit. p. 55.
36 Nardi, Le pergamene dell’Archivio di Stato di Pisa, cit. p. 57. 37 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 58.
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Salvestri: caput unum in viis carrariciis, aliud in terra Sancte Marie; latus unum in viis carrariciis, aliud in terra monasteri Sancti Savini. Recepit ab eo pretium DXL sol.»38.
La vendita testimonia dunque la cessione di un pezzo di terra con mulino che l’abate di San Savino vendeva alla badessa di San Matteo, ma nel documento si specificava che la vendita avveniva “ad aliam terram emendam monasterio satis necessariam”, dunque era una vendita dettata dalla volontà, da parte dell’abate, di compiere un altro acquisto. La necessità di giustificare la vendita è facilmente comprensibile ricordando che i beni ecclesiastici erano inalienabili, a meno che dalla loro cessione non derivassero innegabili vantaggi patrimoniali. E proprio dell’abate Martino sappiamo che cercò di concentrare i possedimenti del monastero nelle località più vicine ad esso liberandosi nello stesso tempo di beni più dispersi e meno controllabili. Mise in piedi una politica di riorganizzazione patrimoniale, testimoniata anche da un altro documento che vede protagonista sempre l’abate Martino. Si tratta di una “venditionis cartula”, redatta “apud Calci” il 10 ottobre 1147, con la quale Martino vendeva a tale Adulino detto Cicala del fu Ranieri 6 pezzi di terra a Calci posti in luogo “ubi dicitur Sala”, per il prezzo di 70 denari lucchesi dati «pro acquirenda terra et molendino quod est posita in Calci prope castello de vicecomes a Guiscardo quondam Benedicti Sclani». Questo significa che l’abate Martino vendeva i 6 pezzi di terra per comprarne un altro, dotato di mulino, ubicato “prope castello de vicecomes” nella zona dell’attuale Castelmaggiore39.
Al 26 marzo 1159 risale poi un “laudamentum” redatto “in villa que nominatur Calcis, infra claustrum ecclesie sancte Marie a Guiliarada”, con il quale i consoli calcesani decisero sulla vertenza in corso tra Signoretto, priore della chiesa di san Pietro in Vincoli che agiva per la sua chiesa, e Ugo, prete della chiesa di Santa Maria a Villarada. La disputa riguardava il possesso di un “aqueducio et terra ipsius aquiducii veteris molendini suprascripte ecclesie Sancti Petri”. Prete Ugo sosteneva che: «suprascriptam aquiducii terram prenominate sue ecclesie tum proprietario iure partim quoque pro canonicis sancte Marie de Pisa esse dicebat velut eam nuper suo muro cluserat».
38 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 58. 39 Panduri, “Como acqua de mola”, cit. p. 58.